L'aes grave del Museo Kircheriano/Delle monete rappresentate nella classe delle Incerte

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Tavola XI. Dell’arte con che sono modellate le monete di questa prima classe
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DELLE MONETE RAPPRESENTATE NELLA CLASSE DELLE INCERTE.


In queste tavole incontransi due assi quello del n. 1. T. I. e l’altro della T. XI. classe I., che rimosso da quel non suo luogo, passa tra gl’incerti: due semissi T. I. n. 2. T. II. n. 1. forse quattro trienti T. I. n. 3. T. II. n. 5.T. III. n. 4. 7. sette quadranti T.II. n. 2. 3. 6. 8. T. III. n. 1.8. 9. 10. 11.: cinque sestanti T. I. n. 4. T.II. n. 4. 7. T. III. n. 3. 5.: tre oncie T. I. n. 5. T. III. n. 6. T. IV. n. 1,: una semoncia T. I. n. 6. Nelle tavole [p. 68 modifica]III. e IV. vi sono altre sei monete mancanti d’ogni segno di valore, cinque delle quali esser non sembrano se non oncie e semoncie.

Grave è il dispiacere che noi sentiamo del disordine di queste tavole e forse più grave è il danno che ne risentiranno le nostre dottrine, perchè crediamo che non vi mancherà chi voglia da questa confusione prendere pretesto d’assalirci e combatterci anche in quelle parti in cui i monumenti ci hanno ajutati a rinvenire quell’ordine, nel quale sta la vera scienza. Il fervido amore di patria, che ne ha rendute leggere e gioconde le fatiche durate per giungere al fine di questa prima giornata dell’aspro cammino, ne darà costanza a sostenere le arduità che in appresso ci aspettano. Il filo che solo può trarci fuori da un tal labirinto, sono le monete che mancano a questo medagliere. Con esse alla mano queste tavole rigetterebbono il nome che abbiam loro imposto d’Incerte, e si ordinerebbono a’ luoghi loro convenienti. I possessori di anelli tanto necessarj a tessere le nostre catene o serie di aes grave ce li facciano conoscere, che con noi professeranno a loro la più sincera gratitudine quanti sono i veri italiani e i dotti amatori di questi nobilissimi studj.

Sono in quattro tavole trenta monete, le quali secondo le nostre pratiche osservazioni tutte quasi appartengono alla provincia per la quale ci andiamo aggirando. Ne’ quadranti che sono sette, truovasi la massima varietà. Di essi uno solo a noi si palesa come di popolo oltramontano od adriatico: tutti gli altri sei pajono delle genti tirreniche stanziate tra il Tevere ed il Liri. Siccome poi il fatto ne ha convinti, che niuna serie ha più che un quadrante; così da questi sei potrebbesi argomentare che oltre la serie romana, le quattro latine, la rutula, la volsca, l’aurunca e la tiburtina, delle quali finora abbiam tenuto discorso, ben altre sei serie di aes grave proprio contasse un tempo questa provincia.

Rimettiamo il giudicare in particolare di ciascuna, quando il medagliere di questo Collegio Romano siasi fatto più ricco. Per ora ci terremo contenti ad un breve cenno intorno a’ due assi, i quali pure sembra che incomincino a rivelarci una qualche cosa di se. Il primo che è quello dal leone col parazonio in bocca e dal busto di cavallo, è richiamato dalla moneta coniata in bronzo e disegnata nella Tavola XII. sotto il n. 18. e da quella in argento del n. 20. Il secondo ne dà a vedere quell’Apollo incoronato d’alloro che nella Tavola XII. è inciso sotto il n. 16., e nel rovescio quel gallo che truovasi su le monete delle città poste su la sinistra del Liri, Aquino, Sessa, Tiano e Calvi.

Ma l’Apollo coniato del n. 16. e del n. 18. e il busto di cavallo del n. 20. sono le insegne de’ volsci, come il gallo è insegna delle città campane. Dunque se le nostre monete non sono né volsche, né campane, saranno senza meno d’una qualche gente che ebbe strette relazioni co’ campani e co’ volsci. Qui il giudizio nostro propende a dare agli equi di Preneste [p. 69 modifica]l’asse del leone e del cavallo; agli ernici quello dell’Apollo laureato e del gallo. La propension nostra verso Preneste è fondata nello stile della moneta e nella maggior distanza dal Liri che la sua impronta ne indica. La propensione verso gli ernici nasce dalla rozzezza nell’Apollo e nel gallo fuso, e dalla postura degli ernici su la destra riva del Liri, rimpetto ad Aquino, su la cui moneta v’è pure scolpito il gallo.

Se i nostri divisamenti non fossero al tutto vani, vorremmo che gli studiosi confrontassero la moneta d’argento che abbiamo detta de’ tiburtini Tavola XII. parte destra n. 1. con la moneta de’ prenestini pure d’argento sotto il n. 20 parte sinistra. Erano Tivoli e Preneste le più potenti città che avessero gli equi: amendue sono costrette a prendere insegna ed epigrafe romana: Tivoli elegge la lupa, Preneste il Marte romano.

Nella Tavola di supplemento su la parte destra sotto il n. 1. è disegnata la più curiosa delle monete appartenenti alla nostra provincia. Nel diritto, se il giudizio non ne inganna, è rappresentata Roma in guerresche e terribili sembianze: nel rovescio il giovenco nasconde forse il nome dell’Italia, nell’esergo l’epigrafe ROMA, nella parte superiore una L arcaica. Non possiamo esimerci dal dir quivi poche parole intorno a questa moneta, perchè indubitatamente spetta a questa prima classe.

A volerla pienamente interpretare, sembra a noi che prima debbasi con buona critica dimostrare, ch’essa non entra nel numero delle monete della prima età, e che non è propriamente romana. La L scolpitavi sopra sarebbe pruova bastevole, ch’ella non sia un asse. Roma non si è servita mai di quella lettera a indicare l’asse o la libra: le dieci varietà d’assi appartenenti a’ popoli di questa nostra provincia, ed esaminati finora da noi sottilmente, o non hanno alcun segno del loro valore, o hanno quello solo che presso i romani si è sempre adoperato ad indicare l’unità. Dunque quella L non può pigliarsi per indicazione di libra. Oltrediciò se questa moneta fosse un asse, non mancherebbe delle parti minori che ne formerebbono la intera serie. Anzi la epigrafe ROMA, come in tutte le serie scritte, sarebbe ripetuta nelle sei monete minori, e nella diversità delle impronte renderebbe certo non meno che facile il concatenarla. Per ultimo una certa somiglianza di stile tra monete diverse uscite da una medesima officina metterebbe come il suggello alla nostra serie. Ma né questo medagliere, né le ricerche da noi fatte altrove ci hanno finora dato a conoscere monete con tali caratteri; talché di nuovo conchiudiamo, questa non esser moneta legata con gli usati vincoli ad altre monete.

Ch’essa truovisi fuor de’ confini della prima epoca, basta l’epigrafe a dichiararcelo. Abbiamo nel medagliere di questo museo undici serie intere e quattro imperfette di aes grave d’una medesima provincia; e tranne la romana diminuita spettano tutte alla prima epoca. E pure in tanto numero di monete niuna se ne vede, che sappia mostrarci una qualsiasi epigrafe o [p. 70 modifica]monogramma. Or chi vorrà a buona ragione obligarci a contare fra le monete di quella età questa di cui discorriamo, su la quale in sì gran rilievo v’è scolpito il nome di ROMA ?

Ma noi l’escludiamo eziandio dal novero delle romane. Abbiam veduta Roma fondere la sua moneta da’ tempi prossimi quasi alla sua origine fino a che l’asse era disceso sotto il peso delle due oncie. In tanta lunghezza di tempi Roma non alterò mai le sue impronte, né mai loro aggiunse l’iscrizione del suo nome; quantunque in una parte di questo tempo non mancasse mai di scolpirvelo sopra le sue monete coniate. E perchè vorrem noi credere romana la presente moneta, la quale è fusa, è scritta, ed è in amendue le faccie mancante delle vere impronte del bronzo romano.

Ella è opinion nostra, che qualcuna delle città del Lazio nuovo, e forse quella medesima dove coniavasi il bifronte in oro, elettro ed argento, fondesse questa nobilissima moneta in quel tempo medesimo, in cui coniava le altre con epigrafe in tutto eguale. La ragione di questa singolarità era il commercio con Roma, la quale in que’ tempi facea correre per le mani de’ trafficanti i suoi decussi, tripondj edupondj. Questa moneta, uscita fortunatamente dalle terre latine, e venutaci alle mani nella primavera dello scorso anno, eguaglia il peso de’ maggiori tripondj romani: una seconda publicata dal De Zelada, e che non abbiam trovata tra quelle ch’egli quivi lasciò, eguagliava il peso dei tripondj romani minori. Forse ne’ traffici comuni si prendevano a vicenda questi per quella, e quella per questi. Questa interpretazione medesima noi daremmo al decusse con l’epigrafe ROMA publicato dall’Arrigoni, con la sola differenza, che portando questo la nota del valore scolpita sopra di se, lo vorremmo riconoscere proveniente dalla officina di Tivoli, la quale sola tra le ristabilite nel Lazio nuovo, ripigliò l’antica distribuzione delle libre e delle oncie. I tusculani adoperarono un’impronta tutta propria della nuova loro cittadinanza. Rappresentarono Roma prossima ad acquistare l’impero di tutta Italia simboleggiata nel bue. I tiburtini effigiarono la Venere frigia accompagnata alla vittoria de’ romani loro concittadini.

Nella Tavola di supplemento sotto l’ultima linea della parte sinistra ai numeri 1. 2. e 3. abbiam fatte disegnare tre antiche monete coniate onciali coll’epigrafe ROMA. La prima è un dextans col segno del semisse, che equivale a sei, e le quattro palle, che portano la moneta al valore di dieci oncie: le impronte sono la testa di Cerere e una vittoria in quadriga. La seconda è un triente con la medesima testa di Cerere e Giove che su la quadriga tiene il luogo della vittoria. La terza è un quincunce con la testa d’Apollo e i dioscuri a cavallo. Le abbiam qui collocate per avvisare gli studiosi, che stiamo facendo sopra di loro e sopra parecchie altre somiglianti un qualche studio. Finora possiam quasi dare per certo che non hanno una giusta relazione con la nostra provincia: anzi il quincunce, come diremo altrove, è forte argomento, che la moneta sia oltramontana ed adriatica, e la [p. 71 modifica]epigrafe ROMA pare indichi la cittadinanza che da Roma ricevuta avea il popolo a cui spetta.

Finalmente in fronte alla Tavola XII. abbiam fatto incidere i sessanta, quaranta e venti sesterzj, non per altra ragione, se non per rivendicarne il pieno diritto alle officine urbane di Roma. L’Eckhel con qualc’altro, ammirando il magnifico magistero di quelle monete, le vuol fabricate nella Campania o nella Lucania. Noi ci appelliamo da prima alle monete coniate della prima parte della Tavola III. C. Perchè tutte quasi sono d’una medesima bellezza, avrem perciò ragion buona da conchiudere, che neppur una d’esse sia stata operata in Roma? E molti de’ più antichi denari romani non son eglino pure d’assai buona maniera? Anch’essi adunque li manderemo raminghi dalle zecche di questa città? Abbiam già fatto osservare, che nella occorrenza della doppia introduzione de’ due diversi generi di moneta fusa e coniata, Roma si servì, come sembra, d’artisti stranieri, e che dopo introdotte le due arti, ebbe o nell’interno o dal di fuori delle sue mura alcuni ottimi operatori di conj, da’ quali pare debbansi ripetere le non barbare e non cattive monete romane. D’altronde se debbasi ricorrere alle officine lucane e campane per trovar ragione di questi aurei, converrà conchiudere, che Roma concedeva a’ latini il diritto ed il vanto di coniare l’oro; il vedeva presso tutte quasi le città dell’Italia più meridionale e della Sicilia, ma ch’ella per se non se ne prevalse, se non verso i tempi ultimi della republica. Per ultimo il segno del valore su la moneta d’oro e d’argento è proprietà quasi esclusiva di Roma. Gli stessi latini coniarono il proprio oro ed argento senza stampare sopra il prezzo: solo i tre nostri aurei portano questo carattere. Ma se la dottrina intorno alla moneta latina troverà fede, come ci giova sperare, si diminuirà in gran parte il bisogno d’andar pellegrinando per istraniere provincie, a fine di rinvenire le fabriche di questi e di molt’altri monumenti, che truovansi continuamente nelle nostre terre latine.