L'edera (romanzo)/III

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Capitolo III

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II IV

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III.


— Annesa, Annesa! — chiamò il vecchio asmatico. La sua voce lontana, accompagnata da un gemito, svegliò Annesa dai suoi sogni: ella si scosse e rientrò nella camera.

Zio Zua, assalito da uno dei suoi frequenti accessi di soffocamento, cercava di sollevarsi e non poteva; le sue mani scarne si agitavano, come lottando penosamente contro un fantasma invisibile.

Annesa gli si avvicinò senza troppa premura, lo sollevò, gli mise un altro cuscino dietro le spalle. A poco a poco egli riprese a respirare meno penosamente e domandò da bere; e appena potè parlare, ricominciò a imprecare e a lamentarsi.

— Tu mi lasci sempre solo, — insisteva con voce ansante, — e le zanzare mi pungono, e il lume si spegne, che ti si spengano gli occhi! Chiamami prete Virdis, almeno: voglio confessarmi, non voglio morire scomunicato, come un moro. Mi date [p. 56 modifica]il veleno, voi; tutti mi date il veleno, voi... per farmi morire lentamente, che siate maledetti voi e che sia maledetto il latte delle vostre madri. Ma arriverà presto il momento che desiderate: sì, sì, presto, prestissimo. Mi troverete morto come un cane, e allora sarete contenti...

— Ma state zitto una buona volta, — disse Annesa, minacciosa. — Vergognatevi di dire queste cose, vecchio ingrato, vecchio cattivo...

Egli però continuò a brontolare, anche dopo che ella ebbe spento il lume e si fu coricata. Nel buio ella sentiva quella voce ansante e stridente, e le pareva che una sega le dividesse il cuore. E una parte di quel cuore si conservava buona e pura, e ardeva d’amore, di pietà, di gratitudine, mentre l’altra parte sanguinava e ardeva anch’essa, ma come un tizzo verde, d’una fiamma livida e puzzolente. La dolcezza e la tristezza dei ricordi erano sparite: quella voce di fantasma cattivo richiamava la donna alla realtà opprimente.

Le pareva di soffrire d’asma anche lei; e invece di compatire il vecchio per ciò che egli soffriva, ella ripeteva fra sè le imprecazioni e le male parole di lui.

Finalmente entrambi si calmarono e si assopirono. Una voce dolce e sonora cantò in lontananza una soave battorina d’amore, poi s’avvicinò, risuonò nel silenzio della straducola, accompagnata da un coro melanconico di voci giovanili:

... Sos ojos, sa cara bella,
Su pilu brundu dechidu!

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Pro me non bi torrat mai
Cuddu reposu perdidu...1


— È Gantine, povero usignuolo! — pensò Annesa, che nel dormiveglia cominciava già a sognare di Paulu. E, al solito, pensò con tenerezza e con rimorso al suo giovane fidanzato; ma quando la voce tacque, ella si assopì ancora e di nuovo la figura di Paulu le tornò vicina.



L’indomani mattina donna Rachele andò alla messa bassa e fece la comunione: e le altre donne anziane del villaggio, che assistevano alla messa, la videro piangere e pregare fervorosamente, tutta chiusa nel suo scialle nero come in un manto di dolore.

Annesa invece andò con Rosa alla messa cantata delle nove. Col suo bel costume dalla gonna pieghettata e orlata di verde, il corsetto nero e rosso, il grembiale carico di ricami antichi, una benda gialla intorno al capo, ella rassomigliava ad [p. 58 modifica]una piccola madonna primitiva, mentre al suo fianco la bimba deforme, goffamente vestita di un abituccio borghese di cotonina rossa, pareva la caricatura d’una civiltà degenerata.

Dopo aver percorso la straducola in pendio, uscirono nella strada comunale, polverosa e sporca, che attraversava tutto il paese, e proseguirono verso la chiesa.

Altre donne, vestite come Annesa, sbucavano da tutte le straducole; gruppi di bimbi laceri ma robusti e belli, dai luminosi occhi neri, giocavano qua e là, sotto gli archi delle porticine, sulle scalette esterne, nei piccoli cortili insolitamente spazzati e inaffiati.

La chiesa di San Basilio, sebbene questo fosse il santo protettore del paese, restava fuori dell’abitato, un centinajo di metri distante dall’ultima casupola nella quale abitava una parente dei Decherchi.

Una specie di cortile vastissimo, roccioso, coperto di fieno e di stoppie calpestate, circondava la chiesetta, addossate alla quale sorgevano alcune stanze e una tettoja dove si riunivano le persone incaricate del buon andamento della festa.

Vicino alla chiesa sorgeva anche una specie di torre quadrata, con un rozzo belvedere, al quale si saliva per una scaletta esterna. La chiesa, le stanze, la torre, d’una costruzione primitiva, di pietre rozze e di fango, avevano preso il colore cupo e rugginoso delle roccie circostanti. A sinistra della chiesa, ai piedi del villaggio, sprofondavasi [p. 59 modifica]la vallata granitica, al di là della quale stendevasi un grandioso panarama di valli, di montagne, verdi e azzurre, sfumate sul cielo chiarissimo: a destra cominciava il monte San Giovanni, coi suoi boschi, le brughiere, le roccie dai profili fantastici.

Quattro quercie secolari crescevano davanti alla chiesa, la cui facciata, intraveduta fra i rami delle piante poderose, pareva tagliata nella roccia. Uomini alti e forti, vestiti di rosso e di nero, paesani di altri villaggi, pastori e contadini, s’aggruppavano intorno ai banchi dei liquoristi, sotto le tettoie di frasche addossate alle roccie della spianata. Era la solita folla delle feste sarde: uomini allegri che pensavano a bere, donne in costume che andavano in chiesa per pregare e farsi vedere.

Annesa e Rosa scesero lentamente il sentieruolo, dalla strada comunale alla chiesa: davanti alla casetta ultima del paese si fermarono a salutare zia Anna, la cugina di donna Rachele.

Questa cugina era una donna anziana, alta, magra e pallida come un fantasma; rassomigliava alquanto a donna Rachele, ma sosteneva d’essere più giovane e molto più bella della cugina nobile.

E raccontava d’aver avuto e di aver ancora molti adoratori e pretendenti che ella aveva respinto per restar libera e potersi dedicare tutta a tre sue nipoti orfane di padre e di madre.

Queste nipoti, infatti, vivevano con lei, ed una era già una ragazza da marito. E zia Anna le amava come sue figliole, poichè ella era una donna affettuosa ed anche savia, che all’infuori dell’idea [p. 60 modifica]fissa della sua bellezza e dei suoi pretendenti non aveva altra debolezza.

Un cortiletto senza cancello, circondato da un muricciuolo, precedeva la casetta: dalla porticina spalancata usciva un buon odore di caffè. Annesa gridò:

— Zia Anna, non venite alla messa?

— Aspetto un ospite, — disse la donna, affacciandosi alla porta con una caffettiera in mano. Rosa, anima mia, come sei bella oggi! Venite avanti; vi darò il caffè. Sei sempre vecchia, Rosa? I dentini non vogliono spuntare, no?

Rosa sorrise, mostrando le sue gengive sguarnite, e Annesa disse, per conto della bimba:

— Verranno di nuovo, i dentini, e poi cadranno ancora! Cadranno anche i vostri, zia Anna, e non ritorneranno più!...

— Può darsi, — rispose la donna, che aveva bellissimi denti. — Ma venite, belle mie; vi darò il caffè: per la messa è ancora presto. Ho veduto prete Virdis passeggiare davanti alla chiesa: era con un signore che mi è sembrato Paulu...

Allora Annesa, che stava per entrare da zia Anna, cambiò parere e s’avviò verso la chiesa.

— Addio, addio, statevi bene, e tanti saluti alle ragazze. Noi andiamo perchè è tardi.

— Avevo da raccontarti una cosa: verrò da voi domani, — disse zia Anna, salutando con la mano. Addio, Rosa, non mangiare molti torroni. Non mi hai detto neppure cosa ti ha dato il sorcio, in cambio dei tuoi dentini. Glieli hai poi messi, nel buco dietro la porta? [p. 61 modifica]

— Sì, — gridò la bimba voltandosi. — Mi ha lasciato un po’ di nocciuole, in cambio dei denti.

— A che servivano le nocciuole, se non avevi denti per schiacciarle?

— Eh, le ho schiacciate con una pietra!

— Addio.

— Addio.

Annesa trascinava Rosa e camminava in fretta, guardando fisso davanti a sè, come affascinata. La bimba disse:

— Sì, babbo è là, davanti alla chiesa, e passeggia con prete Virdis; pare che litighino!

Infatti il vecchio prete gesticolava animatamente. La sua grossa pancia ansava. Egli era bruttissimo, grosso e gonfio; il viso color mattone, paffuto e rugoso nello stesso tempo, esprimeva un malcontento sdegnoso. Una parrucca dai lunghi peli che sulla nuca si mescolavano a qualche ciuffo argenteo di capelli veri, accresceva quell’orrida bruttezza.

Annesa abbassava gli occhi ogni volta che incontrava il prete: e anche quella mattina tentò di passar dritta, trascinandosi dietro la bimba, ma il vecchio sacerdote sollevò una delle sue grosse mani rosee e cominciò a gridare:

— Rosa! Rosa!

Annesa dovette fermarsi.

— Rosa, — disse il prete, avanzandosi fino a coprire con la sua pancia il viso della bimba. Ho piacere che tu venga alla messa. A quanto pare ci vengono persino le capre, oggi, persino le donne ebree e le donne moresche. [p. 62 modifica]

Annesa andava raramente in chiesa: capì l’allusione, ma non si turbò. Guardava nella spianata, fingendo d’interessarsi al quadro variopinto che le si stendeva innanzi agli occhi, e ascoltava i bandi che il messo2, ritto sopra una roccia, gridava alla folla.

Anche Paulu guardava laggiù. La figura del messo, alta e selvaggia, spiccava nera nel sole. Col suo tamburo scintillante, col suo costume metà da paesano, metà da cacciatore, col suo berretto di pelo che pareva la capigliatura naturale di quella testa nera e forte, il messo dava l’idea di un araldo primitivo sceso giù dai boschi della montagna per annunziare qualche cosa di terribile ai pacifici bevitori d’acquavite e di anisetta raccolti intorno ai furbi rivenditori della spianata. Tutti lo guardavano, ed egli gridava con voce stentorea da predicatore:

— Giovani e giovanotte, andate a ritrattarvi dal fotografo che abita presso il falegname Francesco Casu. E chi vuole orzo a una lira il quarto3 corra dal signor Balentinu Virdis. E presso Maria detta la Santissima si vendono uova fresche e sorbetti fatti col ghiaccio...

— Sì, anche le donne moresche! — ripetè prete Virdis. — Quelle che si alzano la mattina col diavolo e vanno a letto, la sera, col demonio. Va, va. Rosa, prega per questa gente, che si converta. [p. 63 modifica]Mi racconterai poi la storia del Signore morto. La sai ancora?

— Sissignore.

— Meno male: tu non sarai un’ebrea. Va, va.

E riprese a camminare, sbuffando. Paulu lo seguì, ma prima scambiò con Annesa uno sguardo rapido e ardente che la riempì di gioja.

Anghelos santos! — ella disse piano, con ironia, ripetendo l’intercalare favorito del Virdis. E la piccola Rosa, che amava poco il grosso prete, si mise a ridere, col suo risolino triste di vecchietta.

Annessa ascoltò la messa pensando a Paulu, e ricordandone lo sguardo appassionato. Ella provava sempre un senso di ebbrezza quando il vedovo le dava quei rapidi segni d’amore; le pareva che uno sguardo scambiato così, di giorno, tra la gente che li separava come non avrebbe potuto separarli una muraglia di macigni, valesse più che tutti i loro abbracci notturni.

E le parole pungenti di prete Virdis le sembravano simili a un lontano rumore di vento: uno sguardo di Paulu la ricompensava di ogni affronto e di ogni umiliazione.

Dopo la messa egli l’attese sotto le quercie e prese Rosa per mano.

— Andiamo da quel venditore di torrone — disse a voce alta, poi aggiunse, piano: — Prete Virdis è arrabbiato con te perchè non hai fatto la comunione. Ti ho scusata con lui, dicendogli che avevi molto da fare. Egli non è cattivo; [p. 64 modifica]tutt’altro! È simile all’alveare; brutto di apparenza, ma colmo di miele. Mi ha promesso d’intercedere ancora per noi presso zio Zua. Verrà oggi da noi; non essere sgarbata con lui, ti prego. Se poi non si riesce a nulla con zio Zua, fra giorni io vado al paese di Ballore Spanti. Egli mi ha promesso di presentarmi ad una sua parente, sorella del rettore del suo paese; una vecchia denarosa che forse mi presterà qualche migliajo di lire. Vuoi bere un liquore, Annesa?

— Ah, speriamo dunque — ella disse, sospirando. — Dov’è ora il tuo amico?

— Non so: ha promesso di venire a raggiungermi qui, — rispose Paulu, guardando intorno per la spianata.

Intanto s’erano avvicinati al banco dei venditore di torroni.

Gli uomini, dopo essere stati in chiesa, si affollavano di nuovo intorno ai liquoristi: e non si contentavano di un solo bicchierino, ma compravano intere bottiglie di liquore che sorbivano, in compagnia degli amici e degli ospiti, fino all’ultima goccia. Quegli uomini vestiti di pelli, dai lunghi capelli unti, alti e rudi come uomini primitivi appeua sbucati dalle foreste della montagna, erano avidi di bevande alcooliche e dolci, e si leccavano le labbra con voluttà infantile.

Annesa accettò da Paulu un bicchierino di menta. Accorgendosi d’essere osservata da un gruppo di amici di Gantine, si mostrava triste e compassata, come del resto lo erano tutte le donne [p. 65 modifica]che in quel momento attraversavano il cortile della chiesa.

A un tratto ella si sentì presa per la vita da un braccio d’uomo, e vide accanto a sè il piccolo ziu Castigu, vestito a nuovo, pulito, allegro come un fanciullo.

— Come, — egli disse, tenendo Annesa abbracciata, ma rivolgendosi a Paulu — ve ne andate così, senza far visita ai priori della festa? Le par ben fatto, questo, piccolo don Paulu mio? No, no, lei non vorrà offendere San Basilio, andandosene senza visitare i priori. Io sono fra questi, e ci tengo alla sua visita. Andiamo. Rosa, rosellina mia, vuoi che ziu Castigu ti prenda in braccio? O sulle spalle, come un agnellino?

— Io devo andare a casa, — protestò Annesa. — Donna Rachele mi aspetta.

— Tu verrai, pili brunda: prenderò sulle spalle anche te, se vuoi! Andiamo. Gantine è venuto da me stamattina per tempo, ed ha preso il cavallo per recarlo al pascolo. Non è ancora tornato?

— No; diventa sempre più poltrone quel giovine, — disse Paulu. — Fa sempre il comodo suo.

— Ssss! — sussurrò ziu Castigu, accennando ad Annesa.

Ma ella non pareva molto preoccupata per le parole di Paulu: aveva ripreso nella sua la manina di Rosa, e ritornava verso la chiesa, precedendo i due uomini.

— Fra giorni voglio mandare Gantine in una lavorazione di scorza, nella foresta di Lula — riprese [p. 66 modifica]il vedovo — . Mi hanno offerto di tenerlo lassù fino al tempo delle seminagioni: così almeno guadagnerà qualche cosa.

— Sì, è un ragazzo molto allegro, — convenne ziu Castigu. — Ma tutti siamo stati allegri, da ragazzi...

— Tutti, sì — ripetè Paulu.

— Anche lei, sì, don Pauleddu mio! Era molto allegro. Ora non più!

— Volati gli uccelli! — disse Paulu, guardando in alto e facendo un segno di addio con la mano. - Volati, volati!...

— Eh, diavolo! Qualcuno ne resterà! — disse il pastore, ridendo col suo riso caratteristico, un po’ sciocco, un po’ beffardo.

— Ecco, passiamo di qui: entriamo nella cucina grande.

Entrarono nella cucina grande, ove i promotori della festa preparavano un banchetto omerico.

— Ohè, Miale Corbu, eccoci qui! — gridò con orgoglio ziu Castigu, avanzandosi a fianco di Paulu.

Il priore maggiore, cioè il presidente del Comitato per le feste, parve sbucare da una nuvola di fumo denso e grasso, che copriva come d’un velario lo sfondo della cucina. Ed era un uomo degno di esser circondato di nuvole come un dio selvaggio: una specie di gigante, vestito di un corpetto rosso e di un pajo di brache di saja, così larghe che sembravano una gonnella corta ricadente sulle uose di lana nera. Sotto il berretto lungo ripiegato sulla sommità del capo, e fra due [p. 67 modifica]bande di lunghi capelli neri unti di grasso, il viso d’un rosso terreo, dal naso aquilino, il mento sporgente, la barba rossiccia ondulata, pareva scolpito nella creta.

Vedendo che Paulu Decherchi onorava d'una sua visita quella riunione di pastori semplici e poveri, il priore sorrise, quasi commosso, e condusse il giovine attraverso le cucine e le stanze facendogli osservare ogni cosa come ad un forestiero.

— Buona festa, quest’anno? — domandò Paulu, guardandosi attorno.

— Non c’è male. Siamo cinquanta promotori; e altri cento pastori hanno concorso alla festa, portando ognuno una pecora e una misura di frumento.

Nei grandi focolari ardevano tronchi interi di quercia, e dentro i paiuoli di rame cuocevano intere pecore. Alcuni uomini, seduti per terra, infocati in viso e con gli occhi lacrimosi per il fumo, facevano girare lentamente, sopra le brace, intere coscie di montone, infilate in grossi spiedi di legno. Una quantità enorme di carne di montone rosseggiava sulle panche disposte lungo le pareti; e nei recipienti di legno e di sughero fumavano ancora le viscere, e qua e là s’ammucchiavano le pelli nere e giallastre delle cento e più pecore sgozzate per festeggiare degnamente il piccolo San Basilio protettore di Barunei.

Mentre Miale Corbu conduceva Paulu in una specie di loggia coperta, dove una donna serviva [p. 68 modifica]caffè e liquori alle persone che si degnavano di visitare il priore, ziu Castigu introduceva Rosa ed Annesa nelle stanze attigue alla cucina. In una di queste stanze dovevano pranzare gli uomini, in un’altra le donne e i fanciulli; in una terza, detta la stanza dei confetti, stavano i dolci, in un’altra il pane. Ed in tutte le stanze, basse e fumose, s’agitavano strane figure di uomini barbuti, che preparavano i taglieri e i coltelli per il banchetto.

— Quanto pane! Ce n’è per cento anni! — disse Rosa, con la sua vocina di vecchia, fermandosi davanti ai larghi canestri colmi di focaccie bianche e lucide.

— Magari, rosellina mia, — disse ziu Castigu, che ascoltava religiosamente ogni parola della bimba.

— Chi mangia tutto questo pane? L’orco? domandò Rosa, curvando su un cestino l’enorme testa che pareva dovesse da un momento all’altro staccarsi dall’esile busto.

Ziu Castigu rise, poi spiegò alla bimba che buona parte del pane veniva consumata durante il banchetto, e il resto veniva distribuito ai mendicanti ed ai fedeli che visitavano il priore.

— Se tu ritornerai fra due ore, rosellina mia, vedrai che gli uomini mangiano più dell’orco. Eccone uno, per esempio, che sfiderebbe l’orco a mangiar più di lui...

Un uomo grosso e tarchiato, con una abbondante barba rossastra, entrava in quel momento nella stanza del pane. Teneva in mano una fetta di [p. 69 modifica]carne bollita, fumante, e un coltello a serramanico: e ogni tanto strappava un boccone coi denti, e se qualche tendine resisteva lo tagliava col coltello, senza toglier la carne di bocca, e masticava con avidità, mentre i suoi occhi d’un cupo turchino, luminosi e freddi, esprimevano una voluttà ferina.

— Sì, ricordo, — disse Annesa: — l’anno scorso passai di qui mentre pranzavate, e sembravate tanti lupi. Ognuno di voi teneva sulle ginocchia un tagliere colmo di carne, e mentre ne mangiava una fetta adocchiava già l’altra. Pareva che non aveste mai veduto grazia di Dio!

— È festa: bisogna mangiare! — disse ziu Castigu, senza offendersi. — Mangiamo noi e diamo da mangiare agli altri. Ecco!

Un altro pastore, giovine e bello, col corsetto rosso slacciato e adorno di nastri azzurri, s’avanzò sorridendo, e offrì ad Annesa un tagliere colmo di carne fumante4.

— Bellina, — disse galantemente il giovine, questo è per te.

Santu Basile meu! — esclamò la donna, sollevando le mani e ritraendosi spaventata. — Tutta quella roba lì? Che ne faccio io di tutta quella carne?

— La mangi! — disse l’altro con voce grave.

Ella capì che non accettando avrebbe offeso il giovine, e disse cortesemente: [p. 70 modifica]

— Ebbene, avvolgimi questa roba in un fazzoletto: la porterò a casa.

— A chi? A Gantine tuo?

— Gantine suo? Eccolo qui! — esclamò ziu Castigu.

Infatti il giovine servo entrava in quel momento. Vestito a festa, col corsetto rosso orlato d’azzurro, sbarbato e coi capelli lucidi e lisci, ricadenti sulle orecchie a guisa d’una cuffia di raso nero, Gantine appariva più grazioso del solito, e Annesa lo guardò con tenerezza quasi materna.

— Ho saputo ch’eri qui, — egli le disse, con mal celata gelosia. — Andiamo fuori. Andiamo. Donna Rachele ti aspetta; ha bisogno di te.

Le parole erano semplici, ma la voce insolitamente amara. Che aveva Gantine? Sembrava un po’ triste e diffidente; e Annesa si turbò, ma al solito seppe fingere, ed anzi si mostrò offesa.

— Donna Rachele sa quando devo tornare, disse lentamente. — Tornerò a casa quando mi piacerà.

— Tu vieni subito con me, — ripetè Gantine, facendosi pallido. — Ziu Castigu, diteglielo voi.

— Gantine è geloso! — esclamò beffardo il giovane dal tagliere. — Va, bellina, va. Egli ti comprerà il torrone. Del resto hai torto, Gantine. Siamo tutti fratelli, qui, non siamo stranieri, e nessuno tenta rubarti la tua colomba.

— Fratelli? Gente tua, morte tua... — rispose Gantine: poi parve pentirsi della sua frase, e rise, d’un riso forzato. [p. 71 modifica]

Annesa palpitò, ma finse di non aver udito le parole del fidanzato.

— Andiamo. Rosa, dammi la manina. Ziu Castigu, se don Paulu domanda di Rosa ditegli che siamo già andate via.

Uscì, per una porticina che s’apriva in fondo alla stanza del pane, e il servo la seguì. Da quella parte il luogo era quasi deserto: solo alcuni mendicanti, accovacciati fra le roccie e le macchie, divoravano il pane e la carne che il priore aveva fatto loro distribuire. Precisamente in quel punto, dove cominciava il sentiero della montagna, era morto il vecchio cieco che aveva condotto Annesa nel villaggio. Ella non ricordava nulla del misterioso fatto, ma ogni volta che era costretta a passare di là le pareva di rivedere il vecchio mendicante morto; provava un confuso sentimento di angoscia e di umiliazione, e diceva a sè stessa:

— Egli mi ha condotto e lasciato qui, mentre poteva condurmi altrove... Sarei stata una mendicante, una vera serva, ma avrei sofferto meno. Eppure...

Eppure, in fondo, ella non concepiva la vita in altro modo, senza Paulu, senza dolore, senza passione.

— Ero nata per questo...

Più che mai in quel giorno, passando con Rosa e Gantine nel luogo ove era morto il vecchio, ella si sentì umiliata e triste: affrettò il passo e guardò lontano, con gli occhi velati, col viso coperto dalla solita maschera di tristezza sdegnosa. [p. 72 modifica]

Gantine la raggiunse: le si mise a fianco, la guardò fisso.

— Anna, — le disse, quasi supplichevole, — non essere così sdegnata. Perdonami, Anna, l’ho fatto per il tuo bene. Tu sai che le donne non entrano là, dove sono gli uomini, o v’entrano coi loro mariti, coi loro fratelli.

— Io sono entrata con don Paulu.

— Ebbene, egli appunto non è tuo marito, non è tuo fratello — riprese il giovine sospirando. — I miei amici vi hanno veduti assieme e hanno mormorato. La gente è maliziosa, Anna!

— Questa è nuova — ella esclamò con sarcasmo. E affrettò di nuovo il passo, trascinandosi dietro la bimba pesante. Svoltarono, si ritrovarono presso il venditore di torrone. Più in là l’ospite povero, esponeva le sue briglie ed i suoi sproni sopra una bisaccia distesa per terra come un tappeto. Vedendo Gantine, egli sorrise e fece addio con la mano.

— Ebbene, — disse il giovine servo avvicinandosi, — avresti per caso una briglia per una puledra indomita?

Ed entrambi guardarono Annesa e risero.

— Anna, — pregò poi Gantine, — mi permetti di offrirti una libbra di torrone?

— Le puledre non mangiano torrone, — ella rispose, rassicurata.

Gantine disse qualche altra parola, ma la sua voce fu coperta dal rumore assordante del tamburo che risuonò quasi lugubre nell’improvviso silenzio della folla. [p. 73 modifica]

Il messo annunziava, con la sua voce rauca e alta di predicatore, che alle cinque pomeridiane sarebbe cominciata la corsa dei cavalli.

— Primo premio, venti lire in argento e un drappo di broccato fino: secondo premio, dieci lire in argento e un fazzoletto di seta...

Un nugolo di ragazzacci circondava e molestava il messo: uno spingeva la sua audacia fino a battere il tamburo con un bastoncino.

— Terzo premio, uno scudo d’argento e una berretta sarda nuova fiammante. — Ragazzi, levatevimi d’intorno, altrimenti vi distribuisco tanti calci che non vedete dove andate a finire!



Verso le tre pomeridiane Annesa, mentre attraversava l’andito, vide nel vano della porta semiaperta la grossa pancia di prete Virdis. Col suo passo leggero e silenzioso ella corse incontro al vecchio sacerdote, e mentre spalancava la porta, gli sorrise come non gli aveva mai sorriso.

Il sole, che batteva sulla facciata della vecchia casa e illuminava tutta la straducola deserta, penetrò nell’andito e indorò il viso smorto di Annesa. Il prete la guardava intensamente; le sbattè sul [p. 74 modifica]braccio un fazzoletto rosso e turchino ch’egli teneva sempre in mano, poi le domandò:

— Ebbene, a che pensiamo? Mi sembri pallida, donna. Sei malata?

— Io? Non sono stata mai così bene, prete Virdis mio! Venga, venga avanti.

Ella volse le spalle, corse ad aprire l’uscio della camera del vecchio asmatico. Il prete si avanzò, sbuffando, entrò, si guardò attorno.

Ziu Zua pareva assopito, ma appena scorse il prete si animò, si agitò.

— E gli altri? Come va, compare Zua?

— Don Simone è uscito, ziu Cosimu e donna Rachela sono nell’orto. Devo chiamarli, prete Virdis? — domandò Annesa con premura. Ma subito si accorse che ziu Zua s’era allarmato per la visita del prete, e si pentì della sua domanda.

— Ora vado a chiamarli: s’accomodi.

— Annesa, tira su questo cuscino, — le ordinò il vecchio asmatico.

Ella si avvicinò e accomodò i cuscini, mentre il prete sedeva accanto al letto asciugandosi il sudore del viso e del collo col suo famoso fazzoletto turchino e rosso.

— Aufh! Aufh! Sono stanco morto! Avete ospiti, Annesa?

— Sissignore: due. Un ricco proprietario e un venditore di briglie. Vanno bene così, i cuscini, ziu Zua?

— Va bene, vattene! — rispose duramente l’infermo. [p. 75 modifica]

Ella s’allontanò, e il prete s’accorse che il viso di ziu Zua s’era fatto cupo, più diffidente e brutto del solito.

— Aufh! Aufh! Quante mosche avete! Annesa, perchè non chiudi un po’ quelle imposte?

Annesa socchiuse la finestra, uscì, si appoggiò all’uscio: ma per qualche momento non udì che lo sbuffare del prete e i sospiri anelanti del vecchio.

Brutto segno, quando ziu Zua sospirava così, esageratamente. E prete Virdis lo sapeva, ed anche egli sbuffava più forte del solito.

Finalmente il vecchio asmatico domandò: — Perchè questa visita, a quest’ora? Avete fatto buona festa, compare Virdis?

— La festa non è ancora finita, compare Zua. C’è ancora la processione, la corsa dei cavalli, la benedizione.

— Ah, — riprese il vecchio, con voce melanconica — chi credeva, due o tre anni fa, che io non avrei più partecipato alla festa? Son vivo e son morto... Tutto per me è finito.

Sospirò e abbandonò sui cuscini la testa cadaverica: due lagrime apparvero negli angoli rugosi dei suoi occhi, come gocce di rugiada fra le pieghe d’una foglia morta.

— No, — disse una voce grave e dolce che ad Annesa non parve più la voce di prete Virdis, — niente è finito, Zua Dechè! Tutto invece deve cominciare...

— Io sono un uomo morto, compare Virdis!

— Che cosa è la nostra vita davanti all’eternità, Zua Dechè? Un granellino di sabbia davanti [p. 76 modifica]al mare, una piuma nel cielo infinito. E le nostre pene più gravi, e tutta la nostra esistenza e le sue passioni ed i suoi orrori non sono che soffi di vento. Oggi siamo vivi, domani saremo morti; e solo allora potremo dire: tutto incomincia e nulla finirà...

Il vecchio asmatico sospirò ancora.

— Sia fatta la volontà di Dio, compare Virdis! Ch’egli mi prenda o mi lasci, per me ormai è la stessa cosa. Gli uomini come me, anzi, farebbero bene a morir presto. Che faccio io nel mondo? Sono di peso a me ed agli altri. Qualcuno, del resto, l’ha già capito benissimo e pensa a spazzarmi dal mondo come si spazza l’immondezza da una stanza o da una strada...

Dietro la porta Annesa sussultò: si mise una mano sulla fronte e cessò di respirare per ascoltar meglio. E la voce di prete Virdis risuonò di nuovo grossa e rauca:

— Aufh! Aufh! Che parole son queste, compare Zua? Perchè parlate così? E se vi sentissero?

— E credete voi che non ci sia qualche orecchio aperto per sentirmi, compare Virdis? Ogni porta, qui, ogni finestra, ogni buco è fornito d’orecchie per sentirmi, come ogni mano è pronta a colpirmi! Mi ascoltino pure: o che forse non parlo apertamente, in presenza di tutti?... L’eternità? — disse poi il vecchio, sempre più ansante e agitato. — Voi parlate dell’eternità, compare Virdis? L’eternità è in questo mondo, per chi soffre: ogni ora è un anno, ogni giorno è un secolo d’agonia. Ma basta, ripeto, sia fatta la volontà di Dio. [p. 77 modifica]

— Voi delirate, — riprese prete Virdis. — Ve l’ho già detto mille volte; è una malattia la vostra, una mania di persecuzione. Chi pensa a farvi del male? E perchè? E se pensate questo, perchè rimanete qui?

— E dove andare? — chiese il vecchio, piangendo. Io non ho casa, non ho fratelli, non ho amici. Nessuno mi vuol bene. Dovunque vada ci sarà sempre qualcuno che avrà intenzione di derubarmi. Tutti mi odiano perchè ho con me pochi soldi. L’aria stessa mi è nemica e non si lascia respirare da me...

— Zua Dechè, buttateli via, allora, questi pochi soldi: o fate una opera di carità... Quando non avrete più niente...

— Quando non avrò più niente sarà peggio ancora: sarò considerato come un cane vecchio, come un cavallo vecchio...

— Va bene! Vi uccideranno lo stesso! — esclamò il prete, adirandosi. — Zua, Zua, il vostro male è davvero inguaribile... E siete voi che non avete timor di Dio. E siete voi che non amate nessuno, che non avete mai amato nessuno...

— Io... Io...

— Sì, voi, compare Zua! Chi avete mai amato, voi? I denari soltanto. Quante volte vi ho detto, molti e molti anni or sono: «Compare, createvi una famiglia: compare, seguite i precetti di Dio...»

— Nessuno meglio di me ha seguito i precetti di Dio. Io non ho mai peccato, non ho rubato, non ho ucciso, non ho deposto il falso, non ho guardato la donna altrui. Ma Dio è ingiusto... [p. 78 modifica]

— Anche questa, anghelos santos! — gridò il prete, battendo le mani, sempre più irritato. Ora non c’è che un Dio cattivo e ingiusto. Vecchi, giovani, uomini, donne, tutti se la prendono con Dio. È molto comodo, accusare il Signore del male che noi stessi ci facciamo. Ma bravo, Zua Dechè! Anche voi, vecchio pezzo d’asino! Lasciatemi parlare, altrimenti schianto! perchè io non mi offendo se mi insultate, se mi calunniate, ed anche se mi bastonate: ma non posso sopportare che si offenda Dio. Questo no! Ah, è Dio che vi dice di non ajutare il prossimo, di non amarlo, di non fare agli altri il male che non volete sia fatto a voi? È Dio che vi ha detto di starvene sempre solo nella vita, per non aver seccature, per accumulare denari, per non aver responsabilità? E ora prendetevi questa, compare mio! Statevene solo per tutta la vita, solo, sì, appunto solo come un cane vecchio.

Ziu Zua sospirava e gemeva, ma non osava più protestare, forse dando fra sè ragione al vecchio amico. E il vecchio amico proseguì:

— Sì, è proprio Dio che vi consiglia l’avarizia, e che vi dice: nascondili bene i tuoi soldi, Zua, nascondili e amali sopra ogni cosa, anche più di te stesso. E non dare ajuto a chi sta per naufragare e ti porge disperatamente le mani...

— Ah, abbiamo capito! — disse allora il vecchio, sollevandosi. — Abbiamo capito.

— Voi non avete capito niente, invece!

— Ho capito... ho capito... — ripetè l’altro, che volle di nuovo cambiare discorso. — Tutto il male [p. 79 modifica]ce lo siamo fatto noi. Anche la gamba me la son rotta io...

— E ve l’ha rotta Dio? Se non andavate alla guerra...

Ma tosto prete Virdis s’interruppe, e comprese che la sua visita poteva giudicarsi inutile: non solo inutile, ma anche dannosa.

— Alla guerra! alla guerra! — gridava il vecchio, agitandosi tutto, ansante, tremante, incosciente. — Ah! ah! ah! Tutto potete rinfacciarmi, ma non questo! Alla guerra! Sicuro, alla guerra... ci sono andato... perchè mi ha mandato il re... perchè alla guerra vanno tutti gli uomini forti, gli uomini di coscienza... E io, io... sono andato, e andrei ancora, io... e La Marmora... e Bellaclava... e la medaglia, eccola, specchiatevi... qui... la medaglia... specchiatevi...

La sua voce rabbiosa s’affievolì, le sue parole finirono in un rantolo.

— È finita! Prete Virdis non può dire davvero d’essere un uomo furbo! — pensò Annesa dietro l’uscio. Fin da principio ella aveva capito che ziu Zua deviava il discorso e provocava il prete, inducendolo a parlar male, per non lasciargli modo di spiegare il motivo della sua visita. Ma compare Virdis era andato anche troppo oltre, e aveva colpito troppo sul vivo il suo vecchio amico: Annesa ora lo sentiva muoversi e sbuffare, incapace di rimediare al mal fatto, ed anche lei stringeva i denti, arrabbiata più contro di lui che contro ziu Zua. [p. 80 modifica]

Quella notte il vecchio ebbe un forte accesso d’asma. Annesa, a un certo punto, credette ch’egli dovesse morire e provò uno strano sentimento di gioia e di terrore.

Ah, se il vecchio moriva! Con la sua morte tutto si accomodava. Ma la morte è sempre un avvenimento misterioso e terribile, e non ostante il suo coraggio ed il suo desiderio crudele, Annesa si spaventò all'idea che il vecchio dovesse morirle fra le braccia da un momento all’altro. Aprì quindi l’uscio di cucina e chiamò Gantine. L’ospite povero non era ancora rientrato; il servo dormiva profondamente, ed anzi russava come un vecchio, cosa che dispiaceva molto alla fidanzata.

Ella dovette chiamarlo due volte: egli si svegliò di soprassalto e stentò a capire quello che Annesa diceva. Poi entrò nella camera e s’avvicinò al lettuccio, ma invece di badare al vecchio cominciò a pizzicare la fidanzata, tanto ch’ella s’inquietò.

— Malanno che ti prenda, Gantine, sciocco! Ti ho chiamato per questo?

— E dunque perchè mi hai chiamato? — egli mormorò, sospirando. — Non vedi che ziu Zua sta meglio di me? Perchè respira un po’ male? Vedrai che subito passa. Eh, ziu Zua? — gridò poi curvandosi sul letto, — Che c’è? Come va? Volete che chiami il dottore?

Il vecchio stralunava gli occhi, agitava le mani, quasi volendo smuover l’aria intorno a sè. Ma dopo un momento si calmò, e il suo viso congestionato riprese il solito colore giallognolo. [p. 81 modifica]

— Compare Virdis... — mormorò.

— Volete che lo chiamiamo? — domandò Annesa con premura.

Egli la guardò, ma non rispose.

— Ora state meglio? Volete il dottore? — insistè Gantine, che si era seduto ai piedi del letto e non aveva intenzione di andarsene.

— Il dottore... Il dottore... Quando è che avete chiamato il dottore per me?... Un po’ d’acqua, almeno, datemi... — borbottò il vecchio. — Acqua fresca...

— Eccola.

Annesa gli accostò il bicchiere alla bocca, ma egli assaggiò appena l’acqua e la sputò dentro il bicchiere.

— È fuoco questo, non acqua... Nel pozzo non ce n’è?... Portami un po’ d’acqua fresca, almeno...

Per tener fresca l’acqua Annesa legava la brocca ad una corda e la calava nel pozzo. Uscì dunque nel cortile e tirò su la brocca, versò un bicchiere d’acqua e s’avviava per rientrare quando s’accorse che Gantine le veniva incontro.

— Che vuoi? — disse a voce alta.

Egli la prese fra le braccia, la baciò con violenza. Ella rovesciò l’acqua.

— Lasciami, — disse irritata, cercando di svincolarsi, ma egli la baciò e la strinse più forte.

— Sei o no la mia sposa? — le diceva, quasi anelando, cieco di desiderio. — Perchè mi sfuggi sempre? Perchè non vuoi mai vedermi? Prima non eri così, Annesa! Pare che tu ora non mi ami più. [p. 82 modifica]

— Lasciami andare: il vecchio aspetta.

— Lascialo aspettare: sarebbe meglio che morisse una buona volta... Se egli muore i padroni potranno finalmente darmi i denari che mi devono, e potremo sposarci. Ma intanto, Annesa, sta qui con me un momento. Tu fuggi sempre... Si direbbe che hai paura.

— Ho paura, sì, — ella rispose, un po’ ironica.

— Sei onesta, lo so: e questo mi piace. Ma qualche volta puoi stare con me...

— Lasciami — ella insistè, con voce aspra.

— Torna, Annesa; ti aspetto... — egli supplicò. Fra due o tre giorni devo partire. Se non ci vediamo stasera non potremo vederci più. Vieni, Annesa...

— Lasciami: vedrò.

Egli la lasciò, ma ella non uscì più: anzi si affrettò a richiudere l’uscio col catenaccio, e non rispose ai lamenti e alle imprecazioni del vecchio.

L’indomani mattina per tempo gli ospiti partirono e anche il servo dovette andare sulla montagna per ricondurre il cavallo di Paulu.

Passata la festa, la vita in casa Decherchi riprese il solito corso monotono e triste. I due nonni andavano in chiesa, poi si trattenevano a lungo coi loro vecchi amici, seduti sulle panche di pietra davanti alla porta del Municipio. Di sera, invece, sedevano davanti alla porta di casa, e qualche volta prete Virdis teneva loro compagnia.

Paulu aveva anch’egli i suoi amici, i suoi affari, i suoi intrighi, e quando stava in paese ritornava a casa solo a mezzogiorno e alla sera. [p. 83 modifica]

E le due donne lavoravano, e donna Rachele pregava continuamente. A tavola gli uomini parlavano male del prossimo, e raramente si occupavano dei loro affari. Eppure questi affari andavano malissimo. Tre giorni dopo la festa, il messo, che funzionava anche da usciere, notificò ai Decherchi gli atti per la prima asta della casa e della banca.

Ancora due settimane e tutto sarebbe andato in malora. I nonni e donna Rachele non sembravano tuttavia molto inquieti; aspettavano forse l’intervento della divina provvidenza, o speravano che Paulu trovasse i denari. Anch’egli, del resto sperava ancora. Ballore Spanu gli aveva detto, prima di partire:

— Io sono ancora come un figlio di famiglia, tu lo sai. Non posso disporre di un centesimo. Ma se tu vieni al mio paese posso presentarti alla sorella del parroco, una vecchia riccona, che senza dubbio ti potrà prestare qualche migliaio di lire. Fra otto giorni anche noi avremo la festa: farai bene a venire.

Egli era deciso di tentare ancora questo passo. E se non gli riusciva...

— Non so perchè — disse ad Annesa, la sera prima della partenza — ma son certo che troverò... Non tornerò a casa senza i denari... piuttosto mi uccido...

Non era la prima volta che egli minacciava di suicidarsi; ma Annesa non si era mai tanto spaventata. [p. 84 modifica]

Egli partì. Anche Gantine era partito per la foresta di Lula, dove sarebbe rimasto fino al tempo delle seminagioni.

Il vecchio asmatico volle confessarsi. Prete Virdis rimase lungamente con lui, e quando uscì dalla camera e sedette vicino alla porta assieme coi due nonni, Annesa notò in lui un’insolita allegrezza.

— Prete Virdis è allegro — ella disse a donna Rachele. — Deve aver convinto ziu Zua ad aiutarci.

— Dio lo voglia! — sospirò l’altra. — Farei un pellegrinaggio a piedi fino alla madonna di Gonare.

Ma per quanto Annesa ascoltasse, il prete non diede ai vecchi la buona notizia. Egli chiamò Rosa e le fece raccontare la Storia del Signore morto, e discusse a lungo con la bimba circa i particolari di questa Storia, poi chiacchierò con ziu Cosimu e don Simone a proposito di Santus, il pastore accusato di parricidio, e anch’egli sostenne l’innocenza del disgraziato padre.

— È partito ancora: ha saputo che il figlio si trova in un ovile vicino ad Ozieri.

— Sarebbe il caso di appiccarlo davvero, se lo trova! — disse ziu Cosimu, con insolita asprezza.

Prete Virdis cominciò a sbuffare e a gesticolare, scandolezzato.

— Cosimu Damianu! Che dici? che dici? Son parole d’un cristiano, le tue? E che, diventi una bestia feroce, ora?

Allora Rosa raccontò un sogno terribile avuto la notte prima. [p. 85 modifica]

— C’era un lupo, lungo, lungo, lungo, con una codina piccola piccola. E correva dietro a un’altra bestia ferocia, in un deserto. Un bel momento apparve un uomo con una canna e uno spiedo...

— Che sogno, Dio mio! — disse ziu Cosimu, facendo gesti di spavento. — Ho paura, io!

Rosa cominciò a ridere, ma poi ridiventò seria e aprì le manine:

— Eh, non aver paura! È un sogno!

— E poi, l’uomo con lo spiedo?

— L’uomo corse, corse. E c’era vicino un altro deserto: poi un altro ancora...

— Insomma ce n’era una provvista, di deserti! esclamò prete Virdis.

— Ascoltate, ascoltate! — disse Rosa con impazienza.

E i tre vecchi stettero attenti alle chiacchiere fantastiche della bimba, mentre nell’andito Annesa e donna Rachele sognavano, la prima aspettando, con tragica attesa, un momento di pace e di speranza, e la seconda pregando invano un Dio che non si commoveva mai.


  1. ... Gli occhi, il viso bello,
    I capelli biondi graziosi!
    Per me non ritornerà mai
    Il riposo perduto.
  2. Banditore.
  3. Quarto d’ettolitro.
  4. Questi taglieri, di legno, han forma di vassoi, con un manico solo; in un angolo v’è un’incavatura per il sale.