L'amante di sè medesimo/Atto III

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Atto III

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Atto II Atto IV
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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

La Marchesa Ippolita, poi don Mauro.

Marchesa. Eppur si danno al mondo dei colpi stravaganti.

Nascono delle cose non prevedute innanti.
Chi mai creduto avria, che avesse ad arrivare
Quel diavolo del Conte a farmi sospirare?
Eppure a mio dispetto, da poco tempo in qua,
Provar questa mi tocca graziosa novità.
Ho detto cento volte, ch’io non sarei sì pazza
Amar un che superbo le femmine strapazza.
Conosco, so benissimo ch’è un spirito volante.
Un cuore che non fissa, un animo incostante.
Eppur, ch’il crederebbe? Eppure, a mio dispetto,
Mi ha fatto innamorare, che tu sia maladetto.

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Ma che sperar poss’io da questo amor novello?

vedermi, se mi spiego, piantata in sul più bello.
Ho una ragazza a fronte, ch’è prima in pretensione.
Ho il dubbio d’esser posta dal Conte in derisione;
E poi ho questa bella testaccia mamalucca,
(vedendo venire don Mauro)
Che a forza di finezze mi stucca e mi ristucca.
Mauro. Posso? (in distanza)
Marchesa.   Non è padrone?
Mauro.   Permette la signora?...
(avanzandosi un poco)
Marchesa. A far tre passi e mezzo ci metterete un’ora?
Mauro. Allor quando mi accosto... a quel vezzoso ciglio.
Io tremo, sì signora... qual timido coniglio.
(s’avanza)
Marchesa. Ma don Mauro carissimo, voi lo sapete pure,
Che sono inimicissima di tai caricature.
Mauro. Eh Marchesa, Marchesa! Se dir quello che bramo...
Potessi apertamente.... Volete che sediamo?
Marchesa. Tutto quel che vi piace.
Mauro.   Vezzosa compiacenza!
(caricato va per le sedie)
Marchesa. (Con questo seccatore ho una gran sofferenza!)
Mauro. Eccone una.
Marchesa.   Bravo. Via, siate svelto e lesto.
Mauro. Ecco qui. Sì signora... Ah, non ho fatto presto?...
Marchesa. Bravissimo.
Mauro.   Per voi, se fossi in alto, in alto...
Sollecito saprei precipitar d’un salto.
Ah! che vi par?
Marchesa.   Così. Dir presto la parola.
Mauro. Sì, mi farò prestissimo sotto la vostra scuola.
Oh, venendo al proposito... sì signor... son venuto...
E però... vorrei dire... e non è che un tributo...
Perchè... sono avanzato... ma sono... di buon core...

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Come vedete alfine... e posso... sì signore...

Non so se mi capite.
Marchesa.   Poco.
Mauro.   Mi spiegherò.
Non ho mai... preso... moglie. E parenti non ho...
La nipote... ma presto... sì signore... anderà...
Io... sì signore... alfine ho delle facoltà.
I cinquanta non sono... e il medico mi ha detto..
Sì signore... mi ha detto... e non ho certo aspetto...
Vi son di quei che sono, sì signore, in età;
Ma io... grazia del cielo... ho poi la sanità.
Eh, non si parla... Basta... concludo... Se volete...
Per esempio... potrebbesi... Sì signora... intendete.
Marchesa. Signor, per vostra regola, vi dico e vi avvertisco,
Che più che mi parlate, io meno vi capisco.
Mauro. To! to! sarà possibile? Questo mi riesce amaro.
Sono un poco confuso... ma... parlerò più chiaro.
Marchesa. (Già so che mi vuol dire lo sciocco innamorato).
Mauro. Principiamo da capo. (Sono un poco imbrogliato).
Oggi saran tre anni...
Marchesa. Ma via, don Mauro caro,
Quel che volete dirmi, ditelo presto e chiaro.
Mauro. (Sta un poco guardandola senza parlare, poi dice:)
Questo termine caro... che voi mi avete detto,
Lo dite, sì signora... per burla, o per affetto?
Marchesa. Non ardirei burlare un uomo come voi.
Mauro. Eh! (sospira, e si accosta un poco più colla sedia)
Marchesa.   Che avete, don Mauro?
Mauro.   Orsù, venghiamo a noi.
Marchesa. Via, presto.
Mauro.   Son tre anni...
Marchesa.   Che cosa?
Mauro.   Che vi adora...
Marchesa. Ma chi?
Mauro.   Quel che vi ama...

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Marchesa.   Siete voi?

Mauro.   Sì, signora.
(vergognandosi)
Marchesa. Vi dirò...
Mauro.   Ma di grazia, due parolette sole.
Marchesa. Perchè andar per le lunghe?
Mauro.   Mi spiccio in due parole.
Vorrei...
Marchesa.   Cosa?
Mauro.   Vorrei...
Marchesa.   Essere mio marito?
Mauro. Sia ringraziato il cielo... che mi avete capito.
Marchesa. Avete altro da dirmi?
Mauro.   Eh, ci sarebbe ancora...
Marchesa. Volete ch’io risponda?
Mauro.   Se vi par... si signora.
Marchesa. Voi mi onorate troppo, signor don Mauro amabile,
Credendomi una donna che sia desiderabile.
Avete, lo confesso, un merito perfetto;
Siete di bella età, siete di bell’aspetto.
(don Mauro si accosta un poco più colla sedia)
Per beni di fortuna siete un ricco signore,
E avete alla fortuna un animo maggiore.
Cento donne vorriano aver per loro sposo
Un uom così ben fatto, un uom sì generoso.
(don Mauro s’accosta)
Ma in quanto a me, signore, vi svelo i pensier miei;
Parlo libera e schietta, io non vi piglierei.
(don Mauro si ritira un poco)
Voi siete un uom flemmatico, io son donna furiosa.
Voi siete un uom pacifico, io son troppo stizzosa.
(vuol ritirarsi don Mauro)
È ver che si suol dire, che il troppo unito al poco
Può moderar sovente gli estremi a poco a poco;
E voi col vostro gelo scemando in me il bollore,

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Scioglierebbe il mio caldo il gel del vostro cuore.

(don Mauro s’accosta)
Ma tutti due faremmo una fatica estrema,
Ed al pensarvi solo, sento che il cuor mi trema.
Onde, signor don Mauro, parlo liberamente,
Meglio per voi, per me, sarà non ne far niente.
(don Mauro si scosta)
Siete voi persuaso di mia sincerità?
(don Mauro si va strofinando in faccia)
Mauro. Non troppo.
Marchesa.   Riflettete.
Mauro.   Non mi persuaderà.
Marchesa. Sareste voi contento d’una consorte altiera?
Mauro. Perchè no?
Marchesa.   D’una donna, per esempio, ciarliera?
Che a una parola vostra ne rispondesse sei?
Che spesso andasse in collera?
Mauro.   Io non le baderei.
Marchesa. Una che far volesse in casa da padrona.
Disporre a suo talento?
Mauro.   Quando non mi bastona...
Marchesa. E voi non gridereste, sentendo ad ogni articolo
Oppor contraddizioni?
Mauro.   Gridar? non vi è pericolo.
Marchesa. Ma io, quando mi prende la bile, vado giù;
E quando non rispondono, vo in collera di più.
Mauro. Questo qui è il più diffìcile; gridare è il mio tormento.
Potrei, per darvi gusto, gridar per complimento.
Marchesa. (Un uom miglior di questo trovar io non potrei).
Mauro. Io son un, sì signore... che bado a’ fatti miei.
Mi piace il vostro volto... per voi ho dell’affetto;
Non crederei voleste gridare anche nel letto.
Marchesa. Perchè no? può arrivarmi là ancor qualche impazienza.
Mauro. Eh, dovrei, sì signore, soffrirlo con pazienza.
Marchesa. (Questi, per dir il vero, è un uomo estraordinario).

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SCENA II.

Il Servitore e detti.

Servitore. Signore, in questo punto è giunto il feudatario.

(a don Mauro)
Mauro. Il marchese Rinaldo? Che farne io non saprei.
Servitore. E ho inteso dir, che venga ad alloggiar da lei.
Mauro. Da me?
Servitore.   Perchè il palazzo, dicono, è rovinato.
Mauro. Oh signor feudatario, gli son bene obbligato, (con caricatura)
Marchesa. Signor, vi fa un onore. Non convien disprezzarlo.
Mauro. Quest’onor, sì signore, poteva risparmiarlo.
Sto qui con libertà; son uno che mi piace
Gli amici confidenti godermeli con pace.
E poi, cara Marchesa, ho altro in capo affè.
Sono un poco confuso, e sapete perchè.
Marchesa. State allegro, don Mauro, che non si può sapere,
Fino che siamo vivi, quel che ci può accadere.
Mauro. Ah furbetta, furbetta! Va dal mastro di casa;
Digli che faccia lui... che accomodi la casa.
Che la tavola... basta... avvisato non fui.
Digli che, sì signore... digli che faccia lui...
Eh... di’ alla governante... che mettermi vorrei...
Che tiri fuori un abito... digli che faccia lei.
Servitore. E circa alla credenza vuol qualcosa più?
Mauro. Credenza? sì signore... direi... basta, fa tu.
Servitore. (Parte.)
Marchesa. Fa tu? Deve il padrone vedere i fatti suoi.
Se fossi vostra moglie...
Mauro.   E ben, fareste voi.
Marchesa. (Oh che marito amabile!)
Mauro.   Ehi, mi par di sentire.
Marchesa. Arrivano le sedie, andatevi a vestire.
Mauro. Andrò... basta, vorrei... Sì signor, risolvete.
Via, penar non mi fate... Già so che m’intendete, (parte)

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SCENA III.

La Marchesa Ippolita.

Non vi è meglio di lui, se si fa fare apposta,

Ma io con tutto questo non sentomi disposta.
Lo so, lo so chi è il Conte; pur di buon occhio il veggio.
Disse pur ben, chi disse che ci attacchiamo al peggio.
Ma l’occhio che lo guarda, è un occhio traditore,
E terrò bene in guardia contro gli sguardi il core;
Che si fa presto a dire un sì senza consiglio.
Che forma eternamente di femmina il periglio.
Vuol divertirsi il Conte? Ben, mi diverto anch’io.
L’amor suo è passaggiero? tal sia con esso il mio.
Vien l’amica: non so, se sia pacificata.
Voglio spiar qua intorno, girando innosservata. (parte)

SCENA IV.

Donna Bianca ed il signor Alberto.

Alberto. Mo cara donna Bianca, ghe l’ho pur dito avanti,

El Conte no vol smorfie, el Conte no vol pianti.
La me dise, Signor, non piango, vel prometto;
E pò ghe vedo sempre ai occhi el fazzoletto.
Bianca. Se foste nel mio caso! Basta, mi sforzerò.
Ma il Conte non si vede? Dove sarà?
Alberto.   Nol so.
(El sarà a far el matto, sto sior senza giudizio).
Bianca. Eh, questo suo ritardo è un bruttissimo indizio.
Voi con belle parole badate a speranzarmi,
Ma il cuor mi fa temere, nè il cuor suol ingannarmi.
Alberto. Mo za, vualtre donne gh’ave sta fantasia,
Che el cuor ve diga tutto: oh che malinconia!
Voleu che mi ve spiega cossa che xe sto cuor,
Che dise e che desdise, segondo el vostro umor?

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In ogni dubbio evento se sente per natura

Un poco de speranza, un poco de paura.
Co vien la bona nova d’una felicità,
Se dise per usanza, el cuor l’ha indovina.
Co vien la nova trista, oimè, mortificada,
Se dise, ah che el mio cuor me l’ha pronosticada.
Onde succeda pur quello che el ciel destina,
El cuor l’ha sempre dito, e sempre el l’indovina.
Bianca. Un segno è il non vederlo, che meco ha dello sdegno.
Alberto. Quando ch’el vegnirà, sarà finio sto sdegno.
Bianca. Vedrete, che in tutt’oggi il Conte non verrà.
Alberto. Via, cossa vederoggio? La toga; eccolo qua.
(osservando fra le Scene)
Bianca. Oimè! nel rivederlo... (si pone il fazzoletto agli occhi)
Alberto. Oh, la me fa un despetto.
Vorla zogar... debotto ghe sbrego el fazzoletto...
Bianca. Non piangerò, vel giuro, vo’ soddisfarlo in questo:
Non abbia di sdegnarsi sì debole pretesto.
Farò quanto potrò, per vincere un ingrato.
Alberto. (Poverazza! Se vede, che la gh’ha el cuor ben fato).

SCENA V.

Il Conte e detti.

Conte. (Non trovo poi di meglio di donna Bianca).

Alberto.   Oh, oh!
Ben vegnudo, sior Conte.
Conte.   Eccomi, chi mi vuò?
Bianca. Nè anche un saluto a me?
Alberto.   Una finezza gnanca?
Conte. Son servitor divoto. Come sta donna Bianca?
Bianca. Bene, sien grazie al cielo. E starò meglio ancora,
Se sono in grazia vostra.
Alberto.   Sentìu? (al Conte)
Conte.   Oh mia signora.

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Alberto. Oh signora, signora! Cossa andeu signorando?

No me fe stomeghezzi; moleghe, o che ve mando.
Conte. Donna Bianca sa bene, per lei se ho dell’affetto.
Bianca. Trattenermi non posso. (mette il fazzoletto agli occhi)
Alberto.   Mo zo quel fazzoletto.
(piano a donna Bianca)
Conte. Ma le sarà anche noto il mio temperamento.
Che il sospettare a torto suol fare il mio tormento;
E credere non posso, che vantisi d’amarmi,
Chi senza fondamento congiura a tormentarmi.
Io son di un cuor sì tenero, che i pianti, che i sospiri
Mi toccano le fibre, mi portano ai deliri;
E per non comparire ridicolo ed insano,
Fo sforzi di natura, mi struggo e mi allontano.
Alberto. Sentela? (a donna Bianca)
Bianca.   Non credeavi signor sì bilioso.
Alberto. Da cosa vien sta bile? Da un cuor che xe amoroso.
(a donna Bianca)
No xe vero? (al Conte)
Conte.   Sì certo; ho un cuor di una tal pasta...
Sono sì delicato... non sta a me dirlo... basta.
Alberto. Qua no ghe xe bisogno de barattar parole.
Vu diseghene cento, ghe ne vôi dir do sole.
Ghe voleu ben, sior Conte?
Conte.   Altri che lei non amo.
Alberto. Ghe voleu ben, patrona?
Bianca.   Altri che lui non bramo.
Alberto. Donca non occorr’altro. Son un amigo onesto.
Mi ho fatto el mio dover: tocca a vualtri el resto. (parte)

SCENA VI.

Il Conte e donna Bianca.

Conte. Avete ancor scacciato dal sen quel rio timore,

Che mi tormenta l’anima?
Bianca.   Parlate con amore.

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Voi siete di cuor tenero, io non l’ho men flessibile;

E poi son donna alfine, di voi più compatibile.
Se tanto non vi amassi, sarei men tormentosa.
Amor mi fa stucchevole, amor mi fa sdegnosa.
Veder sugli occhi miei... ma via, non vo’ annoiarvi?
Che non farei, meschina, affin di soddisfarvi?
Voi siete il primier uomo, onde ad amare ho appreso:
Voi mi avete nell’anima il primo foco acceso.
E se da voi pretende la ricompensa il cuore,
Sdegno non è che il chiede; ve lo domanda amore.
(piange)
Ah signor, perdonate, se il lagrimar vi spiace.
Conte. No, cara, un pianto tenero è un lagrimar che piace.
(restano un poco ammutoliti)

SCENA VII.

La Marchesa Ippolita e detti.

Marchesa. L’amor, per quel ch’io vedo, li fa dormir nel foco;

La carità m’insegna, che li risvegli un poco.
(da sè, in distanza)
Conte. (Non so che dir; non trovo ragion per iscusarmi).
Marchesa. Vi son serva, signori; è permesso avanzarmi?
Bianca. Il luogo è tanto pubblico, che può venir chi vuole.
Marchesa. Ma perchè, quando io vengo, sospender le parole?
Avete soggezione di me? Mi fate torto.
Vi farò da piloto per affrettarvi al porto.
Che non farei, amica, per non vedervi in duolo?
E per il signor Conte, ch’è tanto buon figliuolo?
Conte. Eh! la marchesa Ippolita sempre è bizzarra almeno.
Bianca. Già non si può nascondere, quel che si chiude in seno.
Ognun sa che ci amiamo; e la Marchesa anch’essa
Tinta non sarà meno da questa pece istessa.
Marchesa. Come? credete voi, che ami il Contino anch’io?
Bianca. Oh, non è ciò che intendo di dir col labbro mio.

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Non vi è altri nel mondo? Ma chi scusar si suole,

Fa veder che si sente toccar dove gli duole.
Marchesa. Se davver mi dolesse, pianger farei pur tanto!
Bianca. Eh! chi sa che per voi qualcun non abbia pianto?
Conte. Signore mie...
Marchesa.   Codesto sarebbe troppo onore
Per me, che non ho merito.
Bianca.   Un bell’onor!
Conte.   Signore!
Possibil che non possano darsi due donne unite,
Senza che si promova motivo d’una lite?
Marchesa. Caro Conte garbato!
Bianca.   Io sono in casa mia.
Non vo a insultar nessuno.
Marchesa.   Signora, anderò via.
Se qua sono venuta, quasi a dispetto mio,
Mi fe’ quel seccatore venir di vostro zio.
A me, grazie alla sorte, da villeggiar non manca,
Senza un tale rimprovero soffrir da donna Bianca.
E se mi cal d’amanti, ce n’è penuria al mondo?
Se perduto ho un marito, non troverò il secondo?
È il Conte un amorino? È un principe d’altezza?
È l’idolo de’ cori, l’idea della bellezza?
È tal che non lo stimo, e glielo dico in faccia.
Tenetelo, godetelo; per me, buon pro vi faccia.
Bianca. Rispondervi non lice a una fanciulla onesta.
Marchesa. Oh oh, se non avete altra ragion che questa!
Conte. Se vi siete sfogata, posso sperare adesso,
Che mi sarà, madama, rispondervi concesso.
Son un, che non mi stima la signora Marchesa.
Quello che dir s’intenda, non l’ho per anche intesa.
Marchesa. Non occor che mi spieghi.
Conte.   Son un, che non mi stima.
Quando così si parla, si ci1 riflette in prima.

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Saprà che la mia casa non cede in nobiltà

A quelle che sostengono l’onor della città.
Non son prence d’altezza, ma il feudo ch’io possedo
Ha tale indipendenza, che a un principe non cedo.
Non sono un amorino, nè l’idolo de’ cuori,
Ma non penai gran cosa a mendicar favori.
E per mia gloria somma, so che di me s’è accesa,
Fra tante e tante dame, la signora Marchesa.
Marchesa. Io? Mentite.
Conte.   Una donna, sia semplice, sia ardita,
A un uom impunemente può dare una mentita.
Rispondervi saprei; ma taccio, e non m’impegno.
Con femmine mi scaldo per altro che per sdegno.
Marchesa. Se fossi a testa a testa, io vi risponderei.
Deggio tacer per ora. Scaldatevi con lei.
(adirata, accennando donna Bianca; e parte)

SCENA VIII.

Donna Bianca ed il Conte.

Bianca. Certo mi duol nell’anima, caro Contino amato,

che voi per colpa mia vi siate inquietato.
Conte. Non m’inquietai per questo. Distinguere conviene
L’ingiuria di parole dal labbro donde viene.
Una donna adirata può dir quel che le pare;
Il sangue per sì poco non vogliomi guastare.
Bianca. Per lei non vi adirate, che tanto disse e tanto;
Ed io vi movo a sdegno perfino col mio pianto?
Conte. Questa è la differenza, questo è d’amor il segno.
Con donna che non amo, di dentro non mi sdegno.
E se di voi mi accende un gesto, una parola,
Provien perchè v’adoro teneramente e sola.
Bianca. Quando è così, perdono a tutte le vostr’ire.
Conte. (In balsamo il veleno è ben di convertire). (da sè)

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SCENA IX.

Frugnolo lacchè, e detti.

Frugnolo. Signor.

Conte.   Che cosa vuoi?
Frugnolo.   È giunto il feudatario.
Conte. Lo so.
Frugnolo.   Dice la moglie del signor commissario...
Conte. Va via.
Bianca.   Che cosa dice? Madama che comanda?
Conte. Vattene.
Frugnolo.   Al signor Conte di cuor si raccomanda.
Conte. Non vuoi andar?
Frugnolo.   Signore...
Conte.   Altro sentir non voglio.
Frugnolo. Basta; le sue preghiere vi manda in questo foglio.
(mostra una lettera)
Conte. Recalo a chi tel diede.
Bianca.   Eh, diamogli un’occhiata.
(vuol prender la lettera)
Conte. Eh maladetto il foglio, il messo e l’imbasciata.
(straccia la lettera, e la getta in faccia a Frugnolo)
Frugnolo. (Parte.)
Bianca. Or che vi vedo acceso d’insolito furore,
Signor, quel che vi accende, ditemi, è sdegno o amore?
Conte. Vorrebbe ch’io parlassi al marchese Fernando.
Bianca. Sarà, me lo figuro, di madama un comando.
Conte. È il marito, che chiede d’essere confirmato.
Bianca. Ma vi averà, m’immagino, madama supplicato.
Conte. Di queste seccature non curo, e non ne voglio.
Bianca. Avete fatto male a lacerar quel foglio.
Conte. Non l’avrei lacerato, se stima io ne facessi.
Bianca. Potreste averlo fatto, perch’io nol leggessi.
Conte. Ecco un sospetto nuovo.

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Bianca.   E senza fondamento. (ironica)

Conte. Eccoci qui da capo col solito tormento.
Bianca. Povera me! (piange)
Conte.   Piangete?
Bianca.   Almen, se mi tradite,
Lo sfogo delle lagrime, crudel! non m’impedite.
Non vi è tiranno al mondo, legge non vi è si dura,
Che vietare ardisca gli effetti di natura.
So che non dovrei piangere, so che sfuggir dovrei
Un barbaro, che gode tradir gli affetti miei;
Ma sia l’inutil sdegno, sia debolezza o amore,
Le lagrime non posso racchiudere nel cuore.
Tutto quel che far posso, in segno di rispetto,
Si è togliervi dagli occhi un odioso oggetto;
Perchè dal pianto mio non siate tormentato,
Andrò da voi lontana ad isfogarmi, ingrato! (parte)

SCENA X.

Il Conte solo.

Venga l’intrepidezza a confortarmi adesso.

Povera donna Bianca! Ho rossor di me stesso.
Che cerchi, che procuri il mio piacer, sta bene.
Ma non coll’altrui pianto, ma non coll’altrui pene.
Il titolo di barbaro, il titolo d’ingrato,
Esaminiam noi stessi, cuor mio, l’hai meritato?
Di quante donne al mondo, di quante donne amai,
Di questa la più tenera, lo so che non trovai.
Merita ben, che ad essa sagrifichi l’amore...
Ah, dovrò finalmente sagrificarle il cuore?
Il cuor che sì geloso serbai per me finora,
Cedere ad una donna? No, non lo cedo ancora.
Dubbio mi resta in seno, che il pianto, che i sospiri
Sien arti, sien lusinghe, sian sogni, sian deliri.
E se ciò fosse, e un giorno tardi a pentir m’avessi?

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Maledirei le fiamme, abborrirei gli amplessi;

Morirei disperato. Pace, mia cara pace.
Deh non lasciarmi ancora per un desio fallace!
Se d’una sposa al fianco pace goder si spera,
Andiam la destra a porgere al laccio innanzi sera.
Ma se la donna un giorno può fare il mio tormento.
Pria di penar vivendo, voglio morir contento, (parte)

Fine dell’Atto Terzo.

Note

  1. Così il testo, invece di ci si.