L'ombra del passato/Parte I/Capitolo X

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Capitolo X

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Parte I - Capitolo IX Parte II
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X.

Al ritorno della primavera Adone depose ancora una volta il suo mantellaccio, e Caterina si liberò del suo scialle. Anche Marco volle imitarli: si levò la mantelletta col cappuccio, che Adone invidiava tanto, e all’insaputa della madre indossò il suo vestitino nuovo assai leggero.

L’indomani Adone lo attese e lo chiamò invano allo sbocco del viottolo. Passò un ragazzetto che altra volta i due amici avevano maltrattato.

— Hai veduto Marco? — chiese Adone.

— Che so io? — rispose l’altro, e passò oltre, sdegnoso.

— E se Marco mi ha tradito? — pensò Adone con tristezza. — Egli minaccia sempre di abbandonarmi, se non faccio quello che lui vuole. Ieri ho parlato con Caterina: e lui non vuole.

Ecco appunto Caterina. Ella si avanzava coi suoi passettini indolenti, col suo vestito nuovo d’indiana turchina, duro e gonfio come un pallone.

— Hai veduto Marco?

— fi malato. [p. 179 modifica]

— È malato? Come? Cos’ha?

— Così! È malato.

— Ma che cos’ha? — gridò l’altro stizzito.

— Non lo so. Anche la mia mamma è malata: ha pianto, anche. Il dottore è andato da Marco, poi è venuto da noi. Dice che muore.

— Marco muore?

— No, la mia mamma. Ed anche Marco, forse, — ella aggiunse, pensierosa. — La nonna Suppèi dice che moriamo tutti.

Il giorno dopo Adone andò a trovare Marco: lo vide per un solo momento, e quasi non lo riconobbe: era rosso in viso, ma gli occhi sembravano di vetro. Aveva la polmonite, con febbre a quaranta gradi. Tutta la notte Adone sognò del compagno: ma pensava:

— Eh, domani sarà guarito.

L’indomani Caterina lo attese sull’argine per dirgli tranquillamente:

— Marco è morto.

— Bugiarda! — egli gridò. Ed ebbe voglia di buttarle un sasso, tanto le parole di lei lo irritarono.

— E allora va a vedere! — ella disse, voltandogli le spalle.

Egli non volle credere: si mise a correre, raggiunse alil i due ragazzi che precedevano, li interrogò ansioso. Sì, Marco era morto. Morto! Sparito, per sempre!

Adone non pianse, non si disperò, ma per qualche giorno visse come istupidito. [p. 180 modifica]

— Non lo vedrò più! — pensava. — Che farò io, solo? Anch’io devo morire. Fra tre giorni posso morire. E anche subito!

L’idea della morte lo perseguitava: ma più che angoscia gli destava meraviglia. Sentiva già il grandioso mistero della morte: e non si domandava perchè si è nati e perchè si deve morire, se la vita è così breve e inutile, ma diceva al zolfanellajo:

— Siamo nati e dobbiamo morire. Lo zio morto, ma lui almeno era vecchio. Marco non era vecchio ed è morto anche lui. Anch’io posso morire da un momento all’altro. Però io non voglio. Farò di tutto per non ammalarmi. Posso mettere il mantello anche d’estate.

— Bravo, veh! Quello è un rimedio! — diceva l’ometto. — Basta un sassolino per farci scivolare e batter la testa da morirne.

— Io guarderò per terra!

— Si muore, si muore lo stesso! — sospirava l’ometto. — Oggi o domani si muore! E tutti, anche! In questo, almeno, il Signore è stato giusto. Muore il re, muore il meschino; tutti facciamo lo stesso cammino.

— Si vivesse bene, almeno! — interveniva la zolfanellaja. — No: si vive male, si muore male, e buona notte!

Per lungo tempo Adone pensò a Marco, solo, freddo e rigido nella sua piccola fossa: quando pioveva egli pensava che il suo povero amico doveva aver freddo, doveva bagnarsi, e [p. 181 modifica]rabbrividiva per lui. Ricordava i giuramenti che s’erano fatti, di non tradirsi mai, e si propose di non cercarsi più un altro amico.

Ora camminava solo, per l’argine e pei viottoli, e cercava quasi le orme del suo povero amico, per ricordarsi meglio di lui. Si fermava dove ogni giorno solevano incontrarsi. Un giorno chiamò:

— Marco! Marco!

Gli rispose la voce del cuculo, che pareva triste e beffarda come quella dell’eco. Egli ebbe voglia di piangere. E l’indomani ripetè il suo richiamo! Così egli conobbe la voluttà del dolore.

Un giorno Caterina lo raggiunse nel viottolo già tutto coperto di verde e pieno di usignuoli. Dopo la morte di Marco egli evitava di chiacchierare con lei, ricordandosi che il suo povero amico non amava Caterina.

Quel giorno ella camminava più svelta del solito, sollevando da terra i grossi piedi mal calzati.

— Adone, — disse, quando ebbe raggiunto il fanciullo. — ho da dirti una cosa, da parte della mamma di Marco. Ella vuole vederli.

— Subito?

— Sì, subito... No, quando passi per Casale; quando vuoi tu...

— Che vuole da me?

— Chi lo sa? Forse per farti vedere il ritratto di Marco morto, lo non l’ho voluto vedere, io! Ho paura dei morti.

— Paura d’un ritratto, balorda! Sei poco stupida! [p. 182 modifica]

— Stupido sei tu, balordo tu! — rimbeccò Caterina. — Io ti dico che si deve aver paura dei morti. Tu credi che essi non si muovano più? T’inganni: essi s’alzano la notte, escono fuori dalla loro fossa e girano per il mondo. E se incontrano qualcuno che ha fatto loro del male lo prendono, lo bastonano, lo graffiano...

Caterina s’agitava, fingendo di bastonare e graffiare qualcuno.

— Stupida! — ripetè Adone. — Perchè devono fare così?

— Così! Per vendicarsi! I morti hanno una grande forza. Quando siamo vivi siamo deboli; tutti ci possono maltrattare. Allora quando siamo morti ci vendichiamo. E se no, come si fa?

Adone diventò pensieroso. La teoria fantastica di Caterina gli piaceva. Sì, doveva esser così: poichè in vita non c’era giustizia, ciascuno se la faceva da sè, dopo morto. Tuttavia ripetè:

— Va via, sei una stupida. I morti non si possono muovere più. Quando ero piccino credevo anch’io ai morti: ora non ci credo più.

— Eppure ti dico che è vero! Vuoi sentire? Sì, io ho veduto un morto...

Adone rise; ma con meno allegria del solito.

E avvenne una cosa. Egli continuò a discutere con Caterina, come discuteva con Marco nei primi tempi della loro amicizia. Ma sebbene egli trattasse la ragazzetta con un certo disprezzo, su molte cose le dava segretamente ragione. Con lei potevano intendersi e capirsi più che con l’amico [p. 183 modifica]morto. Anche lei era povera, perseguitata. Un filo invisibile univa i loro piccoli cuori avidi cii gioia, ma già toccati dal dolore.

Egli andò dalla madre di Marco.

Ella pianse nel vederlo; lo abbracciò, lo guardò a lungo negli occhi, quasi cercando nella pupilla di lui l’immagine del fanciullo morto. Poi gli disse!

— Vorrei farti un regalo. Vorrei regalarti il vestito di estate del mio Marco: lo prendi? Tua zia non dirà niente?

Egli arrossì, ma comprese che rifiutando avrebbe addolorato quella madre già tanto triste, e accettò.

Poi la donna gli fece vedere la fotografia del povero morto, i cui occhi erano socchiusi, la bocca alquanto contratta. Pareva dormisse, ma d’un sonno penoso. Adone ricordò le parole di Caterina, e suo malgrado provò una strana impressione. No, quel ritratto non era quello del suo amico: era il ritratto di un altro, di un essere lontano, misterioso, di un fanciullo che durante il giorno dormiva ricordando le offese ricevute, le tristezze passate, i dolori sofferti, e la notte si svegliava e andava in cerca dei suoi nemici, per farsi giustizia da sè...

La mamma di Marco gli diede il vestito entro una scatola di cartone. [p. 184 modifica]

— C’è anche la cravatta, — disse.

E Adone arrossì ancora, ma questa volta di gioia. Egli non aveva cravatta: possederne una era il suo sogno.

— Vieni spesso a trovarmi; non dimenticarti, sai! — pregò la donna quando egli se ne andò con la scatola sotto il braccio.

Caterina lo aspettava affacciata alla finestra che dava sul viottolo.

— Che voleva? Che voleva? — domandò curiosa, sporgendosi sul breve davanzale.

— Niente, niente, — egli rispose, misterioso.

— Invece io lo so! Ti ha dato il vestito di Marco: perchè tu non hai vestito da estate. Ella lo ha detto alla nonna Ballerina. E la nonna Barberina ha detto che tu non hai bisogno dell’elemosina di nessuno, perchè i tuoi parenti son ricchi. E ha detto inoltre che la tua zia ti bastonerà, se tu porti il vestito a casa...

— È vero, — ammise Adone; — ella forse mi sgriderà.

Senti, — disse allora Caterina, — vuoi che io nasconda in casa il tuo vestito?.. Vuoi? Dammelo.

— Lo porto dalla mia mamma...

Ma ella insisteva, sporgendo le piccole braccia, e guardando il ragazzo coi suoi occhi brillanti.

— Hai paura? Lo nascondo qui, vedi, nel cassetto del comò. In questa camera la mia mamma non viene mai. Dammelo.

Egli esitava. Poteva nasconderlo bene da sè, nella sua cameraccia: poteva portarlo dalla sua [p. 185 modifica]mamma, fino ad ottenere dalla zia il permesso di indossarlo. Ma Caterina sembrava così smaniosa di rendergli servigio, gli diceva «dammelo» con tal grazia carezzevole, che egli temeva di offenderla respingendo la sua offerta.

— Dammi, — ripetè Caterina.

Egli depose la scatola sul davanzale.

— Vorrei prendere la cravatta, — mormorò.

— Vieni dentro, — ella disse, tutta seria, — ti farò vedere dove lo metto. Entra: sono sola in casa. La mamma e la nonna sono andate dal dottore. Va di là, alla porta, o vuoi entrare qui? Ti do una sedia.

Ma egli sorrise, sdegnoso: non aveva bisogno di sedie per scavalcare una finestra! S’arrampicò, sollevò una gamba, fu dentro, nella cameretta malinconica. Dalle fotografie giallognole le faccio sbiadite degli amici della Suppèi guardavano come dalle finestruole di una casa remota e triste.

Aiutato da Caterina egli aprì la scatola, e prese la cravatta verde a piselli rossi, che aveva tanto ammirato al collo di Marco. E siccome esitava a metterla, Caterina gli diede un consiglio!

— Mettila: quando sei vicino a casa tua la levi...

Ma egli scosse il capo con tristezza.

— Metti dentro, metti dentro, — disse, cacciandosi la cravatta in saccoccia, e chiudendo la scatola. — Dove la metti? Qui? In questo cassetto? E se la Suppèi la trova? Che dirà?

— Eh, crederà che Marco abbia portato qui il suo vestito, per impedire alla sua mamma di dartelo! [p. 186 modifica]— disse Caterina, un po'’scherzando, un po’ sul serio.

— Sì, davvero, ella crede ai morti! È così balorda! — aggiunse, chiudendo il cassetto.

Ed entrambi risero alle spalle della vecchia Barberina, credendosi già più furbi e spregiudicati di lei. Poi Adone si guardò attorno con curiosità, esaminando le frutta di marmo e le conchiglie che adornavano il tavolo ed il camino. Entro questo, poi, egli vide un mucchio di zoccoli, da uomo e da donna, alcuni veramente civettuoli, foderati di rosso e orlati di pelo.

— Che ne fate? — domandò, curvandosi a guardare.

— La nonna li vendeva, prima, — disse Caterina sollevandone un pajo. — Ora li ha regalati tutti a me. Posso metterli quando voglio. Senti come pesano: ma senti!

Egli dovette contentarla, e convenne che pesavano davvero. Poi se ne andò.

Avrebbe potuto uscire benissimo dalla porta, ma preferì scavalcare nuovamente la finestra!

Dopo quel giorno la sua amicizia con Caterina si fece più intima. Tognina gli permise di accettare il regalo della moglie del tintore, ed egli andò a riprendere il suo vestito. [p. 187 modifica]

Passando per il viottolo vide la cestaja inginocchiata davanti alla Maestà. La povera donna faceva spavento, tanto era magra, gialla in viso, coi pomelli rossastri e le labbra livide: pareva un cadavere al quale, per uno scherzo macabro, fossero state tinte le guancie con un po’ di carta rossa. Adone ne provò terrore. Ella s’alzò a stento, e volle dirgli qualche cosa, ma aveva persino perduto la voce. La sua fine si avvicinava.

— Che volete, mamma? — disse Caterina, avvicinandosele e stringendole un braccio.

La malata la respinse, con un gesto che doveva esserle abituale, poi con voce afona, riuscendo a pronunziare in alto solo qualche sillaba rauca, domandò al ragazzo:

— Puttino, dimmi, è arrivata la marchesa Pigoss? quella dell’anno scorso?

— No; dicono che verrà in settembre.

— Quando arriva, me lo dirai, per piacere? Ricordati, eh!

— Sì, sì, — egli rispose premuroso.

Intanto Caterina era corsa dentro e s’era affacciata alla finestra.

— Mamma, andate dentro, su, — disse, scuotendo la testa. — Andate; vi fa male star lì. Su, su, andate!

— Ricordati, puttino, — ripetè la donna.

E svoltò, appoggiandosi al muro. Adone s’avvicinò alla finestra.

— Ora ti do subito la scatola... — mormorò Caterina, lasciando il davanzale. [p. 188 modifica]

Ma ecco, mentr’ella s’avvicinava al canterano, l’uscio s’apri e la figura bizzarra della vecchia Suppèi vi si disegnò come in un quadro pieno di luce.

La voce maschia tonò: il bastone s’agitò in aria.

— Puttini, che fate? Che c’è? Che c’è?

— Niente, niente, nonna! — gridò Caterina, riaffacciandosi alla finestra.

— Niente? Ti darò io ora il niente. È un bel po’ che osservo. Che significano tutti questi misteri? Perchè andate e venite sempre assieme? Mi han detto...

— Ebbene, che vi hanno detto? — gridò allora Adone, sporgendo’la testa dalla finestra, rosso di collera. — Facciamo del male forse? Che siamo stati a rubare?

— Insomma! — disse la vecchia, correndo verso la finestra. — Siete due birichini, viscere, due discoli, questo lo sappiamo! Che ordite in segreto qualche cosa, lo sappiamo anche! Non si viene apposta da Casalino a Casale, senza uno scopo!

— Bè, finitela! — gridò Caterina, con una certa prepotenza. — Ecco che cosa è! Glielo dico, Adone?

Egli acconsentì e Caterina raccontò l’affare del vestito. Allora la vecchia cambiò fisonomia: non inveì più contro i due ragazzi, ma col bastone minacciò qualcuno che non si vedeva. Chi? la moglie del tintore o la zia di Adone? [p. 189 modifica]

Quell’anno Davide si laureò e passò tutto l’estate in paese. Venne festeggiata la sua laurea con un pranzo, al quale parteciparono i parenti, Sison, Pirloccia, il fabbro, il prevosto, il caser, il vecchio maestro di Casalino.

Adone non fu invitato; ma egli trovò una scusa per andare durante il pranzo dal zolfanellajo. La Müton lo fece sedere in un angolo della tavola, e gli diede un pezzetto di ripieno di pollo. Egli non domandava di meglio: sedette cercando di sfuggire all’attenzione del Pirloccia, mangiò con voluttà il ripieno di pollo, che pareva un dolce, e si guardò attorno.

Davide sedeva tra il silenzioso maestro di scuola e il grosso prevosto bruno. Vicino a questo il zolfanellajo pareva più piccolo e giallo del solito, quasi ripiegato sulla sedia, come una marionetta di cui si fosse rotto il congegno. Povero ometto! Egli si consumava lentamente, tossiva, aveva male a tutta la persona, ma si ostinava a lavorare. Egli guardava sempre Davide con occhi pieni di adorazione, e quando muoveva le labbra pregando pareva rivolgesse la sua preghiera al figliuolo.

Il neo-avvocato era (piasi triste: forse lo preoccupava lo stato del padre, forse aveva altre cure, altri dispiaceri. Pareva anche lui malaticcio. [p. 190 modifica]

A un tratto sorse una discussione tra il fabbro e il prevosto, a proposito del cagnolino di quest’ultimo, che rifiutava non solo i pezzetti di pane, ma anche la minestra che la zolfanellaja gli metteva sotto il muso. IL vecchio fabbro e il prevosto erano amicissimi, ma litigavano spesso. Il grosso prete non era cattivo, e tranne quelle del Corriere della Sera non aveva altre opinioni; ma voleva sempre aver ragione lui. Il fabbro a sua volta parlava come pensava.

— È tempo di ammazzarlo, questo cagnolino, disse seriamente al prevosto. — Vuol mangiar pollo, e non serve più a niente.

— È tempo di ammazzar voi! — rispose il prevosto, piccato. — E voi, a che servite? A far chiodi!

Tutti risero: Adone più di tutti.

— Ma io non mangio pollo, perdia! E nemmeno minestra tutti i giorni! E lavoro, sebbene vecchio — cominciò a gridare il fabbro, facendo atto di battere il ferro. — Nessuno sa più adoprare il martello come me. Così, così! Avessi sull’incudine quel che dico io; l’aggiusterei per benino.

— Chi, chi? Che cosa? — domandò Pirloccia, malizioso, sperando che il fabbro nominasse il prevosto.

Ma il vecchio batteva, batteva un immaginario martello, e rispose!

— Il mondo!

Bravo! — grillò Davide. — Siete un vero anarchico! [p. 191 modifica]

Zitto! Zitto! — supplicò il maestro, sollevando le mani, spaventato dalla terribile parola.

Ma il battibecco fra il prevosto e il fabbro continuò: e quest’ultimo espresse davvero alcune idee anarchiche: disse persino che bisognava mettere sull’incudine il prevosto, il maestro, e poi anche il sindaco, e poi anche il re, e batterli come ferri vecchi e rimetterli a nuovo.

Il prevosto fingeva d’arrabbiarsi molto, ma in realtà non riusciva a frenare il riso: il maestro, invece, scuoteva le mani, desolato, e diceva timidamente:

— Ecco dove siamo arrivati! È terribile, insomma!

— Beva, beva! presto, presto! — gridò Davide, versandogli da bere. — Fa bene per lo spavento!

Adone ricordò il vino caldo che la zia gli aveva fatto bere quella sera in cui egli aveva creduto di morire.

Il maestro accostò alle labbra il peker gonfio di spuma rosea, e bevette, mentre Davide gli batteva lievemente la mano su una spalla, domandandogli:

— È passata? Ha ancora paura?

— Passata, passata! — rispose il vecchio, sorridendo suo malgrado.

Il neo-avvocato rideva. E Adone lo guardava ed anch’egli rideva, come per riflesso. Così l’acqua riflette lo splendore del sole. [p. 192 modifica]

Dopo il ritorno di Davide, Adone trascurava Andromaca, e passava nell’aja del zolfanellajo tutto il suo tempo disponibile, cioè le ore in cui non era costretto a pascolar le vacche e a guardare le frutta e i meloni nei campi della zia.

Davide esercitava su lui un fascino ancor più forte di quello che gli destava Andromaca. Per lui, arrivato all’ingresso del l’adolescenza, e che guardava innanzi a sè commosso e curioso come il viandante arrivato davanti a un panorama sconosciuto, la figlia del cordaio rappresentava già l’amore e il piacere: ma l’uomo che veniva dalle grandi città e doveva tornarvi, significava qualche cosa di più complesso: tutto un mondo lontano e luminoso come il sole.

Davide portava con sè anche le miserie e le tristezze di questo mondo lontano: ma Adone non se ne accorgeva. Non si vedono le macchie del sole.

Eppure a giorni Davide era così triste che i suoi occhi parevano quelli di un’aquila ferita. Egli stava molto in casa, scrivendo un libro: in quelle ore un silenzio religioso regnava nella povera casetta. La Müton camminava in punta di piedi: Adone sedeva accanto al zolfanellajo, all’ombra del portone, e aspettava pazientemente. Ma Davide usciva quando l’ombra della casa invadeva [p. 193 modifica]l’aja; e allora anche Adone doveva recarsi a pascolar le vacche. Egli si vergognava di lasciarsi veder dal giovine, allora, e faceva un largo giro per non incontrarlo: ma un giorno Davide lo vide e gli disse:

— Perchè diventi rosso? Ti vergogni di questa bella compagnia? Da ragazzo il mio sogno era di condurre una vacca al pascolo. Ed anche ora... non dico, almeno due o tre non mi dispiacerebbe di averle!

Una sera Davide lo condusse con sè a pescare.

Ma fu una sera melanconica. Grandi nuvole d’un violetto bronzeo oscuravano il cielo; anche il fiume, tutto violaceo, era d’una tristezza solenne.

Adone intuiva già le bellezze della natura. Distingueva i profili strani delle nuvole, i riflessi dell’acqua, le voci delle cose. Non credeva più alla città sepolta nel fiume, ma si domandava se dentro l’acqua non esistesse davvero il paesaggio tremulo che ci si vedeva, con quello sfondo di cielo vago, lontano, alquanto pauroso come un abisso. Le nuvole gli parevano la maschera del cielo. Ma il cielo non amava quella sua maschera, e appena poteva si liberava dai suoi veli, squarciandoli, buttandoli via, lontano, per gl’infiniti spazii.

A lui, invece, le nubi piacevano moltissimo: egli non era una natura di contemplatore, e forse appunto per questo amava l’instabilità, i giuochi, il multiforme aspetto delle nuvole. Anch’egli avrebbe voluto viaggiare così, in alto, giocando e sorridendo.

G. Dkucih»a — I.’ombra tiri passalo. 13 [p. 194 modifica]

Anche l’acqua gli piaceva per il suo continuo andare; ma l’acqua era troppo in basso, soggetta, nonostante la sua potenza, al dominio dell’uomo. Persino il remo di Pigoss poteva ferirla, o almeno disturbarla!

Quella sera la pesca fu abbonriante, ma Davide non se ne rallegrò. Adone sperava che al ritorno egli cantasse, ma il giovine preferì chiacchierare con Pigoss, il quale gli domandava se aveva intenzione di prender moglie.

— Per farla morir di fame! — gridò il giovane. Devo ancora studiare: altri due anni!

— Farai scuola, poi?

— Ah, farà scuola! — esclamò Adone. — Ai ragazzi?

— E anche alle ragazze! — disse Pigoss.

— Come me! Aneli’ io farò scuola!

— Anche tu farai scuola alle ragazze? — riprese il vecchietto malizioso. — Eh, l’ho sentito dire, che fai già all’amore.

— Ah, sì? Ah, birbante! — disse Davide.

Adone protestò, rosso in viso come il cielo all’orizzonte dietro i boschi violacei sui quali pareva si fossero sciolte le nuvole del tramonto.

Ma il barcajuolo diceva, rivolto a Davide:

— Sì, el gh’à una puttina, mi han detto, una bella puttina di Casale...

— Non è vero e non è vero! È una mia compagna, solo: si chiama Caterina, e la sua mamma muore!

— Anche! — disse Davide. [p. 195 modifica]

Adone parlò della cestaja, e disse che aspettava l’arrivo della marchesa per domandarle aiuto.

— Ajuto per morire? — chiese il giovine: e la sua voce era beffarda e triste.

— Tutti aspettano la marchesa! — disse Pigoss, sempre malizioso. — Tutti i palandroni, tutti i disperati l’aspettano. Anche il mugnajo, che s’è rotto un braccio, l’aspetta! Aspettatela pure, aspettatela!..

— Giacchè non hanno altro da aspettare! — gridò Davide con uno dei suoi antichi scatti. — Aspettate! Aspettate!

La tanto aspettata marchesa giunse, in settembre. Questa volta Adone non vice arrivare la grande carrozza nera tirata dai cavalli color legno di noce. Egli era costretto a passare buona parte della notte nella melonaja, in tondo ai campi di Tognina, in compagnia di un vecchio cane acquistato per pochi soldi da un ortolano amico dei gemelli Pirloccia. Ai suoi tempi Turco era stato un buon cane di guardia, grosso, forte, all’occorrenza feroce: ora, vecchio, sdentato, quasi cieco, procurava tuttavia di compiere coscienziosamente il suo dovere. Abbajava anche quando non c’era bisogno! Abbajava troppo, contro esseri invisibili, contro i suoi stessi padroni. Forse si accorgeva che questi non lo amavano e anch’esso non li amava. [p. 196 modifica]

Non gli davano da mangiare, e Pirloccia diceva che dopo la vendemmia lo avrebbe ammazzato. Anche Adone non amava il suo triste compagno notturno, così vecchio, magro, nerastro, ma ne aveva pietà; gli pareva che Turco fosse cosciente della sua sorte e abbajasse protestando contro l’ingiustizia degli uomini.

Qualche volta il suo lamento era così triste che Adone aveva paura. Gli pareva che il cane vedesse qualche fantasma, e anche lui guardava intorno, un po’ spaurito, un po’ spavaldo.

La notte era tiepida, silenziosa, profumata dall’odore dell’erbe e dei meloni. Già qualche striscia di nebbia grigiastra velava le stelle dell’orizzonte: e gli alberi neri sullo sfondo incolore del cielo parevano davvero fantasmi, ma erano troppo neri, troppo fermi, per incutere spavento.

— Possono però essere fantasmi di alberi morti, — pensava Adone, sdrajato sotto il suo riparo di canne. — Perchè anche gli alberi morti non possono apparire? Gli alberi vivi forse ne hanno paura: io no, però. Io sono un «uomo». Gli uomini vivi devono aver paura solo dei fantasmi degli uomini morti.

Egli rabbrividiva alquanto: poi pensava:

— Se vedessi qualche cosa di bianco, allora sì, potrei aver paura. Potrebbe essere anche lo zio, anche Marco! Ma io non ho paura. E quella balorda di Caterina che crede a queste cose. Io no, veh, io non ci credo!

E intanto aveva paura! [p. 197 modifica]

Fu in quel tempo che egli assistè ad una scena indimenticabile.

Era l’otto settembre. Egli percorreva l’argine, quando in lontananza vide Caterina. Sì, era proprio lei, col suo vestito turchino, un po’ sbiadito e non più gonfio, con le sue ciabatte, coi suoi riccioli d’oro che parevano sfumati nello splendore del tramonto.

— Dove vai? — egli gridò da lontano.

— Là!

Egli comprese.

— E come farai? — egli domandò sottovoce, avvicinandosele.

— Eh, entrerò per il portone!

— Balorda, non ce n’è, portone! C’è il cancello di ferro. E poi, come farai?

— Lo so io!

— Non ti lasciano mica entrare così, sai! Io non ci sono entrato mai, neanche quando sono andato ad accompagnare Carissima.

— Io entrerò, invece! Dirò così: voglio parlare con la signora marchesa. E se non mi lasciano parlare, ecco... vedi?...

— Una lettera? — disse Adone meravigliato. L’hai scritta tu? Fammela vedere.

— È chiusa. Lasciala — ella disse, rimettendo la lettera entro la profonda saccoccia del suo gonnellino. [p. 198 modifica]

— Ma dimmi almeno cosa hai scritto.

— E non gridare?! Sai che la nonna non sa niente. Lei dice sempre: se domandate la carità a qualcuno vi caccio via come galline. Sì, così, via, via! — ella aggiunse, agitando il suo gonnellino.

— E allora perchè vai là? — egli domandò pensieroso.

— Perchè la mia mamma dice che anche la nonna Barberina è tanto povera...

Egli non domandò altro. Accompagnò Caterina, curioso e più turbato di lei.

Il sole al tramonto mandava il suo splendore arancione fin dentro il viottolo: un merlo cantava sugli alberi dorati del parco. Caterina diceva:

— Ho vergogna! Ma voglio entrare lo stesso. Chi viene ad aprire? La serva?

— Va là! La serva! Ah, la serva! — egli gridò, e cominciò a ridere nervosamente.

Poi Caterina disse:

— Chissà comi mi darà la marchesa! Chissà! Chissà!

— Chissà! — egli ripetè, sempre più pensieroso.

E diceva a sè stesso che se fosse stato nei panni della marchesa avrebbe accolto con entusiasmo la povera Caterina, e le avrebbe dato una borsa piena di monete. «Ecco, mia carina: — le avrebbe detto, — va, ritorna a casa, di’ alla Suppèi che hai trovato questa borsa nella strada. La tua mamma, poi, io la farò condurre in quel paese caldo anche d’inverno, dove i tisici guariscono; in quel paese del quale parla sempre il zolfanellajo. [p. 199 modifica]Va, carina. Ah, no, aspetta un momentino: ecco per te una fetta di torta. La sarta Carissima dice che questa torta è molto buona. Lei l’ha assaggiata, una volta. Prendine una fetta anche per la tua mamma. Addio».

Fantasticando in tal modo, egli provava un senso di tenerezza e d’invidia. Gli pareva che Caterina andasse incontro ad una fortuna ch’egli non avrebbe avuto mai!

Arrivati davanti al cancello, egli si scosse, come destandosi da un sogno: e dopo aver guardato si ritrasse, nascondendosi dietro il muro.

Il cancello era socchiuso: a pochi passi di distanza, nel viale coperto di sabbia c’era Maddalenina Dargenti, pronta per uscire. Al solito, ella vestiva di bianco, col cappello a larghe falde e le scarpine candide scollate.

Caterina guardava stupita, un po’ contrariata per la presenza della ragazzetta vestita di bianco. Questa, a sua volta, parve seccata per l’insistenza con cui l’altra la fissava: la guardò un momento, poi le volse le spalle coperte dai radi capelli castanei. Aspettava qualcuno.

Caterina guardò Adone: egli le accennò di entrare.

Incoraggiata, ella entrò. Maddalena si volse: i suoi occhi rifulsero, cattivi.

— Che vuoi? — domandò impaziente.

— Voglio parlare con la signora marchesa Pigossi — disse Caterina, in italiano, come recitando la lezione. [p. 200 modifica]

— Cosa vuoi? — ripetè l’altra, reclinando un po’ la testa. — Chi ti manda?

— Io!

— Ah, ti mandi da te! La nonna ora non riceve. Dillo a me, cosa vuoi!

— No, no. voglio andar là! — insistè Caterina, avanzandosi, e accennando con la testa il palazzo.

— Sta lì! Ora verrà la signorina! — gridò Maddalena, indispettita. E le si mise avanti, per impedirle il passo. Ma Caterina non s’intimidì.

Dietro il cancello Adone provava una certa inquietudine nel sentir questionare le due ragazzette. Sapeva che Caterina era prepotente con le bambine: a scuola aveva graffiato la figlia del dottore.

Passarono alcuni secondi. Ad un tratto Maddalena, senza dubbio stanca di tener a bada l’intrusa, gridò enèrgicamente «sta lì!» e si mise a correre verso il palazzo.

Adone in quel momento sporse la testa verso il cancello e vide una scena strana. Caterina correva dietro la ragazzetta Dargenti. Questa, arrivata vicino all’ingresso, si fermò, si volse, emise un piccolo grido di rabbia. E all’improvviso si curvò fino a terra, si rizzò, buttò contro Caterina un oggetto bianco. Adone sulle prime ebbe voglia di ridere. L’oggetto bianco era la scarpetta di Maddalena. Ma subito egli vide Caterina portarsi una mano alla testa, e tremò per lei.

Ella non gridò, non aprì bocca; si volse per andarsene, e Adone si ritrasse ancora, aspettandola. [p. 201 modifica]

Ma due voci risuonarono nel viale.

Pampina, ma che cosa fuoi? — gridava la voce sottile della signorina in paglietta.

— Brutta impertinente, ma che cosa c’è? — gridava la voce sonora di Jusfin.

Adone guardò ancora. Vide l’ex-cacciatore frettarsi addosso a Caterina e afferrarla per le orecchie come una lepre. Senza la protezione della paglietta, Justin avrebbe bastonato la disgraziata.

E Maddalena si rimetteva la scarpetta: non parlava, non sembrava turbata: non sentiva il bisogno di giustificarsi.

È notte: una notte alquanto fresca e melanconica. Grandi nuvole bianchiccio passano dissolvendosi lentamente sul cielo d’un azzurro cupo.

Pare che il fondo del cielo sia quel velo pallido e mobile, sul quale s’allarghino e si restringano deformi nuvole turchine, qua e là trapuntate di stelle.

Un vento lieve, melanconico, scuote le cime degli alberi neri: i grandi fantasmi vegetali s’agitano, mormorano cose tristi. E Turco, abbaja, con insistenza. La sua voce lamentosa riempie la notte, e produce un’eco che sembra l’abbajare d’un altro cane; d’un cane lontano, il cui urlìo ha, come le nuvole, come gli alberi, come il vento, qualche cosa di triste e di misterioso. Che ha Turco, questa [p. 202 modifica]notte? È più dispettoso e lugubre del solito. Abbaja anche contro le nuvole. Forse ha freddo, sente che la stagione autunnale s’avvicina, ricorda la minaccia del suo padrone ed ha paura...

Adone sta sdrajato sotto il riparo di canne: è stanco, ma non può dormire. Pensa a tante cose. Dunque, Caterina non ha ottenuto niente: fortuna che non l’hanno bastonata o magari ammazzata come una lepre! Eh, il vecchio Jusfin è cattivo! Adone ha sempre diffidato di lui. Se l’ex-cacciatore fosse stato appena appena buono avrebbe tirato le orecchie a Maddalena, non a Caterina. Maddalena è ancora più cattiva di Jusfin: è cattiva come Pirloccia.

— Se mi capita — pensa Adone — le do due o tre pugni, ma di quei buoni!

— Tu dovevi graffiarla, o buttarle addosso tante pietre! — egli aveva detto a Caterina, riaccompagnandola sull’argine, e chinandosi a raccogliere sassolini.

— Così, ecco! — E lanciava con forza i sassolini.

— Ma se là non ce n’erano!

— E le scarpe non ce le avevi, come lei? T’ha fatto male?

— No, no: era leggera! Non era mica una scarpaccia! Mi fanno più male le orecchie! Come le ha tirate, quel saraceno!

— Ma perchè non hai detto quello che volevi?

— No, no, e no! — ella gridò con rabbia, instandosi le mani alle orecchie rosse ancora. — Quel saraceno andava a dirlo alla nonna! [p. 203 modifica]

— Cosa dirai alla tua mamma?

— Le dirò che era chiuso.

— E la lettera?

— La manderò per la posta, come quelle per Giorgio. Ci vuole il francobollo, vero? Si può anche non metterlo.

— Io non manderei niente! — egli disse sdegnoso. Ma Caterina non può capire; è una stupida! Dopo quello che le han fatto come può ancora pensare a mandar la lettera?

— Ah, io... — egli pensa.

Turco abbaja, sempre più lugubremente.

Adone pensa alla sera in cui Pirloccia lo ha bastonato mentre dormiva, a tradimento. Ricorda gli urli che la rabbia e il dolore gli hanno strappato, e gli pare che gli urli del cane si rassomiglino a quelli suoi. Ah, ecco, al posto di Caterina egli avrebbe gridato nuovamente così.