L'Etruria vendicata/Canto I

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Canto I

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L'Etruria vendicata Canto II

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L’ETRURIA VENDICATA.


CANTO PRIMO.


Steso ha sull’Arno il tenebroso ammanto
Oltre l’usato orribile la notte:
Per l’aer denso odesi il flebil canto
Di augei sinistri con note interrotte:
Tristo un chiaror di spessi lampi è spanto
Terribilmente fuor da nubi rotte:
E di tuoni e saette alto fragore
L’aura ingombra ed il colle e il pian d’orrore.

In sua magione immerso in grave sonno
Giace intanto Lorenzo, intrepid’alma,
Che di se stesso e d’alto oprar non donno
Del rio giogo servil scuoter la salma
Vorria; chè i prodi mal portare il ponno:
Or suoi mesti pensier in breve calma
Danno insolita tregua alla bollente
Libera, ardita, irrequieta mente.

Quando allo scoppio d’improvviso tuono
L’etra avvampar, muggir la valle, e tutta
Tremar la terra in spaventevol suono
S’ode, quasi dal ciel fosse distrutta.
Fugge il sonno all’orribile frastuono;
E sta Lorenzo a udire in fera lutta
Pe’ vasti aerei campi andar frementi
Con tal rovina imperversando i venti.

Più da stupor che da terror compreso,
Tacito a sè chiede s’ei veglia o dorme:
Chè rotto il sonno da non mai più inteso
Fragor smarrir gli fa del vero l’orme,
Quand’ecco in dubbio più di pria sospeso
Fera vista lo tien di strane forme,
Che tremenda corona intorno al letto
Gli fan del tetro lor funèbre aspetto.

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Con torvi sguardi in doppia lista un cerchio
Di pallid’ombre stassi a lui dintorno,
Che, rotto il grave sepolcral coperchio,
Tornano in terra ad impedire il giorno.
Oh, se non era egli uom d’ardir soverchio,
Non fea l’alma a tal vista in lui soggiorno!
Ma non si cangia pur Lorenzo in viso,
E gli occhi audaci entro i lor occhi ha fiso.

Son di statura gigantesca l’ombre:
Quale ha lacero il petto, e quale il fianco:
Le immani membra han d’atro sangue ingombre,
Che mai da lor ferite non vien manco:
Piagate, e in un d’ogni viltà disgombre
Paion nel volto orribilmente bianco:
Reca ciascuna ignudo un ferro in mano;
E gridan tutte: Nol vibrammo in vano.

Ben tutto il capo sovra lor torreggia
Donna atteggiata di minacce e sdegno,
Che altera in vista il mondo signoreggia,
E par che niuno estimi di sè degno:
Dagli occhi ardenti un tal furor lampeggia,
Che un sol suo sguardo di vittoria è pegno
A chi svenare empio oppressore ardisca,
Che abborran tutti, e tutti egli abborrisca.

Lo scompigliato crine all’aura sciolto
Fa di sua non curanza in lei ben fede;
Non men che il vel ruvidamente incolto,
Che negletto le scende infin sul piede.
Rigida al par che maestosa in volto,
Non leggiadria, non grazia in lei si vede:
Pur di beltade al paragon sarebbe
Vinta da lei qual altra il pregio n’ebbe.

Nell’una e l’altra man di sangue tinta
Mostra gl’infranti gioghi, e le spezzate
Catene ond’era iniquamente avvinta:
Batter la terra fa genti scettrate;
E la lor fronte di diadema cinta
Si tien sotto le piante insanguinate:
Chè ristorarla dei sofferti danni
Null’altro può che calpestar tiranni.

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Dormi tu, dormi (grida in suon tremendo)
Tra le mura di Flora in vil riposo?
Mentr’io di trarti i fieri ceppi imprendo,
Lento giaci, o Lorenzo, e neghittoso?
Forse men grave a te si fa dormendo
Del tuo servaggio il peso vergognoso?
Non sai che all’odio la tardezza unita
Costor, ch’io premo, a incrudelir più invita?

A che ti val quel che giuravi eterno
Magnanim’odio del poter d’un solo,
Se di quell’un tu primo esser lo scherno
Soffri, e non osi uscir da infame stuolo?
A che la rabbia, a che il furor che interno
Ti rode il cuor, se in apparenza al suolo
Dal giogo oppressa la cervice inchini,
E, a ciò non nato, al sofferir ti ostini?

Quei che tumido e fero assiso vedi
Sull’usurpato etrusco seggio, è tale
Qual tu per lunga esperïenza il credi.
Minor di tutti, ei non ammette eguale,
E ogni uomo tien sotto gli audaci piedi:
Nè a raffrenar l’empia ferocia vale
Altra ragion che il ferro: e tu nol stringi?
E tu umiltade e obbedïenza fingi?

Mira quest’ombre che a me intorno stanno,
Cui più che vita piacque libertade:
Tutte o di greco o di latin tiranno
Troncaro i giorni con le ultrici spade.
Nè il perder sè dee riputarsi danno,
Quando il comun nemico estinto cade:
Chi serve, muor: ma chi dirà ch’ei mora
L’uom cui d’eterna fama il mondo onora?

Uopo non è ch’io narri ad una ad una
Le memorande loro alte vendette:
Chè il sol nomarli ogni gran laude aduna,
E tutte in lor stan le virtù ristrette;
Poich’emendando col valor fortuna,
Le invitte destre, ancor che in ceppi astrette,
Di ferro armaro, e il cor mostraron forte
Nel ricever non men che nel dar morte.

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I due che miri al fianco mio più presso,
Son Bruto e Cassio; in lor Roma finío:
Pelopida vedi; egli è quel desso
Che a dieci re pagar fe grave il fio:
L’altro Trasibul è, quei che all’oppresso
Popol di Palla tolse il giogo rio:
Ecco d’Ippia e d’Ipparco gli uccisori,
Ch’ebber divini meritati onori.

E qui tra’ miei si sta pure il gran Cato,
Benchè il ferro, che in sè crudo ei ritorse,
Meglio a Cesare in petto avria vibrato.
Ma che? tutti degg’io nomarli forse,
Quando, all’udir di un sol, già in te l’innato
Alto desir di libertà risorse?
Scegli su dunque, e non tardar più omai,
Tra fama egregia od il non viver mai.

Disse: e finiti appena avea gli accenti,
Sparía la donna col feral corteggio,
Che nell’aer dietro sè di strisce ardenti
La via segnava del celeste seggio.
Lorenzo in essa i cupidi occhi intenti
Affissa, e grida: Oimè, più non la veggio!
Ma vegg’io ben per qual sublime strada,
Fama acquistando in terra, al ciel si vada;

Ma ben intero in mente ancor mi suona
Quel parlar, che sì forte il cor m’incende
Che alla vendetta od al morir mi sprona.
Tace: e rapido sì dal letto scende,
Che, allor che l’alto Giove irato tuona,
Non così ratto il fulmin l’aer fende:
Balza in piè: ma sul letto, ecco, improvviso
Vede ignudo un pugnal di sangue intriso.

Tosto in man se lo reca; ed, in feroce
Atto rivolti al ciel gli sguardi, ei grida:
Deh, se al tuo seggio può giunger mia voce,
Ombra che a tanta impresa or mi se’ guida,
Quel ch’io pronunzio giuramento atroce
Odi, ed appieno in mio valor t’affida.
Ben il conosco, o Bruto: io già non erro:
Degno il dono è di te: questo è il tuo ferro.

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Mira; lo impugno ad ambe mani: e giuro,
Quel che sopra vi sta sangue rappreso
Terger col sangue del tiranno; e giuro,
Ch’entro al mio cuor solo al ferire inteso
Speme o timor nulla potranno; e giuro,
Se avvien ch’ei scampi da mie’ colpi illeso,
O che il trono col sir non cada a paro,
Tosto immergere in seno a me l’acciaro.

Qui di parlar ristassi; e in se disegna
Il tempo, i mezzi, il loco, ove ad effetto
L’ardua impresa condur meglio convegna.
Ma il prence intanto entro all’aurato letto
Già non dorme (chè mal dorme chi regna,
Pieno il cor di viltà tema e sospetto),
Non dorme; e in vano il travagliato fianco
Volge or sul destro lato ed or sul manco.

Conscio a sè de’ suoi vizi e di sue tante
Sozze crudeli ingiuste opere avare,
Odio cova nel petto egro-tremante:
Nè scema il suo timor l’altrui tremare.
Fremere ogni uom vede al suo aspetto innante;
Chè, non che i buoni, i rei nol ponno amare:
Nè fraude a sè può usar; chè nel cor pravo
Più vil si sente d’ogni vil suo schiavo.

Volge fra sè nella turbata mente
Gli stupri, i danni, le rapine, l’onte,
Lo sparso sangue, e le tant’alme spente,
E del serto non suo cinta la fronte:
Ma se avvien poi che il suo natal rammente,
Freme d’uscir da così impuro fonte:
Spurio infame, ei non sa chi a lui sia padre;
Nota gli è sol per suo rossor la madre.

Non è, non è però sozzo cotanto
Il sangue in lui, che assai nol sia più il core;
Benchè a celar lordura il regal manto
Sia d’ogni vel qualunque il vel migliore.
Picciol d’alma e di cuor, sol si dà vanto
D’esser d’ogni uomo in crudeltà maggiore:
Ma quanto è crudo più, tanto più trema;
E a lui par quella notte esser l’estrema.

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Socchiusi appena i timidi occhi avea,
Ch’entro al pensier, non mai di cure scarco,
Strana ed orribil visïon pingea
De’ suoi tanti misfatti il grave incarco.
Ben è dover che in coscïenza rea
Pace non entri; e sta il rimorso al varco:
Troppo del ciel sarian le ingiurie espresse,
Se chi la toglie altrui pace godesse.

Nell’inquïeto amaro sonno ei vede
Uom, che in aspetto orrendo, lento, lento,
Sen vien così, che par non muova il piede:
Porta impresso nel viso alto spavento,
Come colui che in sua virtù mal crede:
Guardingo appressa; e, come foglia al vento,
Tutto trema dal capo infin le piante:
Or s’arretra, or s’arresta, or torna avante.

Veste triplice usbergo, e doppio scudo
Con mal sicura man regge ed imbraccia;
Membro non ha che sia di ferro ignudo;
Sola discuopre la squallida faccia:
Par non men che codardo agli atti crudo,
Ch’ora a vicenda ei pave ed or minaccia,
Come ogni vil suol far s’ei crede altrui
Men possente o più timido di lui.

Tale ei s’inoltra, e giunge alfin là dove
Il sir d’Etruria palpitante giace.
Tremi tu? dice: alle sublimi prove
Scorrer ben veggio in te sangue verace,
Che di regio-celeste fonte muove:
Ben se’ tu figlio d’alcun tosco Aiace.
Gelida mano, in così dire, al core
Gli adatta, e ’l stringe, e addoppia in lui l’orrore.

Quindi prosiegue: O per valor tu degno
Sovra i vili mortali aver possanza,
Me non ravvisi? eppur d’ogni uom che ha regno
Io spiro al cor la timida baldanza:
Io d’atterrire altrui l’arte gl’insegno,
E a ben celar la propria sua sfidanza:
Io delle corti onor, nume, custode,
Timor mi appello; ed ogni re fo prode.

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Te cui nomar poss’io diletto figlio
Fra quanti altri ne cinga il regal serto,
Te vengo io stesso a trar d’alto periglio,
A farti appien nel diffidare esperto.
Regno saratti e vita il mio consiglio,
Se m’appresti mercè che agguagli il merto;
Se i sacri onor che al nume mio qui densi,
Tempio, immagin prometti, ara ed incensi.

Ma che? tu taci?... Io veggio ben che invaso
Sei di mia deitade e l’alma e il core;
Nè v’ha dal lucid’orto al negro occaso
Chi più intenda di te che sia Timore:
Sì il sai; ma, appena in sicurtà rimaso,
Sarai tu pure ingrato e traditore:
Ch’appo altri re tuoi pari, a cui prestava
Simile ufficio, inonorato io stava.

Voi che meglio d’ogni uom saper dovreste
Quanta innata viltade in cor chiudete;
Voi che dal mondo spersi appien n’andreste,
Se vi scorgesse ognun quali vi sete;
Voi che nulla per voi nulla sareste,
E sol per l’opra mia poco parete;
Sleali, io ’l so, che è vostra usanza ria
Fingere ognor di non saper ch’io sia.

Odi perciò qual ti minaccio fero
Destin, se a me delubro e culto nieghi.
Pria che raccenda il sol questo emispèro
Tre volte, e tre la notte il vel dispieghi,
Con la vita ti fia tolto l’impero:
Nè a salvarti varran minacce o preghi;
Se di te stesso e di ciascun non tremi,
O se il timor celato in cor tu premi.

A questi detti un tale orror per l’ossa
Dell’atterrito principe trascorse,
Che del mal sonno desto, a tutta possa
Manda un acuto strido, e stassi in forse:
Poi gli si appannan gli occhi; il fiato ingrossa;
Freddo un sudor tutte sue membra ha scorse.
Ma già l’immagin vana, a lui sparita
D’altro tiranno al letto iniquo è gita.

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Alessandro (chè tale era nomato
Lo imperador del popolo Tirreno;
Che al Macedone invitto posto a lato,
Se in valor no, lo avanza in vizi almeno),
Alessandro è sì forte spaventato,
Che a gran pena può l’alito del seno
Trarre, e tre volte appuntarsi gli accade
Per sollalzarsi, e tre volte ei ricade.

Tale al Tebro Nerone empio giacea
(Chè il tiranno al tiranno s’assomiglia,
Ed a null’altro), allor che a sè vedea
Ne’ sogni orrendi con irate ciglia
Agrippina venir, venir Poppea,
E tutta la svenata sua famiglia:
Nè lo togliean di sè rimorso o pieta,
Ma terror che non ha ne’ vili meta.

Tramortito così gran pezza stette
Il Tosco re, fin che le fauci aperse
Cui soverchio temer gli avea ristrette.
Voci di pianto in ulular converse,
Quanto più forte può, tremando ei mette;
Che per le regie sale erran disperse,
Rimbombando in un suono lamentevole
Da atterrir, non che schiavi, ogni uom men fievole.

Primo ad udire il flebile concento
Arrigo fu, degno del prence amico,
Del suo mal regno lo peggior strumento,
Codardo anch’ei, d’ogni virtù nemico:
Udì, temè, sorse; e ben cento e cento
Guardie, che notte e dì per uso antico
Vegliano de’ tiranni all’alte porte,
In armi aduna, e lor parla da forte.

Prodi, che in guerra dare orribil urto
Anco potreste soli a un’oste intera,
V’ha chi nel regio limitar di furto
Entrò: corriamvi; e per man vostra ei pèra.
De’ satelliti il capo allora insurto,
Grida: Corriamvi; è ben dover ch’ei pèra.
Ratti muovono in folla: e lance e scudi
Fan suonar l’ampio tetto, e brandi ignudi.

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Ma non è chi d’Arrigo i passi avanze,
Che dar vuol primo al suo signor soccorso;
E d’uomo ardito ei veste or le sembianze,
Or ch’ei si sente armato stuolo al dorso:
Ed atrii e scale e logge e sale e stanze
Del gran palagio in un istante ha scorso;
Infin che giunge là, dove stridendo
Giace Alessandro di angoscia morendo.

Urta, spalanca, atterra, e al letto corre
(Fatti addietro restar gli armati pria);
E semivivo il trova in opra porre
Di sue forze l’estremo, e tentar via
Onde al supposto assalto ei s’abbia a tôrre;
Ma invan, chè in letto par chiovato sia.
Trema Arrigo in veder la regal tema:
D’Arrigo ai moti intento il prence trema.

Soglion talora duo mastin ringhiosi,
Fin che l’un l’altro si miran da lunge,
Fieri in atto mostrarsi e minacciosi,
Come quei ch’odio stizza e rabbia punge:
Poi, quanto appressan più, meno animosi
Li fa viltade; e qual primiero giunge,
Già s’è pentito, e intorno gira, e guata
Se l’altro il teme, e s’è in sembianza irata.

Così il gran Tosco Duca, e Arrigo forte,
Esterrefatti, l’un l’altro guatava,
Dipinti in viso di color di morte:
Ciascun tremante l’altro spaventava:
Nel periglio temendo esser consorte
Arrigo al suo signor, per sè dubbiava:
Non sa il tiranno, se a prestargli aiuto
O se a ucciderlo sia costui venuto.

Ma pur vedendo poi che almeno eguale
Se non maggior temenza il cuor gli scuote,
Alquanto ardir ripiglia; e in atto, quale
Assume un re che vuol più che non puote,
Tra minaccioso e timido, con frale
Voce prorompe in fulminanti note:
Tanto, perfido, ardisci? a che ne vieni?
Chi sei? tu tremi? olà, guardie, si sveni.

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Così gridava con tremula voce,
Nulla fidando in sè, poco in altrui:
Ch’ogni tiranno sa che a troppi ei nuoce,
Perch’abbia alcuno a perder sè per lui.
Ma ad atterrarsi Arrigo è sì veloce,
E sì umile a baciare i piedi sui,
Giungendo alte le man supplice in atto,
Che il sir dal fiero dubbio ha quasi tratto.

Dagli atti poscia ai detti viene; e chiaro,
Quanto si può per lui più umilemente,
Gli narra il tutto; e giura indi sì caro
Avere il suo signor, sì caldamente,
Che ogni uom dell’arti delle corti ignaro
Stimar forse potria che in ciò non mente.
Pur se avvien mai che amato un re si estime,
Ne ha colpa ei che in ogni uomo il ver comprime.

Ne ha colpa ei solo; il danno ei sol ne avesse!
Ma de’ suoi falli ognor la pena è nostra.
Fede intera il tiranno al fin concesse
All’affetto di cui fe Arrigo mostra.
Nè di menzogne appien suoi detti intesse
Costui, che il latte nella regia chiostra
Bevve; e, se il sir non ama, hanne il timore,
Ch’infra quei vili pur si noma amore.

Il prence in sè tutto rïentra allora:
Le voci gli atti e le superbe ciglia,
Cui viltà sbaldanzite avea finora,
Con l’alta usata maestà ripiglia:
E in suon di re gli impon che alla terz’ora
La turba, a cui talvolta ei si consiglia
(Glorïoso senato, altera greggia!),
Sollecita s’aduni entro la reggia.

Soleano allor, nè antico tanto è l’uso
Che non sen vegga ai nostri dì vestigi,
Soleano i re quel gran saper, che infuso,
Ha in essi il ciel, talvolta esporre ai ligi
Schiavi lor scelti: e qual, se il labro ha schiuso
Giove a giurar pe’ gorghi orrendi Stigi,
Trema la terra, il ciel, l’onda e l’abisso,
Tremava ognuno al proprio scanno affisso.

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Parlava il re: gli altri taceano tutti;
Ovver laudavan; del feral periglio
Che seco arreca il vero appieno instrutti,
Qual di croce temendo e qual d’esiglio,
D’amistà principesca usati frutti.
Pur tal consesso i re nomâr consiglio,
Ad esemplo di quei sì venerandi
Che adunò Roma ai tempi memorandi.

Sorge entro al nido del toscan tiranno
Sacro ai consigli spazïoso loco,
Ov’ei risolver suole il comun danno
Non senza prima dir: Gran Dio, te invoco.
L’alte pareti prezïose fanno
D’eccellenti pittor l’opre, che foco
Celeste spiran sì che ingegno umano
Fatte non le diría da mortal mano.

Nella parte ch’è vôlta al pigro Arturo,
Michelagnol, quel grande senza pari,
Diè vita e moto in sull’ignudo muro
A’ Medicèi signori, al mondo chiari
Per aver già sotto il lor giogo duro
Ridotto i Toschi a libertà discari:
Nè marzïal virtude era lor laude,
Ma ben speso oro e ben usata fraude.

Pur di costor le militari imprese
(Sognate o false) il gran pennello avviva.
Oh scellerati tempi! oh vilipese
Arti divine! oh cieca etade priva
D’ogni senno e valor! dal ciel discese
Tanto artefice dunque, affin che viva
Memoria eterna rimanesse al mondo
D’infami eroi degni d’oblio profondo?

Michelangiol, che pugne altre ritrarre
Non dovea che dei Numi in Flegra irati,
O di quei che a Termopile le sbarre
Chiusero all’oste coi corpi svenati,
O di quei che togliea Roma alle marre
Gran capitani a un tempo e pro’ soldati;
Michelangiol, da’ rei tempi costretto,
Eroi ritrasse a cui fu campo il letto.

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Così cantâr del vile Augusto il grande
Mantovan cigno e il Venosin venduto:
Così ne avvien che ai posteri tramande
Gli Estensi duci il da lor mal pasciuto
Vate
, che a voi sì vario l’ali spande.
Deh! che non stette ogni alto ingegno muto,
Pria che i fiacchi laudar, con biasmo espresso
Di virtude dell’arte e di se stesso?

Cosmo che primo ai cittadini sui
La patria tolse, e della patria padre
Pur lo gridava la viltade altrui,
Par ch’ivi spiri infra le tosche squadre
A ogni altri schive d’obbedir che a lui.
Ma nè il duce nè i suoi le vesti hann’adre
Di sangue ostil: troppo saria menzogna
Pinger ferite ove fu sol vergogna;

Vergogna ai vinti, ai vincitor non gloria:
Pugne, cui non Bellona o Marte fero
Vedi guidar, ma il più timor vittoria
Dare a quei che ferrar più e più si fero;
Pugne, di cui narra verace istoria
Durate esser talvolta il giorno intero,
E solo un uom, non già di spada, spento,
Ma sotto il peso dell’armi, di stento.

Tali di Cosmo eran le imprese: ed ora
Il vedi in rotta por d’Adria il Leone,
Che rugge in voce ogni dì men sonora;
E mercenaria gente alla tenzone
Manda, e dell’altrui braccio si avvalora;
Rado ei trova però cotal campione
Che morir voglia in sua difesa; e spesso
Ha i vili duci suoi sbranati ei stesso.

Or contro le Sforzesche Insubri torme,
Or contro il gran vessillo del Vicario
Di Cristo che sì ben ne calca l’orme,
Move Cosmo il suo Tosco armamentario.
Nell’una e nell’altr’oste in mille forme
Timor vedresti sotto aspetto vario:
Colpi al vento, minacce, fughe, fremiti;
Di morte no, ma di spavento gemiti.

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E così tutta ingombra è la parete
D’opre simíli, e non di un Cosmo solo,
Ma di quant’altri del bel numer sete,
Cosmi o Fernandi del Medíceo stuolo.
Qual di Pisa tradita alloro miete;
Qual le rôcche adeguar minaccia al suolo
Di Siena vinta, ma coi brandi Ispani
Comprati dai pacifici Toscani.

Nè fia stupor, se Michelangel pinse
Quivi le fatte e le future imprese;
Chè qual sue labbra in Aganippe tinse,
Sia poeta o pittor, tosto comprese
Ha le venture etadi; e già lo strinse
Il profetico spirto a far palese
Dei nipoti la gloria agli avi illustri,
Se premio ottiene ai vaticini industri.

Nella opposta parete opre di pace
D’altri Medici eroi, ma non men chiare,
Altro pennel quanto il primier verace
Havvi dipinto; e li vedi parlare.
Quei che noto d’Urbino il nome face
Che non si udria senz’esso ricordare,
Di Clemente e Leon, duo Papi santi,
I santi gesti avviva e i pregi tanti.

Qui ’l gran Leon, di sì feroce nome
Decimo che di Piero il seggio prema,
Vedresti carco di papali some,
Con man di cui la sola Italia trema,
Maladir genti assai di noi men dome;
E aver la sacra sua faretra scema
Nel saettar quei duri cori, a cui
Piaccion più che il ciel compro i regni bui.

Oh cieca in vero, e dal cammin del sole
Lontana affatto nazïon perversa,
Che coll’oro mercar non vuoi parole
Sante; per cui, benchè nel fango immersa,
Ogni alma può, se il peccator ben vuole,
Innanzi a Dio tornar candida e tersa!
Scuoti, o Leon, le giubbe; e i feri artigli
Aguzza; e accarna i travïati figli.

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Là sovra eccelso carro trionfale,
Cui ben otto destrier bianchi di neve
Tiran, si vede il padre santo eguale
Fatto alle nubi andarsen lieve lieve
Gli orli del ciel lambendo, in atto tale
Che tu diresti: or Dio seco il riceve.
D’ogni intorno s’atterrano i fedeli,
Cui con due dita in croce ei schiude i cieli.

Tali, o con pompa forse assai minore,
Roma a salir già vide in Campidoglio
Que’ suoi folgor di guerra, onde terrore
Si fea del mondo e ne acquistava il soglio.
Essi coll’armi, e il buon roman pastore
Colla verga rintuzza altrui l’orgoglio:
Tanto è dover ch’ei più trionfi e goda,
Quanto il da men, se vince, ottien più loda.

E, affinchè niun de’ leonini pregi
A tacer s’abbia, ora il pittor cel mostra
Seduto a mensa infra apparati regi
Far di squisito gusto santa mostra;
E a lui d’intorno in blanda faccia egregi
Uomini star cui già lor speme innostra
Sadoleto Arïosto e Bembo ed altri,
Tutti, più che il secondo, in corte scaltri.

Or di giustizia al tribunal severo
Dannare il vedi a infame e cruda morte
Due Cardinali, che a lui trar d’impero
Veleno usâr non qual voleasi forte:
Rinnova in essi il successor di Piero
Quella che Giuda s’ebbe estrema sorte;
Devoto laccio ai sacri colli ei cinge,
Che a viva forza in ciel lor alme spinge.

Per ristorar poi la romana Chiesa
Dei duo baron tolti al purpureo coro,
Ne crea ben altri trenta in sua difesa;
E in mezzo al venerando concistoro
Sta meditando alta guerriera impresa,
Che costerà gran sangue e gran tesoro
A Roma no, ma ai principi cristiani;
Gerusalemme trar di man de’ cani.

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Raffaello immortale! oh come in volto
Al padre santo il pio desir fiammeggia!
Perchè sia il regno di Sïon ritolto
A chi ’l sacro terren preme e dileggia,
Va d’ogni fallo il peccator già assolto,
Cui croce a mezzo il petto ampia rosseggia.
E il buon messo d’Iddio par quivi inviti
I re che aver spera all’impresa uniti.

Poi degli indugi lor dolente e irato,
Com’uom cui roda di vendetta il tarlo,
Già di Cristo il vessillo aver spiegato
Non vuole indarno; ed ora il quinto Carlo,
Ora il grand’Emul suo, duce ha creato:
Ma sordi entrambi niegan d’ascoltarlo
Stolti, cui di lor regni cura muove
Più che il sepolcro del figliuol di Giove.

Raffaello così gran parte adombra,
Se tutte no, del fier Leon le gesta.
Quanto riman poscia del campo ingombra
Clemente, cui papal triregno innesta
Tra i buon Medícei germi onde lo sgombra
La madre sua più bella assai che onesta.
Frutto ei non è di sacramento schietto:
Ma che rileva? egli è d’Iddio lo eletto.

D’Iddio lo eletto è il settimo Clemente,
Non men che gli alti antecessori suoi.
Qui il vedi in atto d’uom, che santamente
Brama in pace compor due fieri eroi,
Rivolger entro la papal sua mente
Cosa onde gli ha forte ad increscer poi;
S’ei debba o no de’ Galli il re disciorre
Da quanto ei giura entro all’Ispana torre.

Ma infranto poi per sua sentenza cade
Il regal giuro; ch’ogni giuro è vano,
Se nol rafferma l’alta potestade
Di lui ch’è in terra l’arbitro sovrano.
Quindi s’adira, e di profane spade
Roma rïempie il vincitore Ispano;
Tal che di Cristo il gran Vicario veggio
Sforzato, e vilipeso il santo seggio.

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Dell’infallibil suo pastore il fallo
Ecco scontar dall’innocente gregge,
A cui schermo non fa muro nè vallo:
Ecco già l’armi ed il furor dar legge
A Roma vinta; e dal papal suo stallo
Fuggirsen quei che i principi corregge;
Dai merli poi dell’Adriana mole
Contro il nemico fulminar parole.

Son questi, sì, questi i trionfi sono
Dei veritieri successor di Cristo,
A cui lasciò di pazïenza il dono
Onde fer poi lo smisurato acquisto.
Qui d’ogni speme il Papa in abbandono
Sottrarsi vuol dal contestabil tristo:
Ve’ della rôcca ei fugge in vesti abbiette,
Come il figliuol di Dio da Nazarette.

Passa poi la tempesta: e dileguato
Il fiero nembo, di sovrana luce
Vedi brillar Clemente in manto aurato.
Già in lui la prisca maestà riluce,
Già di folgori sacre ha il braccio armato:
E sa s’ei fera de’ Britanni il duce,
L’ottavo Arrigo, ch’ei dal cielo esclude
E co’ suoi danna all’infernal palude.

Qui ’l vedi alfin con quella man, che morte
All’Anglo re portò, ventura e vita
Recare al Franco; a cui manda in consorte
La Medícea nepote, un dì sortita
Le infette Gallie a governar da forte;
Or d’indulgenze pria l’ha ben munita,
E d’italici providi consigli,
Per cui non vengan manco al re mai figli.

Ma omai di campion santi e di guerrieri,
Stanchi i pennelli son, stanche le viste.
Ecco d’alte madonne i dolci imperi
L’alte virtudi a leggiadria commiste,
Crear novelli in noi d’amor pensieri:
Come alloro immortal donna s’acquiste,
Altro pittor qui dottamente insegna
Nel far delle Medícee rassegna.

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Ripiena è tutta la parete terza
Di Lucrezie di Bianche e d’Isabelle,
Cui casto amore intorno intorno scherza,
E di ghirlande par le adorni e abbelle.
Ma co’ fervidi rai più non mi sferza
Apollo, ond’io non vaglio a dir di quelle:
Sol concede ch’io accenni Caterina,
Di Francia, umana, pia, giusta reina.

Questa è colei che al gran Clemente accanto
Vedemmo or or di blanda sposa in atto:
Eccola invasa qui da furor santo
Serbar di Cristo a forza il culto intatto.
Senna impara per lei, di Roma quanto
Vaglia il pugnal; se in queta notte è tratto
Se all’improvviso e a tradimento ei fiede,
Propugnator della verace fede.

Ecco dell’apostolico macello
Dare il segnal la gran tosca Giuditta:
Ecco del figlio il padre, ecco il fratello
Del fratello provar la destra invitta:
Ve’ come mai non resta il pio coltello,
Fin che ogni eretic’alma a Dio trafitta
Cadendo innanzi in olocausto sacro
Fatto non ha di sangue ampio lavacro.

Inermi, ignudi, in letto, a sonno in braccio,
D’ogni età, d’ogni sesso, d’ogni grado,
Senton di morte il repentino ghiaccio
Sì, che di Senna ecco sanguigno il guado.
Le strida, i pianti, gli ululati io taccio
Della notte, che Roma ebbe sì a grado:
Sol Caterina trïonfante io miro
Vietar ch’abbiansi i morti anco un sospiro.

Così il Tosco signor per ogni dove,
Dall’alto seggio suo volgendo i lumi,
Grandi opre ognora, virtüose e nuove
Mira de’ suoi, per cui son pari ai Numi.
Della quarta parete a dir non move
La Musa mia: son pinti ivi i costumi
Dei sette Savi, cui veder non lascia
Ampio trono regal che il muro fascia.