L'edera (romanzo)/VIII

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Capitolo VIII

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VII IX

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VIII.


Zio Castigu ritornò solo verso il tramonto: Annesa s’accorse che egli era serio e turbato.

— Lo hanno preso? — domandò.

— Si è costituito. Ha fatto male!

Ella diventò livida in viso, ma si animò febbrilmente.

— Perchè male? Credete forse ch’egli sia colpevole? Anche voi, lo credete? Ebbene, vedremo, allora, quando i medici faranno la perizia e il morto parlerà... Vedremo se il vecchio è stato bastonato... vedremo cosa dirà...

— Annesa, tu vaneggi; fammi sentire il polso: tu hai la febbre. Tu non hai toccato cibo; perchè?

Egli le strinse i polsi e la guardò fisso: anch’ella lo fissava, coi grandi occhi beffardi e tristi, chiari di debolezza e d’angoscia; a un tratto liberò le sue mani dalle mani del pastore, gliele mise sul petto, lo respinse, e cominciò a gridare:

— Anche voi li credete colpevoli? Voi, voi, miserabile, voi che avete mangiato il loro pane, che avete dormito nella loro casa? Chi più crederà dunque alla loro innocenza? [p. 205 modifica]

— Calmati, donna! — disse zio Castigu, agitando le mani. — Tu sei arrabbiata ed hai ragione, ma non prendertela con me. Sentimi, invece: ragioniamo un poco. Nessuno più di me crede all’innocenza dei miei padroni: io ho pianto tutta la notte, vedi, ed anche tutto il giorno: ho pianto sulla loro sorte come si piange davanti ad una tomba... Ascoltami, figlia: io direi una cosa... Tu dovresti parlare con prete Virdis...

Ella si calmò, si rimise a sedere sulla pietra, e non rispose: anzi strinse le labbra, come per impedirsi di parlare involontariamente. L’uomo si curvò, le mise una mano sulla testa.

— Cosa dici, Annesa? Io direi...

Ella fece cenno di no.

— Prima gridavi, ora stai troppo zitta: è vero, io stesso ti dissi di tacere come le pietre... Ma da ieri ad oggi molte cose sono accadute...

— Nè ieri, nè oggi, nè mai io ho da dire niente a nessuno, — ella disse con voce rauca. — Perchè volete che parli col prete?

— Così... per combinare sul da farsi...

Ella scosse ancora il capo.

— Ad ogni modo io, stanotte o domani mattina scenderò in paese, e saprò qualche cosa.

— Non dite ch’io sono qui! Mi avete accolta: non mi tradirete. Sarebbe il tradimento di Giuda...

— Alle tue parole neppure rispondo! — egli disse sdegnosamente: poi s’intenerì, le toccò la fronte, avvicinò a lei il recipiente del latte. — Tu hai la febbre: senti, ti lascio qui il mio cappotto, poi ti [p. 206 modifica]porterò un sacco. Non temere: qui sei sicura come eri sicura nel ventre di tua madre...

Ma nonostante queste parole ella non si sentiva sicura. Se mai, le pareva di trovarsi nel ventre di un mostro di pietra, o entro una tomba di roccia simile alla tomba che chiudeva il gigante morto. Anche lei era stata condotta là dentro dall’astuzia e dalla malignità della sua misera sorte... Ma finchè poteva, voleva ribellarsi e combattere.

— Zio Castigu ha indovinato tutto, — pensava — e vuole farmi confessare, vuol farmi dire tutto al prete. Ma io non voglio... non ancora...

E un’altra notte di febbre e di angoscia passò. Ella si sentiva sfinita: le pareva che le pietre la schiacciassero, e si domandava se la reclusione era così, un nascondiglio per tutta la vita... La smania della febbre la incitava a fuggire; incubi paurosi la soffocavano: le pareva di trovarsi sotto una coperta nera, e sopra c’era la vittima, e curvi su lei i tre dottori che mormoravano parole strane. Fuggire!... Fuggire! Ma dove andare? Tutto il mondo, oramai, era per lei un luogo di pericolo e di affanno.

Sorse di nuovo il giorno e di nuovo tramontò. Le notizie che portava zio Castigu erano sempre tristi: non si sapeva nulla della perizia medica, nè dei lunghi interrogatorii coi quali il pretore tormentava gli accusati.

— Domani, forse, i miei padroni saranno condotti nelle carceri di Nuoro. Pensa, Annesa, pensa! — disse zio Castigu, giungendo le mani con [p. 207 modifica]disperazione. — Don Simone Decherchi e donna Rachele legati e messi su un carro come volgari malfattori! Anche le pietre piangeranno.

— Che fare? — ella domandò.

— Che fare? — ripetè il vecchio.

Si guardarono disperati: poi ella proruppe:

— Ma i parenti, che fanno? Perchè non si muovono e non cercano degli avvocati?

— I parenti? Gente tua, morte tua! Nessuno si è mosso. Solo prete Virdis cerca di aiutarli. Ma che può fare? Vedi, donna, io sono quasi tentato di accusarmi del delitto, per salvar loro...

— Direbbero che siete stato soltanto complice... - ella disse con tristezza.

La sera del terzo giorno l’uomo semplice che non possedendo altro voleva sacrificare la sua libertà per gli amati padroni, penetrò nel nascondiglio e sedette accanto ad Annesa.

— Che avete da raccontarmi? — ella domandò subito, con la sua voce sempre più cavernosa. — Che c’è di nuovo?

— C’è questo: tutti dicono che tu dovresti presentarti alla giustizia. Se ella si nasconde, — tutti dicono — ella deve sapere qualche cosa. Anche prete Virdis è di questo parere. È stato egli a consigliar Paulu di costituirsi, e vorrebbe che anche tu ti presentassi...

— Che sa egli di me?...

— Annesa, egli sa che io ti vedo...

— Voi... voi mi avete tradito... — ella gridò, alzandosi. — Giuda, Giuda... peggio ancora di Giuda... [p. 208 modifica]Voi avete tradito una povera donna... Ora non vi resta che legarmi e consegnarmi ai soldati...

— Non vaneggiare, — riprese il vecchio, calmo e triste. — Sentimi. Io non ti ho tradito: io sono andato da prete Virdis, perchè egli è la sola persona che si cura dei nostri poveri padroni e vuol salvarli a tutti i costi. Tu sai che egli, a sue spese, ha fatto venire da Nuoro un avvocato. Tu sai che è stato egli a consigliare Paulu di presentarsi alla giustizia. Egli mi disse: « Darei dieci anni di vita per poter parlare con Annesa: ella sola, forse, può salvare i suoi benefattori. Il loro destino è nelle sue mani come un giuocattolo nelle mani d’un fanciullo...» Annesa, figlia del Signore, ascolta la parola di due uomini onesti. Nè io, nè prete Virdis abbiamo mai commesso una cattiva azione: e non vogliamo cominciare a commettere il male perseguitando una donnicciuola sventurata... Del resto, tu dici che non pensi ad altro che a salvarli: e questo è il nostro scopo. Bisogna salvarli, Annesa: bisogna salvarli...

Ella piangeva, con la testa appoggiata alla roccia. Sentiva che il vecchio aveva ragione. Che aspettava ancora? Tre giorni erano trascorsi, ed ella non aveva fatto niente, ella non aveva tentato niente per loro: bisognava muoversi, vincere l’istinto selvaggio che la costringeva a nascondersi come una bestia ferita.

— Se tu hai paura di ritornare al paese, prete Virdis verrà qui. Del resto nessuno ti costringe a [p. 209 modifica]fare quello che non vuoi. Hai pure una coscienza, Annesa: che ti consiglia?

— Ebbene, non devo dirlo a voi! — ella rispose, sollevandosi con fierezza. — Fate pure venire il prete...



Il loro incontro avvenne la mattina dopo, all’alba, nel portico che precede la chiesetta.

Era quasi buio ancora; la luna calava sull’orizzonte d’un azzurro cinereo, solcato da nuvole scure. Ad oriente distinguevasi il mare, bianco e vaporoso: sarebbe parso un crepuscolo serale se qua e là, nel bosco silenzioso, la rugiada non avesse rese lucide e umide le foglie.

Prete Virdis era venuto su a piedi, ed era anche caduto e s’era fatto male ad una mano. Pazienza: egli era abituato a questi piccoli incidenti. Se camminava a piedi, specialmente di notte, cadeva in malo modo; se montava a cavallo, il cavallo scivolava, o qualche ruvida fronda d’elce graffiava il viso del prete, o gli portava via la parrucca. I maligni, i miscredenti, dicevano che queste piccole disgrazie accadevano a prete Virdis dopo che egli aveva pranzato o cenato: fatto sta, però, che quella volta egli non aveva nè pranzato nè cenato, eppure, nonostante il chiaror della luna [p. 210 modifica]e la valida compagnia di zio Castigu, egli era caduto egualmente.

Annesa lo trovò seduto sulla muriccia, sotto il portico, con la sottana sollevata fin sulle ginocchia e la mano fasciata dal solito fazzoletto rosso e turchino. Egli pregava quasi a voce alta e guardava in lontananza, verso l’orizzonte al di là della radura, dove la luna calava pallida e melanconica.

Quando Annesa apparve, egli la fissò coi suoi piccoli occhi grigi, ma parve non vederla perchè continuò a pregare. Anch’ella lo guardò con stupore: egli sembrava un altro; era meno gonfio del solito, col viso pallido, quasi bianco, cascante; e intorno al suo mento, dagli angoli della bocca in giù, si disegnavano due nuove rughe, profonde. Sembrava un uomo disgustato e addolorato, ma d’un disgusto e di un dolore ingenui, da bambino infelice.

— Va bene, — disse ad un tratto, raccogliendo entro il pugno il suo piccolo rosario nero, — eccoci qui! Avanti, siediti qui.

Annesa prese posto accanto a lui, sulla muriccia addossata al muro della chiesetta: e da quel momento non si guardarono più, entrambi con gli occhi fissi al di fuori del portico, verso quella lontananza triste ove la luna moriva e il cielo pareva coperto di veli che uno dopo l’altro cadevano lentamente dietro le ultime montagne dell’orizzonte.

Annesa disse:

— Mi dispiace che lei sia venuta quassù. Si è fatta anche male? Ah, se avessi saputo! Ma fino [p. 211 modifica]a ieri sera ho avuto paura... sono una debole donna, prete Virdis, mi perdoni. Stanotte però ho pensato bene ai casi miei... e sarei, ritornata in paese, se zio Castigu non mi avesse detto di non muovermi dal luogo ove ero nascosta... Voglio presentarmi alla giustizia, giacchè vogliono arrestare anche me.

— Raccontami ogni cosa, per filo e per segno, — pregò il vecchio prete; — raccontami tutto.

Ella raccontò come era fuggita.

— Non questo solo. Raccontami come è avvenuta la morte del vecchio.

— Ma ella lo sa già...

— Non importa. Racconta.

Ella riprese a parlare, con la sua voce assonnata e fredda: ripetè quanto aveva detto ai suoi « benefattori ».

— Questa è la pura verità. La mia colpa è di non aver subito chiamato, appena il vecchio è morto...

Prete Virdis ascoltava e respirava forte, quasi ansando. Ella non lo guardava, ma sentiva quel respiro d’uomo stanco, e le pareva che egli s’interessasse poco a ciò che ella diceva.

— Tu non dici la verità, Annesa, — egli disse finalmente, senza muoversi, con le spalle e la testa sempre appoggiate al muro. — Ed io sono qui per sentire la verità, non per altro.

Ella non rispose.

— Sentimi, Annesa. Io non sono nè un giudice nè un confessore. Il giudice saprà farti dire [p. 212 modifica]la verità tuo malgrado, perchè questa è la sua arte: te la strapperà di bocca come un dente cariato, e tu neppure te ne accorgerai. Al confessore ricorrerai da te, quando vorrai. Io qui sono soltanto un uomo: un uomo che ama i suoi simili e vorrebbe aiutarli. Se tu vedi un povero vecchio caduto per terra vuoi sollevarlo, vero? Se non lo faresti ti parrebbe d’essere non una creatura umana, ma una bestia senza ragione. Basta, lasciamo le prediche. Volevo dirti soltanto che voglio aiutare i tuoi benefattori a sollevarsi dalla loro caduta: e tu devi aiutarmi.

— So tutto questo; e sono pronta. Che devo fare? Non ho finora seguito i consigli degli amici dei miei benefattori? Mi hanno detto di nascondermi e mi son nascosta: mi han detto di tacere e l’ho fatto.

— Ebbene, ora parlerai. Dirai la verità. Null’altro.

— L’ho detta... l’ho detta... — ella insistè.

Allora egli abbassò la voce e disse:

— No, Annesa, tu non l’hai detta. Io però la so, e la so prima di te, da lunghi e lunghi anni, e l’ho veduta crescere assieme con te, ed è una verità spaventosa; è come un serpente, che è cresciuto con te, che si è avviticchiato a te, al tuo corpo, alle tue braccia, al tuo collo... e forma con te una stessa cosa. Donna e serpente... Una stessa cosa che si chiama Annesa.

— Prete Virdis, — ella disse, spalancando gli occhi, e alzando la voce, tra offesa e spaventata, non parli così! Che ho fatto, io? [p. 213 modifica]

— Che hai fatto? Tu lo sai, senza che io te lo dica. Sai appunto la storia del serpente, che morsicò e avvelenò l’uomo che l’aveva raccolto nel suo seno. Basta, ripeto, non voglio far prediche: una sola cosa ti dico: Paulu è corso a rifugiarsi da me, quando qualcuno lo avvertì del pericolo. Io lo accolsi come zio Castigu accolse te. Nell’ora del dolore m’ha detto tutto.

— Ebbene, che può averle detto? Che ci siamo amati. Ma non sono stata sempre al mio posto, io? Che ho fatto di male?

— Ecco il serpente che parla! Che hai fatto di male? Hai peccato, null’altro! Ti par poco?

— Ebbene, sia pure: ho peccato. Ma il male l’ho fatto a me stessa soltanto.

— Ma tu non dovevi farlo a te stessa, il male: a te stessa meno che agli altri. Dio ti ha dato un’anima pura, e tu l’hai insozzata e tu la vuoi ripresentare al Signore come uno straccio lurido. Tu ti sei calpestata, ti sei coperta di fango, ti sei trattata come la tua peggiore nemica.

— È vero... È vero!...

— Questo è il tuo maggiore delitto. Dio ti aveva dato un’anima umana e tu l’hai deformata, a poco a poco, anzi hai fatto peggio ancora, l’hai uccisa l’anima tua, l’hai soffocata, e l’anima tua si è imputridita entro di te come un cadavere in una tomba; e ti ha corrotta e ti ha reso immonda. Sepolcro imbiancato: che di fuori par bello alla gente, e dentro è pieno d’ossa e di putredine... [p. 214 modifica]

— Prete Virdis! Prete Virdis!... — ella gemette, portandosi le mani al viso.

— Lasciami continuare. Se ti parlo così è perchè so che mi capisci. Un’altra donna non mi avrebbe capito, ma tu sei diversa dalle altre, tu sei intelligente e forse hai già detto a te stessa, molte volte, quello che io adesso ti ripeto. Ricordati, Annesa, quante volte ti ho sgridato perchè non venivi alla messa, perchè non ti accostavi più a Dio. Sono anni ed anni che tu hai smarrito la giusta via, ed io ti seguivo, o meglio aspettavo il tuo ritorno... Ah, ma non credevo che tu cadessi così ciecamente nell’abisso... Chi può salvarti, ora?

Ella non rispose. Le parole del vecchio prete erano semplici, rozze, anche comuni: egli del resto gliele aveva dette altre volte; ma il suo accento era grave, convinto, e nella sua voce vibrava, più che il rimprovero, la pietà, e più che la pietà una infinita tristezza. E ogni sua parola cadeva nel cuore di Annesa come pietra entro una palude, stracciando il velo torbido e fetido della superficie melmosa.

— Dio solo può salvarti, — egli continuò sempre più abbassando la voce. — Tu hai commesso una colpa dopo l’altra, perchè questo è il destino di chi si mette sulla via dell’errore. Solo i morti non possono sollevarsi: i vivi cadono e si rialzano, i malati possono guarire. Annesa, poco fa ho detto che la tua anima è morta, ma ho detto male, poichè l’anima non muore; ma è malata, l’anima tua, e d’un male pestilenziale, d’un morbo che avvelena [p. 215 modifica]l’aria intorno. Cerchiamo di guarirla. Anna, rispondi alla mia domanda: Credi tu più in Dio? Non rispondi? Ti ripeto: io non sono ora nè il tuo confessore nè il tuo giudice: sono il tuo medico.

— Non so, — rispose Annesa. — È vero; da molti e molti anni non credevo più in Dio, perchè troppe sventure cadevano sulla nostra famiglia, come fulmini sullo stesso albero... Troppo, troppo! E i miei benefattori sono gente onesta, timorosa di Dio. Perchè dunque il Signore li martoriava e continua a tormentarli tanto? In questi giorni, però, ho pensato a Dio... qualche volta: e ora penso che ella ha ragione, prete Virdis, ma io non sono malvagia come lei crede; io ho fatto del male a me stessa, è vero, ma l’ho fatto per... far del bene agli altri... E sono pronta ancora, le ripeto: mi dica che cosa devo fare. Devo accusarmi d’aver ucciso il vecchio? Son pronta. Dirò: lo odiavo e l’ho ucciso; legatemi, buttatemi nella reclusione nera come si butta una pietra in un pozzo, e che di me non si parli più. Ma mi crederanno?

— Non ti crederanno perchè questa non è la verità. Tu non devi parlare così, no, no! Questa non è la verità!

— Ah, — gridò allora Annesa, con voce aspra. — Qual’è dunque la verità? Che cosa si vuole da me? Me lo dica lei, prete Virdis.

— Sicuro, te lo dirò io. Ecco, tu devi parlare così: «Sono io sola la colpevole; io, io che ho ucciso non per odio, non per amore, ma per interesse. Io sono il serpente e la donna, e ho strisciato anni [p. 216 modifica]ed anni intorno all’albero del frutto proibito, e ho indotto l’uomo debole a peccare con me. E quando mi sono stancata del peccato della carne, ho rivolto i miei desideri ad altre cose: ho detto a me stessa: voglio avvincere a me l’uomo con altri lacci...»

— Non capisco, non capisco niente... — ella mormorò. — Me lo dica con altre parole.

— Insomma, ecco, tu devi dire così: «Ho ucciso il vecchio in modo da far credere, se il delitto si scopriva, che Paulu era il colpevole ed io sua complice. Di questo delitto volevo farmene un’arma e un laccio contro Paulu, per tenerlo sempre avvinto a me».

— Io devo dire così? E sarò creduta?

— Certo, perchè è la verità.

Ella balzò in piedi, rigida, livida, con le mani contratte: i suoi occhi si spalancarono, si fissarono sul prete con uno sguardo vitreo e feroce.

— Prete Virdis, — balbettò, — è Paulu che le ha detto questo?... È lui, è lui?... Voglio saperlo subito: mi dica subito che non è vero... Se no... io...

Il prete non si mosse, e neppure la guardò. Ma con voce alta, che pareva ironica ed era triste, ben diversa dalla voce tenue e pietosa con la quale aveva fino a quel momento parlato, domandò lentamente:

— Se no? Mi farai quello che hai fatto a Zua Decherchi?

Allora ella credette di capire una cosa spaventevole: che il prete avesse paura di lei, come di una bestia, come di un cane idrofobo, e che [p. 217 modifica]cercasse di colpirla cautamente, fingendo di non temerla: e in quel momento comprese tutto l’orrore del suo delitto, e le parve di essere davvero simile al serpente al quale prete Virdis l’aveva paragonata.

— Mi guardi, prete Virdis, mi guardi, in nome di Dio! — disse, rauca e anelante, mettendoglisi davanti e costringendolo a guardarla. — Ripeta se crede in sua coscienza a quanto ha detto... Se lo crede lei, prete Virdis, se lo ha creduto Paulu... lo crederò anch’io... Crederò d’essere al di sotto delle bestie feroci, crederò d’essere simile al majale che divora il bambino nella culla... Lo dica, ma lo dica! Lo ripeta... Se me lo ripete un’altra sola volta io non esiterò; correrò giù, in paese, mi inginocchierò davanti alla porta del carcere e supplicherò che mi venga aperta, questa porta, che mi venga spalancata come la porta d’una chiesa..

Il prete aveva sollevato la testa, e guardava la disgraziata con occhi pietosi, ma anche investigatori. Gli occhi disperati di lei, il suo viso invecchiato, la sua esile persona vibrante di spavento, non erano gli occhi, il viso, la persona d’una delinquente astuta e feroce.

— Calmati, Anna, — le disse, sollevando la mano fasciata, — può darsi che io mi sia ingannato: siamo tutti soggetti all’errore. E ora sentimi. Riprendi il tuo posto e ascoltami. Paulu, come ti dissi, rimase da me una notte, nascosto così bene che i carabinieri nella loro perquisizione non poterono trovarlo. Quando fummo tranquilli, parlammo a lungo. [p. 218 modifica] Egli mi confidò tutto; mi disse d’essere tornato la sera prima e di aver avuto un colloquio con te, mentre il vecchio dormiva. Egli ti disse di aver trovato i denari, e ti confidò i suoi progetti per l’avvenire. E promise di sposarti: ma tu non l’hai creduto, tu hai espresso il timore che egli, andandosene, ti dimenticasse. E dopo questo convegno... il vecchio morì! non si potrebbe dunque credere che tu abbi commesso il crimine per impedire a Paulu di partire?

— Ma Paulu che cosa diceva? Che cosa? - ella domandò.

— Egli ti crede innocente... Almeno lo dice.

— Prete Virdis, — ella disse allora, coprendosi gli occhi con una mano, — lei mi ha giudicato come i fanciulli giudicano le streghe: peggiore di quello che sono. Il vecchio era morto quando Paulu tornò... Ebbene, sì, — riprese dopo un attimo di silenzio, scoprendosi gli occhi e alzando la voce, — le dirò tutto, prete Virdis: l’ho ucciso io... L’ho ucciso perchè credevo di salvare Paulu... E Paulu passò di fuori e non mi avvertì: e la stessa sorte, che mi portò in questo paese maledetto, mi costrinse a diventare quello che sono diventata... L’ho voluto io, forse? — No, no, prete Virdis, io ho fatto strazio di me perchè così ha voluto la sorte, lo avrei voluto essere una donna come tutte le altre; avere un padre, una madre, vivere onestamente... Perchè Dio, se è vero che c’è, ha voluto altrimenti?...

— Dio ti ha dato la ragione, Annesa: non senti tu, in questo momento, che hai la ragione e che la tua sorte te la sei creata da te? Perchè non hai [p. 219 modifica]ragionato sempre come ragioni ora? Ecco, perchè credevi d’essere padrona di te stessa e di far di te quello che volevi: tutto ti sembrava permesso perchè non avevi padrone. Ed ora, ora che ti accorgi d’essere invece schiava di quella che tu chiami la sorte, ora ti lamenti... E non ti accorgi, Anna, non ti accorgi che chi ti guida è Dio...

— Dio! Non lo dica, prete Virdis! Egli non avrebbe voluto la morte del vecchio...

Prete Virdis cominciò a irritarsi e a sbuffare.

— Tu non puoi giudicare i decreti di Dio! Vuol dire che l’ora del vecchio era giunta, e non spetta a noi giudicare la sua sorte. Pensa a te, Anna; la tua ora non è ancora arrivata, e non importa il modo col quale essa arriverà: che tu muoia in un modo o nell’altro non devi preoccupartene. Pensa solo a comparire davanti al Signore con l’anima guarita da ogni male.

— Che devo fare? Sono pronta ad accusarmi, — ella disse con slancio, — e dirò tutto quello che ella vorrà...

— Quello che vorrò io? Che c’entro io? Tu dirai la verità, ripeto; null’altro.

— Ma mi crederanno? — ella ripetè, riassalita dai suoi dubbi. — Non diranno che io sono stata complice soltanto? Io ho sempre fatto male quello che ho fatto, prete Virdis! Non vorrei ancora nuocere a... loro.

Non osava più chiamarli i suoi «benefattori».

Il prete scosse la testa: guardava fuori, con occhi tristi, e pareva dicesse di no ad una persona lontana. [p. 220 modifica]

— Tu non mi hai ancora capito, Anna! La verità, la verità! Ecco tutto. Bisogna dire la verità e non preoccuparsi d’altro. Sarai castigata, o non lo sarai? Soffriranno ancora gli altri, per causa tua? Tutto questo non importa. Importa soltanto che tu vada dritta per la tua via.

— Farò quello che lei mi consiglierà, — ripetè Annesa.

Ma egli parve non udirla: si alzò, fece con le labbra una smorfia di stanchezza e di sofferenza, e continuò a guardar lontano.

— Oh, e ora non si tratta solo di questo, — riprese, con voce triste e bassa. — Il maggior castigo, Annesa, devi importelo da te. Vedi, il Signore non è crudele come son crudeli gli uomini. Egli dice a colui che è caduto: sollevati e bada di non ricadere. Egli dice a te, Annesa: Donna, ti ho aperto gli occhi, ho sgombrato la tua anima dalle tenebre come all’alba sgombro il cielo dai vapori notturni. Cammina, e non peccare mai più.

Ella sospirò e giunse le mani.

— Non peccare più... Non peccare più...

Le ultime parole del prete la commossero, più delle minacce e dei paragoni coi quali egli aveva infiorato il suo discorso.

— Non peccare più... — ripetè. — Ci ho pensato tanto in questi giorni, prete Virdis! Ho pensato che non voglio più peccare: non voglio più ingannare nessuno... non voglio più far del male a nessuno...

— Va bene, va bene! [p. 221 modifica]

— Se sarò condannata...

— Aspetta ancora! Aspetta ancora! — egli disse, con impazienza, sollevando la mano fasciata. — C’è tempo! Forse le cose andranno meglio del come pensiamo. Pensa intanto all’anima tua.

Ed egli continuò a parlare, ripetendo che la vita è breve e piena d’inganni, e che la nostra sola felicità consiste nel credere ad un’altra vita eterna, ad un mondo ove tutto è vero, tutto è puro, e dove la giustizia è diffusa come l’aria intorno alla terra: ma Annesa, oramai, non aveva più bisogno di ascoltare sermoni: una voce interna le mormorava parole di conforto e le indicava la via da tenere.

Egli le disse:

— Perchè la tua presenza non provochi inutili chiacchiere, tornerai al paese stassera, chè nessuno ti veda. Verrai a casa mia, e combineremo il da farsi. Intanto io celebrerò qui la messa secondo la tua intenzione. Ho portato con me la particola.

Chiamarono zio Castigu, che aveva in consegna la chiave della chiesetta, e aprirono. Il sole non era spuntato ancora, ma l’oriente brillava già, tutto d’oro rosso, e questa vivida luce d’aurora penetrava dal finestrino della chiesetta e indorava le pareti polverose. Tutto era umile e dolce in quella chiesetta solitaria: la Madonnina, dall’abito giallo scolorito, col suo bambino paffuto e sonnolento, pareva una piccola madre mendicante che si fosse ritirata in quell’eremo per cibarsi di ghiande e [p. 222 modifica]vivere coi poveri pastori della montagna. Nè quadri, nè statue, ornavano le pareti: molti topi, invece, fuggirono davanti a zio Castigu, quando egli aprì la porta; e prete Virdis, che aveva una infantile paura dei più innocui animaletti, si spaventò e parve provar più orrore per quel piccolo esercito fuggente che per i peccati di Annesa.

— Non abbia timore, — disse zio Castigu. — Sono topi selvaggi. Si figuri, prete Virdis mio, l’altro giorno lasciai qui una bisaccia colma di pane e di formaggio, ed essi rosicchiarono la bisaccia, ma non toccarono nè il pane nè il formaggio. Si vede che non ne avevano veduto mai.

Prete Virdis tuttavia procedè cauto, e si lasciò vestire dal pastore che trovò, in fondo a una cassa posta dietro l’altare, un camice e una pianeta rosicchiata appunto dai topi selvaggi. Mentre per accendere l’unico cero dell’altare zio Castigu adoprava l’acciarino e l’esca, Annesa vide il prete guardarsi attorno inquieto.

— Non abbia timore, — disse il pastore, serio serio: — suonerò il campanello per farli scappare.

La messa cominciò: niente di più pittoresco e comico di quel grosso ufficiante dalla pianeta bucata, e del vecchio preistorico che assisteva la messa suonando ripetutamente il campanello come per far scappare un popolo di spiriti maligni.

In fondo alla chiesetta deserta, sulle cui pareti la polvere e i fili dei ragni diventavano sempre più rosei e dorati al riflesso dell’aurora, Annesa mormorava brani di preghiere dimenticate, e di tanto [p. 223 modifica]in tanto si curvava e baciava il pavimento con passione e furore. Davanti a sè, ella non vedeva niente; non ascoltava la messa, non sapeva quello che ripeteva fra sè incoscientemente: non erano la fede e il timor di Dio che la piegavano sino a terra e le facevano baciar la polvere con un sentimento di amore, più che di umiliazione; tuttavia la sua anima piangeva e clamava, e la sua persona pareva contorta da una specie di furore religioso.

Zio Castigu scampanellava. L’unico cero, sull’altare melanconico, guardava col suo occhio d’oro, immobile: ad un tratto però la fiammella si allungò, si mosse, diventò una piccola lingua giallognola e parve dire qualche cosa al bambino sonnolento che la guardava fisso.



Annesa rimase tutto il giorno nella chiesetta. Continuava a mormorar preghiere, ma pensava ad altre cose.

— Mi condanneranno a trent’anni di reclusione, — pensava. — Forse morrò prima di finirli. Forse mi condanneranno a vent’anni. Quando ritornerò sarò vecchia: che farò? Vivrò d’elemosine... Forse nella reclusione potrò lavorare, potrò accumulare qualche piccola somma. Matteu Piras, che rimase quindici anni nella reclusione di [p. 224 modifica]Civitavecchia, portò a casa, quando ritornò, quattrocento scudi e mise su un bel negozio. E Paulu che dirà? Che farà? Mi aiuterà? Mi rinnegherà? Faccia egli quel che crede: io farò il mio dovere. Sarò buona... sarò buona... Dio, Dio mio...

E piangeva, pensando a Paulu, ma non più con lagrime di vergogna o di disperazione: poi si proponeva di non pensare oltre a lui: le pareva di peccare ancora, ricordandolo. Ella non voleva peccare mai più. E Gantine? Che farebbe, che direbbe Gantine? Egli era giovine, leggero: si sarebbe presto confortato.

Verso mezzogiorno zio Castigu battè alla porta. Ella uscì nel portico, mangiò un pezzo di pane d’orzo e un po’ di latte coagulato, e scambiò qualche parola col pastore.

— Sei ferma nel tuo proposito? — egli le domandò. — Vai giù stassera? Vuoi che ti accompagni?

— Non occorre: non ho paura.

Egli la guardava. Ella era pallida, ma aveva ripreso la sua solita fisionomia, il suo solito sguardo, un po’ beffardo, un po’ ingenuo. Zio Castigu cominciava a credere di essersi ingannato, ritenendola colpevole.

— Stanotte ho sognato che era venuta su, fin qui, Anna Decherchi. Aveva sul capo un cestino pieno d’uva, e una lettera in mano. Ma non era Anna Decherchi; era invece Paulu travestito, ma travestito così bene che sembrava la vecchia. Appena mi vide si mise a ridere e mi domandò: Dov’è Annesa? Voglio farle uno scherzo... [p. 225 modifica]

— Uva, lagrime, — disse Annesa; ma il pastore ribattè:

— Però don Paulu rideva: buon segno. Ah, vedi, Anna, il cuore mi dice che entro oggi riceveremo una buona notizia. Ah, se ciò fosse, Maria Santissima mia! Tutti i giorni, tutti i giorni verrei qui, m’inginocchierei su questa sacra soglia, e bacerei la terra. In nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo.

Egli s’inginocchiò, baciò la terra, si fece il segno della croce: Annesa sussultò al solo pensiero che «una buona notizia» potesse giungere. Ah, la vita l’attraeva ancora, con tutte le sue seduzioni; e la speranza di potersi salvare era così dolce e ardente che la faceva soffrire...

Rientrò nella chiesetta e si rimise in ginocchio, nell’ombra, sulla polvere. Meglio non sperare: salvarsi significava ricadere nel peccato, dimenticare, perdersi per sempre. Ed ella non voleva peccare mai più, mai più.

— Dio, Dio mio, aiutatemi voi! S’io devo ritornare nel mondo aiutatemi voi: non voglio più mentire, più ingannare, più far del male... Non sposerò Gantine, per non ingannarlo, non sposerò Paulu, non peccherò più con lui. Non sono degna di nessuno: vivrò sola, curerò i malati, lavorerò, porterò da me, sola, il peso dei miei delitti...

Si curvò e baciò ancora il pavimento: e nel sollevarsi le parve di veder un’ombra dietro il finestrino.

— Mi vedono? — Si ritrasse, ebbe paura. L’idea della prigione, della condanna, della reclusione la [p. 226 modifica]dominò ancora. Ricominciò a pregare, ma con tristezza infinita. Il Dio al quale ella era ritornata nell’ora della disperazione, come il bambino ritorna in grembo alla madre che lo ha castigato, era un Dio severo, inesorabile. Egli poteva perdonare, ma non dimenticare: e domandava penitenza, penitenza.

— No, io non potrò salvarmi dalla condanna, — ella pensava, piangendo silenziosamente, con la fronte sulla parete. — Non è possibile. Si salveranno loro, e questo mi basterà: e la buona notizia sarà quella del loro scarceramento; null’altro.

E le pareva di veder Paulu nella stanzetta del piccolo carcere di Barunei: lo vedeva piegato su sè stesso, livido d’umiliazione e di rabbia, pentito d’essersi dato inutilmente in mano alla giustizia umana stupida e cieca. Egli aveva sperato d’esser rimesso in libertà dopo qualche ora, assieme coi suoi: egli s’era costituito per dimostrare la sua innocenza, e non era stato creduto; e le ore passavano invano, e passavano i giorni, e forse egli non sperava più...

— Ed io sono ancora qui, sono ancora libera! Paulu mio, Paulu, Paulu mio! Che dirai di me quando saprai? E donna Rachele, cosa dirà? Ella piangerà, e i nonni diranno: «Ella non aveva timor di Dio, e ci ha condotto sull’orlo dell’abisso. Per colpa sua abbiamo sofferto il più grande dolore, la più grande umiliazione della nostra vita». Poi si conforteranno, e dimenticheranno. E la vita passerà: io vivrò lontano, lontano, in una galera [p. 227 modifica]sconosciuta... e vedrò sempre, davanti a me, il viso orribile, il sorriso vendicativo di zio Zua. Egli solo, egli solo non mi dimenticherà: egli verrà con me, sempre, sempre... Ah, egli lo sapeva già che si sarebbe vendicato: egli lo sapeva, ed io non sapevo niente. Sappiamo mai quello che può succedere? So io quello che accadrà domani? Ah, Dio mio, Signore misericordioso, perdonatemi: ecco che vaneggio ancora: ecco che spero ancora! Ah, no, no.

Ella non voleva sperare, e intanto aspettava: ogni piccolo rumore le dava un brivido: dal finestrino penetrava ora la luce azzurra e chiara del meriggio; il cielo era tutto in colore di zaffiro, il bosco mormorava intorno alla chiesetta con un romorio lieve e sonnolento di api intorno all’alveare. Una pace infinita, una dolcezza triste, riempivano il ricovero solitario di quella Madonnina selvaggia, di quel bambino sonnolento, che parevano così tranquilli nella loro povertà, così lontani dalla donna che piangeva ai loro piedi.

Verso il tramonto arrivò, al solito, il nipote di zio Castigu, che ogni sera portava giù in paese il prodotto del gregge.

— Prete Virdis m’ha mandato a chiamare, — disse, — e mi ha incaricato di dirvi che desidera parlare con voi solo, stanotte. Mi ha avvertito di ripetere: con voi solo.

Il pastore corse da Annesa e le riferì l’ambasciata.

— Anna, — disse con voce commossa, — credo che il mio sogno si avveri! È segno che prete [p. 228 modifica]Virdis desidera che tu non ti muova: è segno che c’è qualche speranza...

Ella tremava tutta.

— Non illudetemi, zio Castigu... non fatemi sperare... no... no... non voglio...

— Perchè non vuoi sperare? Dopo la notte viene il giorno. Prega, prega, Anna; io corro giù in paese. Vuoi andare nella capanna?

Ella però volle restare nella chiesetta: nella furia, il pastore si dimenticò di portarle da mangiare, ma ella non senti la fame, non si addormentò, non si mosse dal suo angolo. Vide attraverso il finestrino apparire una stella rossastra sul cielo verdognolo del crepuscolo, poi altre stelle ancora: e il bosco tacque, e tutto fu silenzio, silenzio misterioso di attesa.



Zio Castigu ritornò verso la mezzanotte.

Quando ella sentì il suono della chiave nella toppa arrugginita provò una strana impressione: le parve che un essere invisibile, un fantasma veniente dalla profondità d’un mondo ignoto, cercasse d’introdursi nella chiesetta, per avere un colloquio con lei e rivelarle il mistero del suo avvenire. Invece, nel buio, s’avanzò il vecchio pastore: ella ne riconobbe il passo, ne riconobbe la testa [p. 229 modifica]selvaggia, che si disegnò nera sul quadrato cenerognolo e stellato del finestrino: ma dal modo con cui zio Castigu disse: «Annesa, sai?...» ella sentì che il vecchio pastore le avrebbe rivelato, come il fantasma d’un mondo occulto, il segreto del suo avvenire.

— Zio Castigu?

— Domani... domani... saranno rimessi in libertà... L’avvocato ha detto a prete Virdis che dalla perizia medica è risultato che il vecchio è morto soffocato dal suo male... E che nessuno l’ha percosso, che nessuno, tranne il Signore, l’ha fatto morire...

Ella cadde in ginocchio, nelle tenebre: ma una luce ardente, simile allo splendore del sole, le rischiarava l’anima.

— Il Signore ha perdonato: il Signore ha veduto il mio cuore, ha misurato il mio errore e il mio dolore; ha veduto che questo era più grande... era più grande del mio errore...

Zio Castigu sentiva, nel silenzio, i denti di lei battere forte.

— Anna, che fai, ora? Vieni fuori con me? Prete Virdis ti consiglia di non muoverti finchè essi non saranno rimessi in libertà. Hai sentito?

— Ho sentito.

— Ma che fai, ora?

— Prego.

— Ora puoi stare tranquilla, — egli disse, ingenuamente. — Puoi venire di là, nell’ovile.

— No, sto qui: voglio pregare. [p. 230 modifica]

— Puoi pregare anche là, nella capanna. Dio ti sentirà egualmente. E tu non hai mangiato, pili brunda.

Nel sentirsi chiamare col suo nomignolo, ella provò un impeto di gioia: zio Castigu non l’aveva più chiamata così, durante tutti quei giorni di terrore.

Tutto era dunque passato? Era possibile? Non era un sogno? Per convincersene ella si alzò, dimenticò le sue preghiere, diede retta al vecchio che insisteva:

— Andiamo, andiamo!

Uscirono. La notte era chiara, vivida di stelle: l’orizzonte sembrava vicino, appena dietro le linee nere dei boschi e i profili delle roccie: le pecore di zio Castigu pascolavano nascoste fra le macchie in fondo alla radura, e il tintinnìo cadenzato dei loro campanacci pareva una musica misteriosa, quasi magica, un coro di vocine tremule sgorganti dalle pietre, dai tronchi, dai cespugli.

Molte stelle filanti attraversavano il cielo biancastro, e zio Castigu, al quale non sfuggiva mai nessun fenomeno celeste, disse guardando in alto:

— Pare che le stelle grandi piangano, stanotte. Guarda quante lagrime!

Annesa sollevò il viso. Anche lei piangeva. Ricordava la sera della festa di San Basilio, i razzi che attraversavano il cielo scolorito, al di là del cortile silenzioso. Quindici giorni erano trascorsi: quindici giorni lunghi e terribili come anni di peste e di carestia. Ora tutto era finito: e tutto doveva ancora incominciare. [p. 231 modifica]

— Che altro ha detto prete Virdis? — domandò, seguendo a passi cauti il vecchio che camminava spedito e svelto fra i sassi e i cardi.

— Di star tranquilla; di non muoverti finchè...

— Io vorrei parlare ancora con lui, prima... - ella interruppe; poi, dopo un momento di silenzio, aggiunse, piano: — prima di ritornare dai miei « benefattori ».

Ella pronunziò ancora l’usata parola; ma subito dopo ricominciò a piangere. Non erano lagrime di rancore e di rimorso, ma non erano più lagrime di gioia: erano lagrime di pentimento e di speranza, che nella notte infinita della sua anima cadevano e brillavano come nella notte le stelle filanti.