L'amante di sè medesimo/Atto IV

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Atto IV

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Atto III Atto V
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ATTO QUARTO.

SCENA PRIMA.

Giardino in casa di don Mauro.

Il signor Commissario, il signor De’ Martini finanziere.

Martini. Signore, una parola. Vorrei saper perchè

Madama vostra moglie tratta sì mal con me.
Commissario. Domandatelo a lei.
Martini.   Che serve il domandarlo.
Se perdemi il rispetto allora ch’io le parlo?
Commissario. Madama non è donna di mala inclinazione.
Quando così vi tratta, avrà la sua ragione.
Martini. Non credo, per il tempo ch’io venni in casa vostra,
Che dolervi possiate dell’amicizia nostra.
Madama è onesta moglie, voi siete un onest’uomo,
Io sono un buon amico, io sono un galant’uomo;

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Ma temo che mi siano fatti gl’insulti e l’onte,

Dacchè si è in casa vostra intruso il signor Conte.
Commissario. Non dico che per lui voi siate il malveduto,
Ma dirvi la ragione deggio, perchè è venuto.
Martini. Lo so, lo so il pretesto. Per esser confermato
Nel posto dal Marchese, a cui foste accusato.
Buono per tali uffizi me voi non giudicate?
Sapete ch’io riscuoto di lui tutte le entrate.
Sapete che del feudo ho in man tutto il maneggio.
Commissario. Amico, tutto questo lo so; ma so di peggio,
E per ben vi avvertisco. Sentito ho a mormorare,
Che vogliavi il Marchese dal feudo licenziare.
Martini. Perchè?
Commissario.   Perchè voi pure siete da gente trista
In faccia del padrone messo in pessima vista.
Martini. Che ponno dir?
Commissario.   Si dice... compatitemi, amico,
Non credo che sia vero; ma quel che sento, io dico.
Si dice che il contratto, che feste col Marchese,
Gli ruba almeno almeno un terzo del paese,
E che per tal ragione sia nullo l’istrumento.
Martini. Gli si potrebbe fare un qualche accrescimento.
So di non esser reo, potrei giustificarmi:
Ma cosa più espedita saria l’accomodarmi.
Commissario. Trovate un qualche mezzo.
Martini.   Di chi potrei servirmi?
Se il Conte vostro amico volesse favorirmi.
Commissario. Oh, io non gliene parlo, e poco non sarà,
Se appresso del Marchese per me s’impiegherà.
Martini. Se madama volesse...
Commissario.   Ha da pensar per lei.
Martini. Cento doppie di Spagna sagrificar vorrei.
Commissario. Sol perchè gli parlasse?
Martini.   Oh no, non son sì matto;
Cento doppie darei, sì, ma a negozio fatto.

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Commissario. Si può veder.

Martini.   Mi pare... (osservando fra le scene)
Commissario.   Il Conte è quel che viene.
Martini. So che è un buon cavaliere, che inclina a far del bene.
Perchè gli parli, il caso mi guida in queste soglie.
Commissario. No, sospendete, amico; gli parlerà mia moglie.
Martini. (Al suono delle doppie facile lo trovai). (da sè)
Commissario. (Cento doppie di Spagna non le ho vedute mai).
(da sè)

SCENA II.

Il Conte e detti.

Conte. (Il commissario è qui; so che vorrà seccarmi.

Diedi la mia parola. Difficile è il sottrarmi). (da sè)
Commissario. Servo del signor Conte.
Martini.   Servitore divoto.
Commissario. E giunto il feudatario, credo vi sarà noto.
Conte. Sì, signor, l’ho veduto. Si è desinato insieme.
Commissario. Tanto meglio. Sapete, signor, quel che mi preme.
Anzi al rispetto mio, che protettor vi chiama,
I complimenti ancora unisco di madama.
Conte. Ringraziate madama; ditele che perdoni,
Se non verrò da lei, perchè ho le mie ragioni.
Commissario. Siete padron di casa, quando venir vogliate.
Martini. Oggi, domani e sempre, quando vi piaccia, andate.
Conte. Se andar io vi volessi, non prenderei consigli.
(al signor de’ Martini)
Commissario. Signor Conte amatissimo, vicino è il mio periglio.
Martini. Anche di me, signore, che sono uomo onorato,
So che il signor Marchese è male impressionato;
E per repristinarmi nel cuore del padrone,
Ardisco d’implorare la vostra protezione.
Conte. Oh, il signor de’ Martini parla assai civilmente;
Il solito suo caldo calmò placidamente.

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Martini. Ognuno è sottoposto a dei trasporti insani.

Signor, d’un cavaliere mi getto nelle mani;
Lo so quanto si estende la vostra autorità.
Commissario. Le grazie che chiedete, nessun vi negherà.
Martini. Non può perir chi gode la sua protezione.
Conte. (Se farlo mi riuscisse, ci avrei dell’ambizione.)
(da sè)
Commissario. Voi siete tal signore, da cui esser pregato
Sarà per il Marchese un onor segnalato.
Martini. E sa, che se una grazia oggi per voi dispensa.
Aver può in casi simili da voi la ricompensa.
Conte. Basta, parlar m’impegno. L’uno e l’altro sperate.
Commissario. Prima per me, signore. (piano al Conte)
Martini.   Prima per me parlate.
(piano al Conte)
Commissario. (Cerco il mio ben. Di lui non me n’importa un cavolo).
(da sè, indi parte)
Martini. (Mando per l’interesse la commissaria al diavolo.)
(da sè, indi parte)

SCENA III.

Il Conte, poi il signor Alberto.

Conte. Quello che a un cavaliere può dar riputazione,

È il poter esser utile, venendo l’occasione.
A un mio nemico istesso, potendo, gioverei.
Per far parlar il mondo bene de’ fatti miei.
Pensare in tal maniera chi mi sentisse adesso,
Direbbe il mio sistema amore di me stesso;
Ma quando all’altrui bene un tale amor mi porta,
Quand’utile si rende, la mia passion che importa?
Alberto. Sè domanda, sior Conte, de là in conversazion.
Conte. Donna Bianca dov’è?
Alberto.   Sentada in t’un canton.

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Conte. Osservaste, che a tavola non mi ha guardato in viso?

Alberto. Ho visto, e m’è arrivada sta cossa all’improvviso.
Da chi vienla, compare?
Conte.   Zitto, nessun mi ascolta.
Dubito io d’averlo il torto questa volta.
Alberto. Contemela, diseme; son qua, se gh’è bisogno....
Conte. Oh, non vi dico niente.
Alberto.   No? perchè?
Conte.   Mi vergogno.
(ridendo, e parte)

SCENA IV.

Il signor Alberto.

El ride, el se la gode, ghe par divertimento

Far desperar le putte. Che bel temperamento!
Se mi colla morosa savesse d’aver torto,
E la vedesse a pianzer, sarave mezzo morto.
Delle volte ghe penso, e digo tra de mi:
Coss è quel che diversi fa i omeni cussì?
L’anima xe l’istessa, e pur l’operazion
Dell’anima è diversa per varie inclinazion.
I corpi? No xei tutti formadi d’una pasta?
L’educazion, la scuola? La fa assae, ma no basta.
I organi che forma sta macchina mortal,
Xe quelli che produse diverso el natural.
No digo za che i sforza le operazion del cuor,
Ma i xe i principi veri del sdegno e dell’amor.
Lo so che la rason comanda da regina,
E alle passion resiste, dove la forza inclina;
Ma un omo che abbia fervido el sangue in ogni vena,
A superar la collera el sentirà più pena.
E un altro che no sia de fibre ben complesso,
El sarà per natura pacifico in se stesso.
E mi, che gh’ho le vissere che a tenerezza inclina,
Bisogna dir che gh’abbia le fibre de puina.

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SCENA V.

Madama Graziosa ed il suddetto.

Madama. Signor, la riverisco.

Alberto.   (La tenerezza a monte). (da sè)
Padrona.
Madama.   Mi sa dire, se ci sia il signor Conte?
Alberto. El giera qua za un poco. Comandela che el chiama?
Madama. Sì signore.
Alberto.   Ho da dirghe da parte de una dama?
Madama. Come comanda lei; dica la commissaria.
Alberto. (Adesso la cognosso. Una dama ordinaria). (da sè)
Madama. La prego, perchè ho fretta.
Alberto.   Se mai el me domanda,
Vorla che se ghe diga, cossa che la comanda?
Madama. Vo’ dirgli una parola.
Alberto.   La compatissa; a caso,
La porla confidar? Za la sappia che taso.
Madama. Voglio parlar con lui, caro signor garbato.
Alberto. In verità insto ponto me xe vegnù el mio flato.
Non posso camminar co me vien sto dolor.
Madama. Ma io gli vo’ parlare.
Alberto.   L’aspetta un servitor.
Madama. Voi non siete di casa?
Alberto.   Son ospite anca mi.
Madama. Ospite!... Forastiere?
Alberto.   Giusto, cussì e cussì.
Madama. Lo conoscete il Conte?
Alberto.   L’è sta qua fin adesso;
E pò semo do amici che forma un cuor istesso.
Quel che sa lu, so mi; quel che mi so, lu sa.
La se pol confidar con tutta libertà.
Madama Volea dirgli una cosa.
Alberto.   Xela mo d’importanza?
Madama. Sì: gli voleva dire, ch’è un uom senza creanza.

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Alberto. Fin qua me dago debito de dirghelo a pontin.

Ma la prego, per grazia, spiegarme sto latin.
Madama. Fatemi voi giustizia, se siete quel che siete.
Io son la commissaria, questo già lo sapete.
Alberto. Eh, lo so. (inchinandosi)
Madama.   Or sappiate, che gli ho mandato un foglio
Per certa protezione, per via d’un certo imbroglio.
Il lacchè glielo porta di donna Bianca in faccia,
Ed egli, senza leggerlo, va in collera e lo straccia.
Oh, s’ero là presente, gli avrei menato un pugno.
Alberto. (Adesso so el perchè l’amiga ha fatto el grugno).
(da sè)
Veramente l’ha fatto un’azion poco bona.
La lassa far a mi; ghe parlerò, patrona.
Madama. Ma fatemi la grazia almeno di chiamarlo.
Alberto. Mo per cossa?
Madama.   Per niente. Solo per strapazzarlo.
Per dirgli impertinente, uomo senza rispetto,
Senza riputazione, bugiardo e maledetto.
Alberto. Credela che el sia muto? El ghe responderia.
Madama. Cosa potria rispondere, davanti a una par mia?
Alberto. Che in fazza soa el tasesse, sperar se poderave;
Ma mi, se fusse in elo, so che responderave.
Madama. Cosa direste voi, se foste nel suo caso?
Alberto. Dirò per obbedirla; la senta se ghe piaso.
Diria, se fusse in elo: padrona reverita,
La parla troppo franca, la parla troppo ardita.
Se vede la so nascita dal so parlar istesso,
E se de più no digo, che la ringrazia el sesso.
Se ho strazzà quella lettera, ho avù le mie razon.
Ste cosse le dissimula chi gh’ha reputazion.
Se cerca con politica destruzer el sospetto,
E no se vien in pubblico a perder el concetto.
A matte de sta sorte la corda è necessaria.
Servitor umilissimo, signora commissaria. (parte)

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SCENA VI.

Madama Graziosa.

Era ben meglio assai parlar non lo facessi.

Non so come, in sentirlo, com’io mi trattenessi.
A una donna mia pari un simile strapazzo?
Con un matton, se passa sotto il balcon, l’ammazzo.
Vo’ farlo andar prigione, vo’ farlo processare,
Una querela falsa se credo d’inventare.
Ma se dal marchesato siam belli e licenziati,
Si vederanno in fumo tutti i disegni andati.
Senz’arte, senza posto, e poi senza quattrini...
Ah! manderò a chiamare il signor de’ Martini. (parte)

SCENA VII.

f?90%

Il Marchese Ferdinando e don Mauro, la Marchesa Ippolita sedendo da una parte, donna Bianca più indietro sedendo; il Conte passeggia, qualche volta a lei accostandosi.

Marchese. Vi rinnovo, don Mauro, i miei ringraziamenti.

Scusatemi, vi prego.
Mauro.   Non so far complimenti.
Marchese. Venir qua d’improvviso qualche affar mi ha obbligato.
Sapete che il castello è antico e rovinato.
Bastami aver da voi discreta abitazione.
La mensa non intendo di profittar.
Mauro.   Padrone.
Marchese. Un uom quale voi siete, per onestà pregiato,
Onora il mio paese, onora il marchesato;
Dal sangue il vostro cuore dissimile non è.
Mauro. Conte, fatemi grazia rispondere per me.
Conte. Or men di voi capace sarei per complimenti. (passeggiando)
Bianca. (Sol capace è l’ingrato di darmi dei tormenti.) (da sè)

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Conte. Oggi ho la testa mia di un insensato al paro.

(passeggiando)
Marchesa. (Così ne fosse senza, che l’averei più caro.) (da sè)
Marchese. Lasciam dunque da parte, caro don Mauro mio,
I complimenti inutili. Ne son nemico anch’io.
Ditemi, com’è andata quest’anno la ricolta?
Dell’uva in sulle viti speriam ne sia di molta?
Mauro. Dirò.... L’uva quest’anno.... può darsi.... sì signore....
La stagione.... ha piovuto.... è maggiore e minore....
L’altr’anno.... s'è anche fatto.... si può sperar.... così....
Con un poco di caldo.... il vin... non s’incarì.
I contadini dicono.... ma.... mi capisce.... sono....
Eh, non ci sarà male.... se ne farà del buono...
Oh, un buon bicchier di vino... un vin da galantuomo!
M’intende? sì signore è la vita dell’uomo.
Marchese. (Fa un po’ di pena invero. Ma! ognuno ha il suo difetto).
(da se)
Marchesa. (E mi vorresti in moglie, che tu sia benedetto!)
(da sè)
Mauro. Permette?....
Marchese.   Che vorreste?
Mauro.   Andar, con permissione.
Marchese. Potete accomodarvi.
Mauro.   (Son pure in soggezione), (da sè)
Già... ch’io il dica, o nol dica... Sì signore, benissimo...
Casa mia è casa sua... (dopo qualche pausa) Servitore
  umilissimo. (s’inchina per andarsene)
Marchese. Il buon uomo!
Mauro.   Marchesa.... posso aver la fortuna...
(accoslatosi a lei)
Della grazia.... di lei....
Marchesa.   Andate via.
(con qualche disprezzo, senza collera)
Mauro.   (Ha la luna).
(da sè, incamminandosi)

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Cosa avete, nipote? State qui.... poveraccia!

Vi duole qualche cosa? (accostandosi a donna Bianca)
Bianca.   Eh niente. (sospirando)
Mauro.   (Uh che lunaccia!)
(da sè, incamminandosi)
Voi l’avete la luna? (al Conte)
Conte.   Pur troppo.
Mauro.   Poverino!
Rimedio per la luna.... sì signor... del buon vino.
(ridendo parte)

SCENA VIII.

Il Marchese, il Conte, le due Dame sedute, come sopra.

Marchese. Ma che fan queste dame, che paiono assonnate?

Spiacemi, mie signore, d’avervi incomodate.
Non so per qual cagione, colla presenza mia,
Sospendere vogliate la solita allegria.
Bianca. Signor, son così sempre.
Marchese.   La signora Marchesa
So pur che di buon cuore a ridere l’ho intesa.
Del vostro buon consorte fui buon amico anch’io.
(Ed ora questa vedova farebbe al caso mio). (da sè)
Marchesa. Signor, mi duole il capo.
Marchese.   Basta, vi passerà.
Favoritemi voi. Conte, per carità.
Conte. Sono a’ vostri comandi. (Or saria l’occasione
Opportuna di fargli la raccomandazione.
Se donna Bianca il sa, ne avrà del dispiacere:
Ma ho data la parola; alfin son cavaliere.
Farò che non mi senta). Signor, se non sdegnate,
Vo’ chiedervi un favore. (tirandolo in disparte)
Marchese.   Sì, Conte, comandate, (piano)
Conte. Deggio raccomandarvi due vostri dipendenti,
Che son perseguitati per odio delle genti:

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A pro del commissario ho di parlarvi impegno, (piano)

Bianca. (Mostra curiosità di sentire.)
Marchese. Voi in favor mi parlate d’un commissario indegno?
(forte)
Conte. Dite piano. (guardando donna Bianca)
Bianca.   Ho capito. (s’alza e parte)
Conte.   (Ho cento furie intorno). (da sè)
Marchesa. (Di gelosia la pazza possa crepare un giorno). (da sè)
Marchese. L’altro chi è? De’ Martini? (al Conte)
Conte.   Sì signor, lo diceste.
Marchese. Non vi avreste impegnato, se voi li conosceste.
Uno della giustizia fe’ mercatura infame;
L’altro per ingannarmi unì sordide trame.
Non son frivole accuse, che li hanno a me dipinti,
Sono con prove certe colpevoli e convinti.
Venni per discacciarli, e ciò per essi è poco;
Avran la loro pena dovuta in altro loco.
Da cavaliere onesto, signor, quale voi siete,
So ben che dal servirvi in ciò mi scuserete.
In altro comandatemi, di me siete padrone;
Ma indegni son coloro di vostra protezione.
Conte. Scusatemi, signore, vi credo e più non parlo,
(Per chi m’era impegnato così senza pensarlo!
Ah, di rossor mi copre la vergognosa taccia
Di facile, d’incauto, a un cavaliere in faccia), (da sè)
Signor, non son contento, l’ardir di quei villani
Se tardo, se non tento punir colle mie mani.
A un cavalier mio pari formar simile inganno?
Chi sia il Conte dell’Isola quei perfidi non sanno.
Non è riuscito ancora ad uom di questo mondo,
Far sì ch’io non vedessi d’un’impostura il fondo.
Non son, grazie alla sorte, sì poco illuminato.
Questa volta, il confesso, sì, l’amor m’ha acciecato.
(Vo’ confessar piuttosto una mia debolezza,
Anzi che mi si creda mancar per stolidezza), (da sè, parte)

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SCENA IX.

La Marchesa Ippolita ed il Marchese Ferdinando.

Marchese. Non so da che provenga l’idea di quel furore,

Che l’anima a tal segno. (verso la Marchesa)
Marchesa. Vel dirò io, signore. (s’alza)
Egli è di sè medesimo sì poco innamorato,
Che freme, allor che dubita venir rimproverato.
Ma l’ambizion l’inganna; poichè, per far la scusa
D’una leggiera colpa, d’altra maggior si accusa.
Marchese. Spiacemi un tal incontro. Egli è smanioso, il veggio.
Marchesa. Lasciate ch’egli frema, che merita di peggio.
Marchese. Marchesa, chi d’un uomo parla con ciglio irato,
Fa credere che l’ami, o almen d’averlo amato.
Marchesa. Guardimi il ciel, che amassi tal che fede non ha.
Marchese. Non l’amaste, e vi è nota di lui l’infedeltà?
Marchesa. Lo so ch’è un incostante, che nell’amar si stanca,
Perchè di ciò le prove vedute ho in donna Bianca.
Marchese. Si amano questi due?
Marchesa.   Si amavano dapprima.
Ma il Conte di una donna non merita la stima.
Marchese. Marchesa, voi ed io facciamo a nostra gloria,
Unendoli di nuovo, un’opra meritoria.
Marchesa. Che prendasi tal cura da me non isperate.
Marchese. E questa renitenza vuol dir che voi l’amate.
Marchesa. Ah, mi fareste dire dei spropositi tanti.
Marchese. Son l’impazienze ancora fra i segni degli amanti.
Marchesa. Marchese, tai discorsi vi prego di lasciarli.
Marchese. Si tratta di piacervi? Di ciò più non si parli.
In ciò solo mi resta, io parlovi sincero.
Un po’ di vanità d’aver dato nel vero.
Marchesa. È lunga.
Marchese.   Ho già finito. Passiamo ad altro articolo.
Sapete voi, che sono le vedove in pericolo?

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Marchesa. Perchè?

Marchese.   Perchè, sentite. Favorite, sediamo.
Marchesa. Questa mi par curiosa. (sedendo)
Marchese.   Fra di noi discorriamo.
Già non abbiam che fare. Fino a doman non voglio
Degli interessi miei esaminar l’imbroglio.
Sentite, io vi diceva, cara Marchesa mia,
La vedova o sta sola, o vive in compagnia.
Se vuol star sola in casa, se vive ritirata,
A viver miserabile per sempre è condannata.
Se vuol godere il mondo con tutti i piacer suoi....
(Marchesa, non credeste.... io non parlo per voi),
Allora dalla gente si critica, si parla,
E la riputazione si stenta a riacquistarla.
Di voi non vi è chi possa ardir di pensar male;
Ho solo delle vedove parlato in generale.
Marchesa. Caro signor Marchese, non vi credea sì destro.
Che foste qua venuto per farmi da maestro.
Le vedove mie pari son vedove onorate.
Marchese. Io parlo in generale, e voi vi riscaldate.
Marchesa. Eh, che la frase vostra, caro signor, l’ho intesa;
So che coll’altre vedove io pur sono compresa.
Marchese. Non so che dir: dall’altre io almen vi ho separata;
Ma se sapete d’essere coll’altre incorporata,
Quel che di tante io dico, parlando qui fra noi,
Temete che dal mondo non dicasi di voi.
Marchesa. Siete venuto apposta per farmi delirare?
Marchese. A tutti gli ammalati son le pillole amare.
Marchesa. Sono stanca di udirvi.
Marchese.   Ma no, non vi sdegnate.
Perchè, cara Marchesa, non vi rimaritate?
Marchesa. Ho da rendere a voi conto de’ fatti miei?
Marchese. Vi offendo, se contenta vedervi io bramerei?
Marchesa. Il partito dov’è? Voi mi movete a sdegno.
Marchese. Sia ringraziato il cielo. Arriveremo al segno.

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I partiti non mancano a chi ha qual voi, signora,

Fresca età, vago volto, e ricca dote ancora.
Marchesa. Don Mauro si offerisce.
Marchese.   Egli non è per voi.
Marchesa. Anche il Conte, per dirla, aveva i grilli suoi.
Marchese. Ma un giovane incostante voi non lo prendereste.
Marchesa. Signore, in tal proposito che mi consigliereste?
Marchese. Confessatemi il vero, e vi consiglierò. L’amaste?
Marchesa. Sì, una volta.
Marchese.   L’amate più?
Marchesa.   Non so.
Marchese. Di voi dir non ardisco sia indegno il cavaliero,
Ma non ha degli impegni con donna Bianca?
Marchesa.   È vero.
Marchese. Per onestà, per legge, vano è dunque il pensarvi.
Ditemi apertamente: volete maritarvi?
Marchesa. Perchè no? Se la sorte mi offrisse un buon partito...
Marchese. Marchesa, state zitta, vi troverò il marito.
Marchesa. L’avereste già in mente?
Marchese.   Chi sa?
Marchesa.   Chi è?
Marchese.   Indovinatelo.
Marchesa. Non saprei indovinarlo.
Marchese.   Quand’è così... aspettatelo.
(s’alza)
Marchesa. Posso saper il nome?
Marchese.   Bella domanda è questa!
Marchesa. Il nome dello sposo non è domanda onesta?
Marchese. Parvi di già d’averlo.
Marchesa.   Io son così, signore.
Quieta non posso vivere, quand’ho una cosa in core.
Se l’indovino, il dite?
Marchese.   Nei libri del destino
Voi non avete letto.
Marchesa.   Che sì, che l’indovino?

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Marchese. Non è tanto difficile.

Marchesa.   Qualche cosa capisco.
Serva, signore sposo. (s’inchina, e parte)
Marchese.   Sposa... vi riverisco.
(s’inchina, e parte)

Fine dell’Atto Quarto.

Note