L'impresario delle Smirne (in versi)/Atto IV

Da Wikisource.
Atto IV

../Atto III ../Atto V IncludiIntestazione 2 giugno 2020 100% Da definire

Atto III Atto V

[p. 325 modifica]

ATTO QUARTO.

SCENA PRIMA.

Camera di locanda con lumi.

Lucrezia e il Conte Lasca.

Conte. Spiacemi che dal Turco venir non ho potuto,

Ma tutto intieramente so quel ch’è succeduto,
So dell’altre due donne la vaga pretensione,
E do a voi nel confronto giustissima ragione.
Lucrezia. Eh, so che fate celia.
Conte.   Il termine spiegate.
Lucrezia. Fate celia, vuol dire che voi mi corbellate.
Conte. Perchè?
Lucrezia.   Perchè ragione mi date a me dappresso,
E all’altre cinguettando direte lor lo stesso.
Ma con meco, signore, menate il can per l’aia;
Se mi vien la saetta, vi pagherò la baia.
Conte. Eh via, senza ragione voi vi movete a sdegno;
Per voi, ve lo protesto, preso ho il più forte impegno.
Qui non decide il merito, non ve n’abbiate a male;
Credo di voi ciascuna passabilmente eguale.
Per cantar alle Smirne ognuna è sufficiente,
Sia prima, o sia seconda, la cosa è indifferente;
Ma sostener volendo tre donne i dritti suoi,
Presso dell’impresario m’impegnerò per voi.
Lucrezia. Mettendomi al confronto con femmine da nulla,
Credete, a quel ch’io sento, non meriti una frulla.
Conte. Anzi vi stimo un mondo; il merito ho capito,
Benchè la vostra voce non abbia mai sentito.
Avete dello spirito, sapete comandare;

[p. 326 modifica]
La gente a prima vista vi piace di frezzare.

Avete nel pretendere un po’ di superbietta;
Siete per tutto questo virtuosa perfetta.
Lucrezia. Voi mi mettete in frega, per dirvi salmissia
Di quelle parolaccie ch’usano in Lombardia.
Conte. Ditele francamente, con giubilo le attendo;
Per donna che strapazzano, credete, io non m’offendo.
Anzi quanto direte maggior bestialità,
Mi crescerà il concetto di vostra abilità.
Lucrezia. Siete un bell’arcolaio.
Conte.   Spiegatelo in volgare.
Lucrezia. Siete una buona testa.
Conte.   È ver, così mi pare.
Lucrezia. Lasciam le fanfaluche, e favelliam sul sodo.
Sarò io prima donna?
Conte.   Sì, vel prometto.
Lucrezia.   E il modo?
Conte. Dopo che voi partiste, col Turco ho favellato;
Lo trovai per più capi moltissimo agitato.
Nibbio con imprudenza gli feo scaldar la mente,
Guidandogli dinanzi un diavolo di gente.
Studiai di serenarlo, e m’impegnai con esso,
Per lui, che non sa niente, d’interessarmi io stesso.
Nel stato in cui si trova, gli sembra aver trovato
Un aiuto dal cielo in suo favor mandato.
A me si raccomanda. Conosce il mio talento,
E d’essere gli diedi da voi l’appuntamento.
Lucrezia. Verrà qui questa sera?
Conte.   Venir mi diè parola.
Lucrezia. Almeno avrò il piacere di favellargli io sola.
Conte. Ma verran qui pur anche l’Annina e la Tognina.
Lucrezia. In casa mia verranno? (con sdegno)
Conte.   No, cara Lucrezzina.
Non dite in casa vostra; noi siamo alla locanda;
Non negasi l’ingresso a ognun che lo domanda.

[p. 327 modifica]
Se poi non le volete nel vostro appartamento.

Grazie vi renderanno d’un sì bel complimento.
Lucrezia. Vengano pur, mi basta che siate voi presente.
Che alcuna non ardisca di far l’impertinente.
Poichè se mi verranno a proverbiare in faccia,
Saprò, se la mi monta, render pan per focaccia.
Conte. No, staranno in cervello; dove son io, lo sanno
Che non vi è da trescare, e il bell’umor non fanno.
Con esse ho già parlato, e quando verran qua,
Tratteranno con voi con tutta civiltà.
Lucrezia. Con chi mi tratta bene, bene so anch’io trattare.
Non han le Fiorentine bisogno d’imparare;
Anzi, se vengon eglino in questo appartamento,
Necessario è di fare un qualche trattamento.
Conte. Eh, non preme.
Lucrezia.   Non dico di fare all’impazzata.
Ma un poco di caffè o un po’ di cioccolata.
Conte. Credetemi, è superfluo.
Lucrezia.   Si usa al paese mio;
Un poco di rinfresco lo farò portar io.
Conte. No, toccherebbe a me, se ciò far si dovesse.
Lucrezia. Fatelo dunque voi.
Conte.   Lo farei, se occorresse.
Ma non verran da voi per far conversazione;
Trattandosi d’affari sarebbe affettazione.
Ecco la Veneziana. Fatele buona ciera;
Meglio assai d’un rinfresco val la buona maniera.

SCENA II.

Tonina e detti.

Tonina. Patrona riverita.

Lucrezia.   Serva sua divotissima.
Tonina. Stala ben? Me consola, che la ciera è bonissima.
Lucrezia. Sto ben per obbedirla. Ed ella come sta?

[p. 328 modifica]
Tonina. Stago ben per servirla.

Lucrezia.   Ne godo in verità.
Conte. Brave, signore mie, avrò piacer che siate
Buone compagne e amiche, e che alle Smirne andiate.
Tonina. Sarave una fortuna, se avesse el bell’onor
D’esser co sta signora, che è tanto de buon cuor.
Lucrezia. Anzi io potrei chiamarmi felice e fortunata,
Con una virtuosa sì bella e sì garbata.
Tonina. Cosa disela mai? Questa xe so bontà;
So che xe grando el merito de la so abilità.
Lucrezia. S’inganna, indegnamente diconmi virtuosa;
Spero, se andremo insieme, d’imparar qualche cosa.
Tonina. Co umile, co bona!
Lucrezia.   Mi piace estremamente.
Tonina. Cara la mia compagna. (prendendola per mano)
Lucrezia.   Serva sua riverente.
Conte. (Queste tante finezze non vengono dal core).
Lucrezia. Chi è di là, da sedere.
Conte.   Eh farò io, signore, (accosta le sedie)
Tonina. Sior Conte è assae zentil.
Lucrezia.   Sì certo, è manieroso.
Tonina. E quel che più se stima, l’è de un cor generoso.
Conte. Ehi signore, burlatevi fra voi quanto volete,
Ma se con me scherzate, chi son io lo sapete.
Tonina. Mo no se pol negar, che nol sia de bon cuor;
Centomile espression gh’ho del so bon amor.
Cossa non alo fatto per mi, che no son degna?
(al Conte)
Farme andar alle Smirne sto cavalier s’impegna.
E éla vegnirala? (a Lucrezia)
Lucrezia.   Spero de sì.
Tonina.   Magari.
Lucrezia. Il piacer ch’ella prova, provo ancor io del pari.
Tonina. In nave, vita mia, voggio che se godemo!
Vôi che se divertimo, e voggio che cantemo.

[p. 329 modifica]
Ghe passerò la parte. Compagno qualcossetta.

E éla?
Lucrezia.   Qualche poco.
Tonina.   Oh, la sarà perfetta.
Xela soprana?
Lucrezia.   Certo.
Tonina.   Brava. L’arriverà
Fina al gesoreut.
Lucrezia.   Anche un poco più in là.
Tonina. Mo caspita, dasseno, me ne consolo assae.
Cara siora Lugrezia, semo ben compagnae.
Mi son un’ignorante, no son de quelle brave.
Ma gh’ho nella mia ose1 tre bellissime ottave.
Lucrezia. Oh quanto mi consolo della di lei virtù!
Una compagna simile non vo’ lasciar mai più.
Conte. (Io le ascolto, e le godo, che le conosco a fondo.
Donne di lor più accorte non ho veduto al mondo).
Tonina. La diga, ala osservà dal Turco stamattina
Quella zovene granda?
Lucrezia.   E chi è?
Tonina.   La Mistocchina.
Lucrezia. Che vuol dir mistocchina?
Tonina.   Vol dir, al suo paese,
Fugazza de castagne fatta alla bolognese.
I gh’ha dà un sovranome, che ghe convien da amiga.
No la sa, poverazza, che diavolo la diga.
Xe più de dodes’anni che la imparà a cantar,
E, da quella che son, no la sa solfeggiar.
No la unisse la ose, no la intona una nota.
La va fora de tempo, la siga2 e la barbota,
La magna le parole, la tien i denti stretti,
La fa cento sberleffi, la gh’ha mille difetti.
Conte. (Ora principia il buono della conversazione;
Par che sia necessario la sua mormorazione).

[p. 330 modifica]
Lucrezia. E mettersi voleva a recitar con seco?

V’è una gran differenza: la vederebbe un cieco.
Oltre il valor del canto per arte e per natura,
In lei si riconosce il garbo e la bravura.
Mi piace il suo gestire, se nel parlar si scalda,
Molto più recitando sarà la scena calda;
E ammiro sopra tutto quel gesto naturale,
Quel mover delle braccia, quel far confidenziale.
Conte. (Che tu sia maledetta, può corbellar di più?)
Tonina. Me movo un poco troppo, ma xe la zoventù.
Lucrezia. Certo che è giovanissima.
Tonina.   Eh, son vecchia debotto3.
Lucrezia. Quanto avrà, sedici anni?
Tonina.   Oh, i xe squasi disdotto.
Lucrezia. Non lo credevo, e quanti ne avrà la Bolognese?
Tonina. No gh’è tra ela e mi disparità d’un mese.
Ela, quanti ghe n’ala? Vinti?
Lucrezia.   Poco vi manca.
Tonina. In verità, dasseno, no la li mostra gnanca4.
Lucrezia. Eppure i diciannove sono di già passati.
Conte. (E quelli della balia dove li hanno lasciati?)
Tonina. Mo via, nol dise gnente?
Conte.   Lascio parlare a voi.
Tonina. Nu parlemo dei anni. Quanti sarali i sói?
Conte. Ventitré non finiti.
Tonina.   Oh caro, ventitré?
Conte. Se calano per voi, han da calar per me.
Tonina. (Che galiotto!)
Lucrezia.   Mi par gente sentir di là.
Conte. Ecco la Bolognese.
Lucrezia. ( Vuol alzarsi.)
Tonina.   Eh, che la staga qua.
De sta sorta de zente no l’abbia suggizion.

[p. 331 modifica]
Lucrezia. Vuò fare il mio dovere, vi domando pardon.

È ver che stamattina restar io v’ho vedute,
Mentr’io parlavo in piedi, sul canapè sedute.
Cosa sarà ben fatta, quando da voi si fa,
Ma questo al mio paese sarebbe inciviltà.
(va ad incontrare Annina)
Conte. Ve L’ha appoggiata a tempo.
Tonina.   La xe una gran spuzzetta5.
La gh’ha, per quel che vedo, un’aria maledetta.
La dise de saver, ma no ghe credo un acca,
E quella dei vint’anni credeu che la se tacca?6
Conte. E pure in sua presenza gliela menaste buona.
Tonina. Oe, se ela xe furba, gnanca mi son minchiona.

SCENA III.

Annina accompagnata da Lucrezia, e detti.

Servitore porta una sedia.

Tonina. Oh brava siora Annetta! la s’ha fatto aspettar! (s’alza)

Un baso. (si baciano)
Annina.   Sì, al mi cor. (An la pos suppurtar).
Lucrezia. Favoriscan sedere. (siedono)
Tonina.   V’avemo minzonà.
Annina. Cosa puoi aver det?
Tonina.   Oh, v’avemo lodà.
Conte. Ed io son testimonio.
Annina.   Me an merit ste tant.
Lien laur7 el virtuosi, mi a son un ignurant.
Tonina. Via, via, troppa modestia.
Lucrezia.   È molto ben vestita.
Tonina. Vardè che conzadura.
Lucrezia.   Ha una gran bella vita.

[p. 332 modifica]
Annina. Oh, oh, la pensa li, am ho mes su sti straz,

E po con sta manteglia, en paria un tamaraz?
Tonina. Se la sta tanto ben.
Lucrezia.   Vestita è di buon gusto.
Tonina. La lassa mo che veda, gh’ala de sotto el busto?
Annina. Mo sgnera sì da bon. An son miga aqusè matta
Da sassinarem’la veta.
Tonina.   (Oh che vita malfatta!)
Conte. (Ma che cosa ridicola! Ma che commedia amena!
Ci vorrebbe un poeta a copiar questa scena).
Annina. Ch’ai diga a mi, sgner Cont. L’amigh el gnianc evgnù?
Conte. Non è venuto ancora.
Tonina.   L’aspettemo anca nu.
Credela de vegnir anca ela alle Smirne?
Annina. S’al cil vorrà.
Tonina.   Sior Conte, cossa seu vegnù a dirne?
Da vu no se sa mai la pura verità.
Perchè non aveu ditto che anca éla vegnirà?
Conte. Vi dirò la ragione; finor non ve l’ho detto,
Perchè, quando mi pare, a dir le cose aspetto.
Tonina. Che graziosa risposta!
Lucrezia.   Ma adagio, adagio un poco.
Crediam che per tre donne possa esservi loco?
(È tanto un chiacchierone, che ancor non me ne fido.)
Tonina. Via, patron, la responda. (al Conte)
Conte.   Voi vi scaldate, io rido.
Un libro per tre donne si può trovar con arte,
Ovvero una di voi può far l’ultima parte.
Annina. Chi la vol far, la fazza. Per me an la faz sicura.
Tonina. Che i se comoda pur. Mi no son sta fegura.
Lucrezia. Sono sguaiaterie, signor Conte garbato.
Perchè non dice in pubblico quel che ha detto in privato?
Conte. Zitto, che il Turco viene. Ei vien per causa mia;
Se a principiar tornate, davver lo mando via.
Chi di voi ha bisogno, s’accheti a quel ch’io dico;

[p. 333 modifica]
Se il patto non vi comoda, non me n’importa un fico.

Vi son cento che pregano. La massima è fissata,
Quella di voi che parla, da noi sarà scacciata.
Lucrezia. (S’egli non è un bugiardo, la prima parte è mia).
Annina. (Bisugnarà che tasa).
Tonina.   (Me preme de andar via).

SCENA IV.

Alì e detti.

Conte. Signor Alì, venite.

Alì.   Star fatto? (al Conte)
Conte.   Fatto niente.
Ho piacer che al contratto siate voi pur presente.
Eccovi qui tre donne, che han da venir con voi.
Ciascuna ha il suo gran merito, ciascuna ha i pregi suoi.
Alì. Tre donne?
Conte.   State zitto, che vi dirò il perchè.
Senza accrescer la spesa vi è il loco anche per tre.
Alì. Se far tanto diavolo per prima e per seconda.
Cosa farà per terza?
Conte.   Questo non vi confonda.
La terza può impegnarsi per donna, se il libretto
Tre donne abbia innestate nel scenico soggetto.
Quando non sian che due, giusta l’usato stile,
Reciterà la terza in abito virile.
Annina. Me no cert.
Tonina.   No seguro.
Conte.   Zitto. (alle donne)
Lucrezia.   Per me non parlo.
Conte. L’affar vo’ terminarlo.8
Signore mie, non trattasi di gareggiar fra voi,
Vogliam per prima donna quella che vogliam noi.

[p. 334 modifica]
E chi non si contenta, andarsene può tosto,

E a chi non ha catarri, deputaremo il posto.
Alì. Bravo Conte, star omo. Far ti, mi no parlar.
Femene, se mi parlo, far matto deventar.
Conte. Annina e la Tognina abbian per or pazienza;
Lucrezia questa volta avrà la preferenza.
Ella è la prima donna, e l’impresario è qui.
Tonina. A mi se fa sto torto?
Annina.   Ste tort a una par mi?
Tonina. La diga, sior Alì.
Annina.   Sgnour, la fazza grazia.9 (ad Alì)
Alì. No, non parlar con mi.10
Conte star impresario, Conte star lu patron.
O Conte benedetto! aver ti obligazion.
Conte. Io son un che le cose le aggiusta sul momento;
Via, signora Lucrezia, faccia il suo complimento.
Lucrezia. Ringrazio il mediatore, ringrazio l’impresario,
Ma, favorisca in grazia, qual sarà l’onorario? (ad Alì)
Alì. Conte, Conte parlar.
Conte.   Dirò, signora mia,
Vo’ tutte le tre parti distribuire in pria.
Poi, se rispetto al prezzo siavi difficoltà,
Quella che si contenta, di posto avanzerà.
Vi piace? (ad Alì)
Alì.   Star contento. (Curiosità veder
Se interesse o superbia in donna prevaler).
Lucrezia. (Che invenzion maladetta!)
Tonina.   (L’è un diavolo costù).
Annina. (Al la sa lunga al Cont, un puchetin più de nu).
Conte. Della seconda donna la parte si destina
Alla signora Antonia, detta la Zuecchina.
Tonina. Grazie della carezza.

[p. 335 modifica]
Conte.   Un segno di mia stima

Così male aggradite.
Tonina.   No son bona da prima?
Annina. Se la sgnera Tugnina en n’è cuntenta lì,
La part’ed la seconda al aztarò per mi.
Conte. Sentite? (a Tonino)
Tonina.   Co sior Conte no vôi parer ingrata;
Accetterò la parte, ma però el me l’ha fata.
Conte. Resta per voi la terza, da uomo o pur da donna.
(ad Annina)
Annina. Me ricitar da om? Sgner11 no lam perdona.
Conte. Bene, se non volete, una ne troverò.
Annina. Per en pareir ustinà, pazienza, al aztarò.
Conte. Eccole accomodate. (ad Alì)
Alì.   Meritar to virtù
Far bassà, far visir.
Conte.   Ma far ci resta il più;
S’ha da trattar del prezzo. Favorisca, signora; (a Lucr.)
Quanto desia di paga?
Lucrezia.   Non ve l’ho detto ancora?
Cinquecento zecchini.
Conte.   Bastano quattrocento.
Lucrezia. No, signor, per tal prezzo cantar non mi contento.
Conte. A voi se questa paga, signora mia, si dà,
Accettate il suo posto senza difficoltà? (a Tonina)
Tonina. Sior sì, l’accetterò.
Conte.   Ben, vi sarà accordato...
Lucrezia. Aspettate, signore, ch’io non l’ho ricusato.
Si cerca il suo interesse, allor che si contratta.
Conte. Bastano i quattrocento?
Lucrezia.   Non li ricuso.
Conte.   È fatta, (ad Alì)
Alì. Ti meritar corona.

[p. 336 modifica]
Conte. A voi bastan trecento?

Tonina. Oh che caro sior Conte! Me piase el complimento.
Perchè de prima donna le mie rason ho cesse,
Se vol pregiudicarme anca in tel interesse.
Voggio la paga istessa.
Conte.   Ehi signora Tognina,
Li trecento zecchini li prenderà l’Annina.
Tonina. Sia maledetto! almanco lassème che me sfoga.
Conte. Volete o non volete?
Tonina.   Bisognerà che i toga.
Conte. Brava, così mi piace. Due sono accomodate. (ad Alì)
Alì. Terza non vorrà star. (al Conte)
Conte.   Eh via, non ci pensate.
Son da voi, signorina. (ad Annina)
Annina.   Me za so al mi destin,
A far l’ultima part, e per dusent zechin.12
Conte. Questo è il posto e la paga che a voi vien destinata.
Vi piace o non vi piace?
Annina.   Cosa volel che diga:
Za ved apertament, ch’è inutil la fadiga,
A farò quel ch’al vol.
Conte.   Sentite? Si contenta. (ad Alì)
Per la sua compiacenza, siano dugento e trenta.
Annina. Grazie alla so buntà.
Lucrezia.   Vo’ anch’io l’accrescimento.
Tonina. Anca mi voggio i trenta, a zonta dei tresento.
Lucrezia. È giusto, e li vogliamo.
Tonina.   Se no, faremo el diavolo.
Conte. Fate quel che volete, ei non vi cresce un pavolo.
Ecco qui le scritture, son belle e preparate;
Se volete, firmatele, se non vi piace, andate.
Lucrezia. Strillar per trenta ruspi alfin non mette conto,
Noi faccio pel danaro, mi scaldo per l’affronto.

[p. 337 modifica]
Voglio, per compiacervi, soscrivere la scritta;

Andiam, che a stare in piedi più non mi reggo ritta.
(va al tavolino)
Conte. Sono con voi. (a Lucrezia)
Tonina.   La diga, se pol per convenienza
Saver el dì preciso della nostra partenza?
Conte. Alì ve lo dirà.
Alì.   Nave star in Spignon13;
Per navegar Levante, maestro vento bon.
Domattina voler partir con compagnia;
Subito fatto zorno, vegnir a casa mia.
Portar tutta to roba per imbarcar peota,
Andar a bordo e far quel che vorrà pilota.
Conte. Voi avete capito. All’alba egli vi aspetta.
Potete domattina lasciar la tavoletta.
Più tosto, se vi preme d’avere il viso bello.
Si mette in una scatola la polvere e il pennello.
Questa fattura solita si fa per viaggio ancora;
Non è ver, signorina?
Tonina.   Via, ch’el vaga in malora.
Conte. (Io ci ho tutto il mio gusto farle arrabbiar ben bene).
Ma la notte si avanza, sollecitar conviene.
(va al tavolino)
Tonina. Povero sior Alì, me despiase per elo.
El gh’ha una prima donna, che no la val un pelo, (ad Alì)
Cossa diseu. Annetta?
Annina.   Al sintirà che roba.
Se quella donna incontra, che am possa vegnir la goba.
Alì. No star brava?
Annina.   Ai scumet14 che s’i la senten cantar,
Tut qui ch’en in teater, i se metten a scappar.
Alì. Ma Conte no saver?
Tonina.   El Conte lo farà.
Perchè de quella donna el sarà innamorà.

[p. 338 modifica]
Annina. As ved apertament, che jè della malizia;

Per causa d’amor, al n’ha fatto st’ingiustizia15.
Conte. Venite, se volete, soscrivere ciascuna, (a Tonina ed Annina)
Tonina. Mi, se son prima donna, farò la so fortuna.
(ad Alì, e va al tavolino)
Annina. Al fareu di quattrin s’al se fidas de mi.)
(ad Alì, e va al tavolino)
Alì. Pussibile che Conte star traditor de Alì?
Star tanto in confusion, che no saver che far,
E quel che despiaser, no intender a cantar,
E no saver mi dir, se musica star bona,
E sempre aver paura trovar zente barona.
Lucrezia. Cos’ha, signor Alì, che sembrami accigliato?
Alì. Squasi, squasi pentir de quel che mi aver fato.
Lucrezia. Perchè?
Alì.   Perchè pagar per zente bona e bella,
E dubitar che musica Smirne non sia più quella.
Lucrezia. Davver vi compatisco; non san quelle sguaiate,
In materia di musica, nemmeno se sian nate;
Non hanno i fondamenti, cantano così male,
Che qui non trovan recite nemmeno in carnovale.
Alì. Star compagne de ti.
Lucrezia.   Vi domando perdono.
Sentirete alle Smirne, che femmina ch’io sono.
Alì. (Mi non aver più testa).
Conte.   Le scritte son qui pronte.
(dà le scritture ad Alì)
Alì. (Mi no creder più gnente, ne à femene, nè a Conte).
Tonina. Serva, sior impresario. Domattina a bonora,
Co levarò dal letto, no sarà dì gnancora.
El s' arecorda ben, volemo che sia fata,
Avanti d’imbarcarse, la nostra cioccolata. (parte)
Annina. No, no, la cioccolata la n’om pias nient affatt,
Piutost ch’al me prepara un bon caffè in tal latt. (parte)

[p. 339 modifica]
Lucrezia. lo vado a ritirarmi, che il tempo se ne va;

Se vogliono restare, li lascio in libertà.
Ci rivedrem domani sull’alba del mattino.
Serva sua, signor Conte. Signor Alì, m’inchino. (parte)
Conte. Davver, signor Alì, sia detto a gloria mia,
Di donne sta benissimo la vostra compagnia;
E le avete ad un prezzo...
Alì.   Conte, mi dubitar.
Che ti per bella donna me voler ingannar.
Conte. Di voi mi meraviglio. Che manieraccia è questa?
Alì. Conte mio, compatir, no saver.... no aver più testa16.

SCENA V.

Nibbio e detti.

Nibbio. Per seicento zecchini il musico ho fermato (ad Ah)

Conte. Chi fermaste?
Nibbio.   Carluccio.
Conte.   Quel musico sguaiato?
Signor, non lo prendete, ch’è una caricatura. (ad Alì)
Alì. Musico non voler. (a Nibbio)
Nibbio.   Firmata è la scrittura.
Non vi è caso a pentirsi, e scritturai, signore,
Il secondo soprano e il musico tenore.
Alì. Senza che mi saver?
Nibbio.   Doman si ha da partire;
A unir la compagnia non si può diferire.
Conte. In questo non ha il torto. (ad Alì)
Nibbio.   E tutti ho già fermati.
Quei che son necessari per essere impiegati.
Alì. In tutti quanti star?
Nibbio.   Il numero sarà
Di settanta persone.
Alì.   Ah scialamanacà!

[p. 340 modifica]
Nibbio. Tutti pria di partire vogliono dei quattrini.

Alì. Quanto voler?
Nibbio.   Almeno quattrocento zecchini.
Alì. Dar quattrocento diavoli, che ti portar malora.
Oh maledetta impresa! Ma vol pensar mi ancora.
(parte)
Nibbio. Bestemmi quanto vuole, il soldo è necessario. (parte)
Conte. Che maledetto imbroglio è quel dell’impresario!
Io pratico teatri, li vedo e li capisco:
I poveri impresari davver li compatisco.
Fanno fatiche immense, fan ogni sagrifizio,
E poi cosa succede? L’opera in precipizio. (parte)

Fine dell’Atto Quarto.


Note

  1. Voce.
  2. Sigar, gridare.
  3. Fra poco, a momenti: Boerio.
  4. Neanche, nemmeno.
  5. Vanerella.
  6. Discorso che no tacca «che non ha appiglio, cioè che non persuade»: Boerio.
  7. Forse jen laur.
  8. Così il testo nella edizione Savioli. L’ed. Antonelli compie il verso in questo modo: L’affar incominciato io saprò terminarlo.
  9. L’ed. Antonelli corregge: Sgnour, la me fazz grazia...
  10. Il verso resta interrotto nel!’edizione Savioli. L’ed. Antonelli aggiunge «La mia pazienza è sazia», ma si badi che l’Alì goldoniano parla sempre al modo infinito.
  11. L’ed. Antonelli: sgnour.
  12. L’edizione Savioli aggiunge: È la verità.
  13. Canale all’imboccatura del porlo di Malamocco.
  14. L’ed. Sav. aggiunge: la mi testa.
  15. Così il testo. Forse al n’ha fatt ecc.
  16. Così l’edizione Savioli.