L'uomo di mondo/Atto II

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Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Camera in casa del Dottore Lombardi.

Eleonora ed il Dottore.

Dottore. Cara figliuola, vorrei pur vedervi contenta.

Eleonora. La mia sfortuna vuole che io non lo sia.

Dottore. Ho fatto e faccio per voi quello che ad un padre non converrebbe di fare. Non siete nè vecchia, nè difettosa, per grazia del cielo, nè senza una dote conveniente allo stato nostro. Parecchi partiti mi si sono offerti per voi, e pure sapendo quanto gradireste avere per isposo il signor Momolo, non ho riguardo io stesso a parlargliene il primo.

Eleonora. Conosco quanto ben mi volete. Così avesse egli una parte ben picciola del vostro amore per me. [p. 190 modifica]

Dottore. Ma non mi dite che vi ha dato qualche segno di benevoglienza1?

Eleonora. È vero; coll’occasione ch’egli veniva alla conversazione da noi...

Dottore. Ecco dove ho mancato io. Non doveva lasciar venire un giovinotto in casa. Ma n’ha la colpa Lucindo.

Eleonora. Il signor Momolo per altro non si può dire che non sia giovane assai civile e modesto.

Dottore. Ma pratica in certi luoghi, che non gli fan molto onore.

Eleonora. È la gioventù che glielo fa fare.

Dottore. Oh basta, vedo che ne sei innamorata; e se mi parerà che voglia assodarsi, e che veramente ti voglia bene... Eccolo appunto; l’ho mandato a chiamare ed è venuto immediatamente.

Eleonora. Se non mi volesse un poco di bene, non ci sarebbe venuto.

Dottore. Ritirati, e lasciami parlare con lui.

Eleonora. Obbedisco. (parte)

SCENA II.

Il Dottore e Momolo.

Dottore. Vorrei pur liberarmi dal peso di questa figliuola, per poter dar moglie a Lucindo e levarlo dalle male pratiche.

Momolo. Servitor umilissimo, sior Dottor mio patron.

Dottore. Servo del signor Momolo. Scusate, se vi ho incomodato.

Momolo. Patron sempre. Son qua a ricever i so comandi.

Dottore. Deggio farvi un’interrogazione per parte di un amico mio, che poi vi dirò chi egli sia. Ditemi in tutta confidenza, siete voi disposto a voler prender moglie?

Momolo. Mi maridarme? Dificilmente.

Dottore. Ma perchè mai? Siete solo, siete giovane, benestante, perchè ricusare2 un accasamento, che torni comodo alla vostra costituzione? [p. 191 modifica]

Momolo. Perchè el matrimonio me fa paura, e la più bella zoggia dell’omo xe la libertà.

Dottore. Se tutti dicessero così, finirebbe il mondo.

Momolo. Per mi l’intendo cussì; lasso popolar el mondo da chi ghe n’ha voggia.

Dottore. Non vi accomoderebbe una buona dote?

Momolo. Cossa serve la dota al dì d’ancuo? Se se riceve cento, se spende dusento; le mode xe arrivae all’eccesso, e a vestir una donna ghe vol un capital spaventoso.

Dottore. Non è necessario di seguitare il costume degli altri; ogni uno fa come vuole, e quando aveste una moglie discreta...

Momolo. Trovarla una muggier discreta. E pò el galantomo bisogna che el la fazza comparir da par soo. Ma questo fursi nol xe el mazor incomodo, che daga la mugier al mario. El ponto prencipal consiste, che co se xe maridai, s’ha perso la so libertà. La muggier, per ordinario, vol saver tutto; bisogna renderghe conto dei passi che se fa, de le parole che se dise; bisogna torse la suggizion de compagnarle, o remetterse alla discrezion de chi le compagna; e po cento altre cosse, onde digo che se sta meggio cussì.

Dottore. Non occorr’altro; compatitemi, se vi ho incomodato.

Momolo. Gnente, sior Dottor; la m’ha fatto grazia. Ma za che son qua, me permettela che reverissa siora Leonora?

Dottore. Perchè no? Siete stato in casa mia tante volte, non vi ho mai impedito di farlo. Aspettate, che ora l’avviserò.

Momolo. La me farà grazia.

Dottore. Vi riverisco. (Il giovane non parla poi tanto male. Ho piacere che Eleonora senta da se medesima, e si disinganni. Ascolterà, io spero, qualche altra proposizione). (parte)

SCENA III.

Momolo, poi Eleonora.

Momolo. Ho capio el zergo. Sior Dottor me vorave puzar sta so putta, e per questo el me va persuadendo de maridarme. Certo [p. 192 modifica] che se avesse da far la tombolaa, la faria più tosto con questa che con un’altra, ma per adesso no me voggio ligar.

Eleonora. Bene obbligata, signor Momolo, della finezza.

Momolo. El xe mio debito, patrona. Me parerà ve de mancar al mio dover, se capitando da so sior padre, no cercasse de reverirla.

Eleonora. Per altro, se non era per venir da mio padre, io non potea sperare di rivedervi.

Momolo. Basta un so comando per farme vegnir de zorno, de notte, e da tutte le ore.

Eleonora. Eh, so che voi non perdete il vostro tempo sì male.

Momolo. Anzi l’impiegherave benissimo, se me fosse lecito de incomodarla più spesso.

Eleonora. E ch’è3, che v’impedisca di favorirmi?

Momolo. La vede ben, so sior padre so che el me vede volentiera, ma se mi abusasse della so bona grazia, el se poderia insospettir.

Eleonora. Mio padre anzi non fa che parlar di voi; vi vorrebbe sempre con lui, con me, padrone di questa casa.

Momolo. Se credesse sta cossa, me saveria profittar.

Eleonora. Quand’io ve la dico, la potete credere.

Momolo. Donca, siora Eleonora, se la me permette, vegnirò la sera a star con ela un per de ore almanco.

Eleonora. Due ore sole?

Momolo. Anca più, se la vol.

Eleonora. E non istareste meco per sempre?

Momolo. Sto sempre me dà un pochettin da pensar.

Eleonora. Deggio confessare, che voi avete molto più giudizio di me. Dove si è inteso mai, che una figlia civile parlasse con sì poca prudenza, com’io vi parlo? Non vi formalizzate per questo. Compatite in me la passione che mi fa parlare.

Momolo. Adesso mo la me fa vegnir rosso, da galantomo.

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Eleonora. Fate bene a scherzare; io me lo merito; priegovi solamente aver carità di me, e non dire a nessuno la mia debolezza.

Momolo. Cossa disela? La me offende a parlar cussì. Son un galantomo.

Eleonora. Se non avessi stima di voi, non mostrerei premura d’avervi meco.

Momolo. Stupisso che la gh’abbia tanta bontà per mi, che so certo de no meritarla.

Eleonora. Ora voglio parlarvi con vera sincerità. Il vostro merito non lo conoscete, e gli fate poca giustizia.

Momolo. La vol dir che fazzo una vita un poco troppo barona.

Eleonora. Non dico questo; ma certamente sareste in grado di fare una molto miglior figura.

Momolo. Cossa vorla far? Son ancora zovene.

Eleonora. Se perdete sì male i giorni della gioventù, che sperate voi da quelli della vecchiaia?

Momolo. La dise ben veramente; sarave ora che tendesse al sodo, ma gnancora no posso.

Eleonora. Non potete? Avete mai provato?

Momolo. Per dir el vero, no ho mai provà.

Eleonora. Come dunque a dir vi avanzate di non potere, se non avete cambiato? Provate, signor Momolo, e so che avete tanto cuore e tanto talento da regolar da voi stesso il vostro modo di vivere.

Momolo. Come hoggio da far a principiar? La me insegna ela.

Eleonora. Io sono in grado da apprendere, non da insegnare.

Momolo. E pur, sotto una maestra de sta sorte, chi sa che no fasse profìtto?

Eleonora. Voglio insegnarvi una cosa sola.

Momolo. Via mo, la diga.

Eleonora. Fate capitale di chi vi ama sinceramente.

Momolo. La lizion xe ottima, ma chi possio sperar che me voggia ben, con sta sincerità che la dise?

Eleonora. Quelle persone, che vi amano senza interesse. [p. 194 modifica]

Momolo. Al dì d’ancuo se ghe ne stenta a trovar.

Eleonora. Mi credete voi interessata?

Momolo. Ela? me vorla ben?

Eleonora. Basta così. Conosco di essermi un poco troppo avanzata. Compatitemi, e se siete in grado di credermi, non siate ingrato.

Momolo. Cercherò la maniera....

Eleonora. Con licenza, sono chiamata.

Momolo. La me lassa cussì sul più bello?

Eleonora. All’onore4 di riverirvi. (parte)

SCENA IV.

Momolo solo.

Momolo. Momolo, saldi in gambe. No far che l’amor o che la compassion te minchiona. Varda ben, che la libertà no ghe xe oro che la possa pagar. Siora Eleonora la xe una putta de merito. La parla ben5, la pensa ben, la dise che la me vol ben, ma per tenderghe a ela, no voggio perderme mi. Co se se voi maridar, bisogna resolverse de cambiar vita, e mi ancora me sento in gringolab, e no me sento in caso de principiar. (parte)

SCENA V.

Strada.

Ottavio, poi Momolo.

Ottavio. Ci va del mio decoro, se cedo così vilmente le mie pretensioni. Momolo è un uomo, come son io, e son capace di farlo stare a dovere. Codesti bravacci si danno dell’aria di superiorità, quando credono trovar del tenero, ma se si mostra loro i denti, cangiano con facilità. Se lo trovo, se mi provoca, [p. 195 modifica] se mi ci metto... Eccolo per l’appunto. Mi mette, per dir vero, in un po’ d’apprensione, ma vo’ mostrare di aver più coraggio di quello che internamente mi sento.

Momolo. (Velo qua per diana. Nol xe contento, se no lo fazzo spuar un poco de sangue). (da sè) Sior Ottavio, la reverisso.

Ottavio. Padrone mio riverito.

Momolo. Gran facende che la gh’ha da ste bande!

Ottavio. Questa è una cosa, che a voi non deve premere nè punto, nè poco.

Momolo. Veramente, se ho da dir el vero, no me n’importa un bezzo. Basta che stè lontan dalla casa de siora Eleonora, per el resto no v’ho gnanca in mente.

Ottavio. Ci comandate voi in casa della signora Eleonora?

Momolo. In casa no ghe comando. Ma vu no voggio che gh’andè.

Ottavio. Questo voglio impiegatelo con chi dipende da voi: non con i galantuomini della mia sorte.

Momolo. Sior galantomo caro, la se contenta de andar cento passi alla larga.

Ottavio. A me?

Momolo. A ela, patron.

Ottavio. Non vi bado, non so chi siate.

Momolo. No savè chi son? Vel dirò mi chi son. Son uno, che se non anderè lontan da sti contomi, ve darà tante sberlec, che ve farà saltar i denti fora de bocca.

Ottavio. A me?

Momolo. A vu.

Ottavio. Eh, giuro al Cielo. (mette mano alla spada)

Momolo. Via, sior canapiolod. (mette mano ad un legno, che tiene attaccato alla cìntola sotto al ferraiuolo)

Ottavio. Se non avete la spada...

Momolo. Co i omeni della vostra sorte questa xe la spada che dopero. Vegnì avanti, se ve basta l’anemo.

Ottavio. Sarebbe una viltà, ch’io addrizzassi la spada contro un’arma sì disuguale. [p. 196 modifica]

Momolo. Ve farò veder mi, come che se fa. (l’incalza)

Ottavio. Bene, bene, vi tratterò come meritate. (ritirandosi)

Momolo. Ve la scavezzerò quella spada. (incalzandolo)

Ottavio. Troverò la maniera di vendicarmi. (parte)

SCENA VI.

Momolo, poi Ludro.

Momolo. Me vien da rider de sti spadacini! i porta la spada, e no i la sa doperar. Tanti e tanti va in spada, perchè no i gh’ha bezzi da comprarse un tabaro. Sentili a parlar, i xe tanti Covielli; metteli alla prova, i xe tanti paggiazzi. I crede che in sto paese no se sappia manizar la spada; ma mi darò scuola a quanti che i xe. Insolenze no ghe ne fazzo, ma no voggio che nissun me zappa sui pie. Cortesan, ma onorato. Me despiase, che son de botto al sutto de bezzie; bisognerà trovarghene. Za se spendo, spendo del mio; no son de quelli che fazza star.

Ludro. Schiavo, sior Momolo.

Momolo. Schiavo, compare Ludro.

Ludro. Me despiase a darve una cattiva nova.

Momolo. Coss’è sta?

Ludro. Me despiase averve da dir che la piezaria, che m’ave fatto per quel foresto, toccherà a vu a pagarla.

Momolo. Son galantomo: la parola, che v’ho dà, ve la mantegnirò. Se nol pagherà elo, pagherò mi.

Ludro. E pò qualchedun v’averà da reffar.

Momolo. Chi voleu che me reffa?

Ludro. Oh bella! no se salo? La forestiera.

Momolo. Ti xe un gran baron, Ludro.

Ludro. Tra nu altri se cognossemo.

Momolo. Sastu cossa che gh’è da niovo? [p. 197 modifica]

Ludro. Cossa?

Momolo. Son senza bezzi.

Ludro. Mal. Come me dareu i mi trenta zecchini?

Momolo. Questi xe el manco. Me despiase che gh’ho do impegni, da do bande: con quei foresti; e con una zovene, che la voggio far ballarina.

Ludro. E senza bezzi l’orbo no canta.

Momolo. Te basta l’anemo de trovarme mille ducati?

Ludro. Perchè no? Su cossa voleu che li trova?

Momolo. Son un galantomo. Gh’ho dei capitali; no so bon per mile ducati?

Ludro. Li voressi sul fià.f

Momolo. A uso de piazza, per un anno; farò una cambial, se occorre.

Ludro. Me inzegnerò de trovarli.

Momolo. Ve darò el vostro sbruffog.

Ludro. Me maraveggio; co i amici lo fazzo senza interesse. Me basta che me de i trenta zecchini della piezaria.

Momolo. Siben, e li darò.

Ludro. Vado subito a trovar un amigo.

Momolo. Ma che no ghe sia brovah.

Ludro. Lasse far a mi. (Sta volta ghe dago una magnada co i fiocchi). (da sè)

SCENA VII.

Momolo, poi Brighella.


Momolo. Fin che son zovene, me la voggio goder. Da qua un per de anni, fursi fursi me mariderò. E co me mando, butto da banda la cortesanaria, e scomenzo a laorar sul sodo.

Brighella. Sior Momolo, cossa vol dir che no l’avemo più visto? Quella signora m’ha domandà de elo tre o quattro volte. [p. 198 modifica]

Momolo. Se savessi: gh’ho tanti intrighi; bisogneria che me podesse spartir in tre o quattro bande. Diseghe, se i se contenta, che vegnirò a disnar con lori.

Brighella. Senz’altro. I l’aspetterà volentiera.

Momolo. Se vederemo donca.

Brighella. Vorla che parecchia per conto suo?

Momolo. S’intende, pagherò mi.

Brighella. Come m’hoggio da contegnir?

Momolo. Ve dirò: no i me par persone de gran suggizion, e mi me regolo segondo le occasion. I mi bezzi li voggio spender ben, goderli, senza buttarli via. Feme un disnaretto in piccolo. Femoli magnar alla cortesana, che fursi ghe piaserà: cento risii colla meolaj de manzo, e la so luganegak a tomo via. Un pezzo de carne de manzo, e comprela su la Riva dei Schiaonil, che la pagherè diese soldi alla lira; ma sora tutto andè colla vostra stalieram, e pesela vu, che no i ve minchiona. Compre una polastra de meza vigognan, e no passe el tierzo del nonantao. Se trovessi un per de foleghep da spender ben una pittonaq, tiolele. Comprè un daottor de sala coli’aggio, e un tràiros de persutto. Una lira de pomi da riosa, quattro fenocchi, e tre onzette de piasentint. Ve manderò mi una canevetta de vin de casa. E per el pan, magneremo del vostro. Ve darò qualcossa per el fogo; la camera la paga un tanto al zomo i foresti: onde co dago un da vintiu al camerier, andaremo ben. Cossa diseu, compare?

Brighella. Sior Momolo, se deventà un gran economo.

Momolo. Amigo, secondo el vento se navega. Co ghe n’è, no se varda; co no ghe n’è, la se sticcav. Porteve ben; savè che son galantomo; ve refferò in altri incontri. [p. 199 modifica]

Brighella. Sè patron de tutto, e se ve occorre de più, comandè; spenderò mi.

Momolo. No, amigo; ve ringrazio. No fazzo debiti. In te le occasion me regolo co la scarsela.

Brighella. Bravo. Cussì fa i galantomeni. E nu altri avemo più gusto de guadagnar poco, e esser pagadi subito, in vece de guadagnar assae, e suspirar i bezzi dei mesi. Vago a avisar i foresti, vago a spender, e a mezo di sarà pronto. (parte)

SCENA VIII.

Momolo, poi Truffaldino.

Momolo. Pur troppo ghe xe tanti de quelli che ordena e no paga mai. In sta maniera i se fa nasarw, e i paga la roba el doppio. Mi xe vero che in fin de l’anno spendo assae, ma m’impegno che tanto me val cento ducati a mi, quanto a un altro cento zecchini.

Truffaldino. Lustrissimo.

Momolo. Schiavo, compare Truffax.

Truffaldino. Mia sorella l’aspetta.

Momolo. Vago adess’adessoy a trovarla.

Truffaldino. Ela la verità, che voli che la fazza la ballarina?

Momolo. Certo; la voggio metter all’onor del mondo.

Truffaldino. Anderala colla scuffia?

Momolo. Sior sì, scuffia, cerchi, andrien sciolto, mantelina e cornettaz.

Truffaldino. Co l’è cussì, bisognerà, lustrissimo sior protettor, che la pensa al fradelo della ballarina.

Momolo. Certo che no avè d’andar vestio cussì malamente.

Truffaldino. Poderoggio portar la spada?

Momolo. Siguro. [p. 200 modifica]

Truffaldino. La diga, lustrissimo sior protettor, poderoggio metterme la perrucca co i groppi?

Momolo. No voleu? El fradelo d’una ballarina!

Truffaldino. Me darali del sior?

Momolo. E come! podere andar anca vu in te le botteghe da caffè a parlar de le novità, a dir mal del prossimo, a taggiar dei teatri, a zogar alle carte, a far el generoso alle spalle de vostra sorella, a far la vita de Michielazzo: come fa i pari e i fradeli delle ballarine, delle virtuose e de tutte quelle povere grame, che se sfadiga in teatro per mantegnir i vizi de tanti e tanti, che no gh’ha voggia de sfadigar.

Truffaldino. Bisognerà mo che andemo a star in qualch’altro paese.

Momolo. Per cossa?

Truffaldino. No voria, con tutta la spada al fianco e con tutta la perrucca a groppi, che i me disesse che ho fatto el facchin.

Momolo. Cossa importa? lassè che i diga. De un’occhiada intorno a tanti altri pari o fradeli de virtuose. Vederè tanti e tanti dorai e inarzentai, e cossa giereli? Servitori, staffieri, garzoni de bottega o6 cosse simili. Se dise: no me dir quel che giera, dime quel che son. No passa un mese, che ve desmenteghè anca vu d’aver fatto el facchin, e ve parerà de esser qualcossa de bon.

Truffaldino. Bisognerà che gh’abbia anca mi la mia intrada.

Momolo. Certo: fondada su le possession de vostra sorella.

Truffaldino. No poderave anca mi far qualcossa in teatro?

Momolo. Vu no avè da far gnente. I fradeli delle ballarine no i fa gnente. Vu v’avè da levar tardi la mattina, bever la vostra chioccolata, vestirve e andar a spassizar in Piazza, o a sentarve in t’una bottega. Andarè a casa a tola parecchiada, e se ghe xe protettori, magnar e bever senza veder, e senza sentir. Tutto el vostro dafar ha da consister in questo: la sera in teatro, in udienza, a sbatter le man co balla vostra sorella. Forti, allegramente, e viva monsù Truffaldin. (parte) [p. 201 modifica]

SCENA IX.

Truffaldino, poi il Dottore.

Truffaldino. Quanto tempo che l’è, che vado studiando la maniera de viver senza far gnente. L’ho pur trovada.

Dottore. Galantuomo.

Truffaldino. Signor.

Dottore. Volete venire a portare un sacco di farina?

Truffaldino. A mi portar farina? Saviu chi son mi?

Dottore. Non siete voi un facchino?

Truffaldino. Ve ne mentì per la gola. Son un tocco de fradelo de una ballarina. E a mi se me porta respetto, e feme grazia, sior Dottor, de dir a sior Lucindo vostro fiol, che in casa mia noi staga mai più a vegnir, che no l’ardissa de far l’amor con Smeraldina mia sorella, ne de dir de volerla sposar, perchè una ballarina no se degna de un spiantà de la so sorte, e chi vol vegnir in casa nostra, le vol esser doppie e zecchini. (parte)

SCENA X.

Il Dottore solo, poi Silvio e Brighella.

Dottore. Amico, amico, sentite... Come! mio figlio va in casa di sua sorella? L’amoreggia? Parla di sposarla? A tempo costui mi ha avvertito. Ci troverò rimedio. Povero disgraziato! in casa di una ballarina? Starebbe fresco; non basta un anno quello che io ho guadagnato in dieci.

Brighella. Eccolo là, quello l’è el sior Dottor, che la cerca. (a Silvio)

Silvio. Vi ringrazio; non occorre altro. (a Brighella)

Brighella. Servitor umilissimo. Vado a parecchiar el disnar. (parte)

Dottore. Come si precipita la gioventù! Ma sarà mio pensiere...

Silvio. Servitor, mio signore. (al Dottore)

Dottore. Servitor umilissimo.

Silvio. Favorisca vedere, se questa lettera viene a lei. (dandogli una lettera) [p. 202 modifica]

Dottore. Per appunto. Viene a me. Permetta che io veda, (apre e legge) Ella dunque è il signor Silvio Aretusi romano?

Silvio. Per obbedirla.

Dottore. E la sua signora dov’è?

Silvio. Nella locanda, ove siamo alloggiati, da messer Brighella.

Dottore. L’amico mi raccomanda lor signori, ed io li prego venir in casa mia, ove staranno un po’ meglio forse di quel che stiano nella locanda.

Silvio. Signore, io non intendo d’incomodarvi.

Dottore. Assolutamente V. S. mi ha da far questo piacere.

Silvio. Per oggi almeno abbiamo gente a desinare con noi.

Dottore. Bene, dunque verrò con Eleonora mia figlia e vostra serva a far una visita alla signora vostra, e questa sera favorirete da noi.

Silvio. Troppo gentile, signore. Verrò io a fare il mio dovere colla signora vostra figliuola.

Dottore. Se volete passare, siete padrone.

Silvio. Verrò a conoscere una mia padrona. (partono)

SCENA XI.

Camera di Smeraldina.

Smeraldina e Lucindo.

Smeraldina. Caro Lucindo, abbiè un poco de pazienza. Se parlo con Momolo, lo fazzo per interesse, ma el mio cuor el xe tutto per vu.

Lucindo. Questa cosa mi fa morire di gelosia.

Smeraldina. Se fussi in stato de sposarme, lo lasserave subito, ma no podè per adesso, per amor del vostro padre, e mi no so come far a viver. Sior Momolo m’ha promesso che el me vol far insegnar a ballar, e el vol che fazza la balarina.

Lucindo. Tanto peggio...

Smeraldina. Tanto meggio, che sarò in stato de vadagnar, e quando no gh’averò più bisogno de Momolo, lo licenzierò de casa. [p. 203 modifica]

Lucindo. Non potrete farlo. S’egli vi aiuta per farvi cambiare stato, sarà sempre padrone di casa vostra.

Smeraldina. Giusto! figureve! Lassè pur che el fazza e che el spenda, troverò ben mi la maniera de liberarme.

Lucindo. Non vorrei trovarmi io in un impegno...

Smeraldina. I batte. Lassè che vaga a veder. (va, poi torna)

Lucindo. Per altro non so lodare in Smeraldina l’ingratitudine, che mostra verso di quel galantuomo...

Smeraldina. Presto, scondeve, che xe qua Momolo.

Lucindo. Eccomi in un altro imbarazzo.

Smeraldina. Scondeve e no abbiè paura.

Lucindo. Il cielo me la mandi buona, (si ritira in un’altra stanza)

Smeraldina. Se arrivo a ballar, so ben che voggio far anca mi la mia maledetta figura.

SCENA XII.

Momolo e detti.

Momolo. Son qua, fia mia.

Smeraldina. Caro Momolo, ve fè molto aspettar. Savè pur, che no gh’ho altra compagnia che la vostra, e senza de vu no posso star un momento.

Momolo. S’halo più visto sior Lucindo?

Smeraldina. Oh nol ghe vien più in casa mia, no ghe xe pericolo.

Momolo. Se el ghe vien, se lo so, se lo trovo, lo taggio in quarti co fa un polastro.

Smeraldina. Fideve de mi, ve digo. Savè che ve voggio ben; me maraveggio gnanca, che disè ste cosse.

Momolo. No parlemo altro. Sappiè, fia mia, che ho trovà el maestro. El vegnirà ogni zorno a insegnarve, e el se impegna in tre o quattro mesi metterve in stato de ballar in teatro, e no miga solamente a figurar, ma el se impegna de farve far anca un padedù. [p. 204 modifica]

Smeraldina. Un padedù! Cossa xelo sto padedù?

Momolo. Un ballo figurà col compagno, con tutti i so passi che ghe vol, e col so bel pantomimo.

Smeraldina. E el pantomimo cossa vorlo dir?

Momolo. Le azion mute che se fa in tela introduzion del ballo, e anca in tei ballo istesso; cosse concertae tra l’omo e la donna, che za, per el più, da l’udienza no se capisse una maledetta.

Smeraldina. E mi mo le saveroggio far?

Momolo. No ve indubitè gnente. Tra el ballarin e mi ve insegneremo pulito; e co avè impara un per de padedù, ghe ne podere far cento, che za i xe tutti compagni. Per esempio, vegnirè fora colla rocca filando, o con un secchio a trar dell’acqua, o con una vanga a zappar. El vostro compagno vegnirà fora, o colla cariola a portar qualcossa, o colla falce a taggiar el gran, o colla pippa a fumar, e siben che la scena fusse una sala, tanto e tanto se vien fora a far da contadini o da marineri. El vostro compagno no ve vederà: vu anderè a cercarlo, e lu ve scazzerà via. Ghe battere una man su la spalla, e lu con un salto l’anderà da l’altra banda. Vu ghe corerè drio: lu el scamperà, e vu anderè in colera. Quando che vu sarè in colera, a lu ghe vegnirà voggia de far pase, el ve pregherà, vu lo scazzerè; scamperè via, e lu ve corerà drio. El se inzenocchierà, fare pase: vu, menando i penini, l'inviderè a baiar; anca elo, menando i pie, el dirà balemo, e tirandove indrio allegramente scomenzerè el padedù. La prima parte alegra, la segonda grave, la terza una giga. Procurerè de cazzarghe drento sie o sette delle meggio arie da ballo, che s’abbia sentio; farè tutti i passi, che savè far, e che sia el padedù o da paesana, o da zardiniera, o da granatiera, o da statua, i passi sarà sempre i medesimi, le azion sarà sempre le istesse: correrse drio, scampar, pianzer, andar in colera, far pase, zirar i brazzi sora la testa, saltar in tempo e fora de tempo, menar i brazzi e le gambe e la testa e la vita e le spalle, e sora tutto rider sempre col popolo, e storzer un pochetto el collo co se passa arente i lumini, e far delle belle smorfie all’udienza, e una bella [p. 205 modifica] riverenza in ultima, e imparar ben tutte ste cosse a memoria, e farle con spirito e con franchezza; i cria brava, i sbatte le man, e dopo el primo anno, prima figura, dusento doppie, e i sonetti co i colombini.

Smeraldina. Sior Momolo, basta cussì, ho inteso tutto; m’impegno, che vedere se la vostra lezion la farò pulito. In verità dasseno, me par de esser ballarina a st’ora; andarave stassera in teatro.

Momolo. Vedeu? Sto coraggio, sta prontezza, sto ardir xe quello che fa più de tutto. Cossa importa se no se sa gnanca el nome dei passi? Spirito ghe vol e bona grazia, e se se fala, tirar de longo. Intanto, per un principio de bon augurio, tolè sto aneletto, che ve lo dono.

Smeraldina. Oh co bello! grazie, sior Momoletto.

SCENA XIII.

Truffaldino con un uomo, che porta varii vestiti, e detti.


Truffaldino. Lustrissimo sior protettor, giusto de eia cercava.

Momolo. Son qua, monsù Truffaldin.

Truffaldino. Songio monsù?

Momolo. No se salo? Al fradelo de madama Smeraldina se gh’ha da dir monsù Truffaldin.

Truffaldino. Vardè mo qua sto galantomo.

Smeraldina. Chi xelo quell’omo?

Truffaldino. Ho fatto portar dei abiti da vestirme da monsù.

Smeraldina. E chi pagherà?

Truffaldino. El protettor.

Momolo. El gh’ha rason. Chi protegge una vertuosa, xe in obbligo de vestir tutta la fameggia.

Truffaldino. Proveme un abito da monsù. Ma aspettè che me vaga a lavar le man, che sarà un anno che no me le ho lavade. (vuol andare dov’è Lucindo)

Smeraldina. Eh n’importa, caro vu; ve le laverè.

Truffaldino. Eh, che so la creanza. (come sopra) [p. 206 modifica]

Smeraldina. Sior no...

Truffaldino. Siora sì. (va nella stanza suddetta)

Smeraldina. (Oh poveretta mi!) (da sè)

Momolo. Coss’è, siora, che vegnì verde? Gh’aveu qualche contrabando là drento?

Smeraldina. Me maraveggio dei fatti vostri. Cossa songio? Una poco de bon?

Truffaldino. La favorissa, patron. (uscendo dalla stanza suddetta, parla con Lucindo)

Smeraldina. Con chi parleu? (a Truffaldino)

Truffaldino. La resta servida. No la staga là drento solo; la vegna co i altri in conversazion.

Momolo. Come! Sior Lucindo? A mi sto tradimento?

Lucindo. (Esce timoroso, e saluta Momolo).

Smeraldina. Qua, sior Lucindo? Sconto in casa mia, senza che mi sappia gnente? Che baronada xe questa? Farme comparir in fazza de sto galantomo per una busiara? Andè via subito de sta casa, e no abbiè ardir de vegnirghe mai più. Animo digo; con chi parlio? O andè via, o che ve butto zo della scala. (lo spinge via, e spingendo gli dice piano): (Va via, caro, e torna sta sera).

Truffaldino. Animo, fora de sta casa onorata.

Lucindo. (Senza parlare saluta, e se ne va).

Momolo. (Me la vorli pettar?) (da sè)

Smeraldina. Sior Momolo, no credo mai che pensè... che mi sappia... Proprio sento che me vien da pianzer. (piange)

Momolo. Brava, adesso digo che deventerè una ballarina perfetta. Capisso tutto; so benissimo che savevi che l’amigo ghe giera, ma la maniera co la qual l’avè manda via me fa cognosser che de mi gh’avè, se non amor, almanco un poco de suggizion. Questo xe quel che me basta; da vu altre no se pol sperar gnente de più, e un cortesan de la mia sorte cognosse fin dove el se pol comprometter. Dipenderà da vu el più e el manco, che m’averò da impegnar a farve del ben. Regoleve in causa. Stassera ve manderò el ballarin.

Truffaldino. L’abito, lustrissimo sior protettor. [p. 207 modifica]

Momolo. Deghe un abito da spender tre o quattro zecchini, e po vegnì da mi, che ve pagherò. (all’uomo ecc.)

Truffaldino. Vegnì via, vegnì a servir el fradelo della ballarina. (all'uomo, e parte con esso lui)

Smeraldina. Andeu via?

Momolo. Vago via.

Smeraldina. Tomereu?

Momolo. Tornerò.

Smeraldina. Me voleu ben?

Momolo. Eh, galiotta, te cognosso. (parte)

Smeraldina. El dise che el me cognosse, ma noi xe a segno gnancora. Poveretto! nu altre donne ghe ne savemo una carta de più del diavolo. (parte)

SCENA XI V.

Camera nella locanda.

Beatrice. Silvio, Eleonora, il Dottore.

Silvio. Consorte, ecco qui il signor Dottore colla sua signora figliuola, che hanno voluto prendersi l’incomodo di favorirvi.

Beatrice. Questo è un onore, che io non merito.

Eleonora. Riconosco per mia fortuna il vantaggio di conoscere una persona di tanto merito.

Dottore. Siamo qui ad esibire all’uno e all’altra7 la nostra umilissima servitù.

Beatrice. Troppa bontà, troppa gentilezza. Favoriscano di accomodarsi.

Dottore. Non vogliamo recarvi incomodo.

Beatrice. Un momento almen per cortesia. (tutti siedono)

Eleonora. Mi fa sperare mio padre che la signora verrà a stare con noi.

Beatrice. Sarebbe troppo grande il disturbo. [p. 208 modifica]

Dottore. Senz’altro, ci hanno da favorire.

Silvio. Così è, signora Beatrice, egli mi ha obbligato ad accettar le sue grazie.

Beatrice. È una fortuna ben grande ch’io possa godere una sì amabile compagnia. (verso Eleonora)

Eleonora. Avrete occasione di compatirmi.

Dottore. Voleva io che favorissero a pranzo, ma dice il signor Silvio che hanno gente a disnar8 con loro.

Beatrice. Sì, certo. Aspettiamo un signore.

Eleonora. Non potrebbe venir con loro?

Dottore. È forastiere quegli che aspettano?

Silvio. Non signore, è veneziano.

Eleonora. Tanto meglio.

Beatrice. Eccolo per l’appunto.

SCENA XV.

Momolo e detti.

Momolo. Animo, putti. Mette su i risi. (entrando parlano verso la scena)

Eleonora. (Cieli! qui Momolo?) (da sè)

Momolo. Patroni. Le compatissa... Cossa vedio? Sior Dottor? Siora Leonora?

Beatrice. Li conoscete dunque.

Momolo. Se li cognosso? e come! Sior Dottor xe el più caro amigo che gh’abbia, e siora Leonora xe una patrona, che venero e che rispetto. (con tenerezza)

Eleonora. Il signor Momolo si prende spasso di me.

Beatrice. (Alle parole e ai gesti parmi che fra di loro vi sieno degli amoretti. Mi dispiace un simile incontro). (da sè)

Silvio. Ho piacere, che siensi ritrovate insieme da noi persone che si conoscono e sono in buona amicizia. Il signor Dottore e la signora Eleonora possono favorire di restar a pranzo con noi. Che dice il signor Momolo? [p. 209 modifica]

Momolo. Magari! Son contentissimo. Adesso subito, con so licenza. (vuol partire)

Beatrice. Dove andate, signore?

Momolo. La vede ben, un disnaretto parecchià per tre, no pol bastar per cinque. Vederemo de repiegar.

Eleonora. (Il signor Momolo, a quel ch’io sento, è il provveditore), (da sè)

Silvio. Non vi prendete pena per questo. Parlerò io con il locandiere.

Dottore. Facciamo così, signori. Il pranzo da noi sarà bello e lesto. La casa nostra è pochi passi lontana. Andiamo tutti a mangiare quel poco, che ci darà la nostra cucina.

Silvio. Che dice il signor Momolo?

Momolo. Cossa dise siora Leonora?

Eleonora. Io non c’entro, signore. (sostenuta)

Dottore. Via, risolviamo, che l’ora è tarda.

Beatrice. Dispensateci, signore, per questa mattina. (Capisco che questa giovane è innamorata). (da sè)

Eleonora. (La mia compagnia le dà soggezione). (da sè)

Dottore. Signor Silvio, vedete voi di persuaderla.

Silvio. Via, non ricusiamo le grazie di questo signore, giacchè il signor Momolo viene con esso noi.

Eleonora. (Anche al marito preme la compagnia, che non dispiace alla moglie). (da sè)

Beatrice. Ora non ho volontà di vestirmi.

Dottore. Se stiamo qui dirimpetto!

Silvio. Possiamo andare, come ci ritroviamo.

Beatrice. Conviene unire le robe nostre.

Dottore. Si chiude la stanza, e si portan via le chiavi.

Eleonora. (Ci viene mal volentieri; lo conosco). (da sè)

Momolo. Via, siora Beatrice, da brava. Andemo in casa de sior Dottor, che staremo meggio. Cossa disela, siora Leonora?

Eleonora. Siete curioso davvero. Se dipendesse da me!...

Momolo. Se dipendesse da ela, son certo che la dirave, andemo.

Beatrice. All’incontrario: io credo ch’ella andrebbe senza di noi.

Eleonora. Perchè credete questo, signora? [p. 210 modifica]

Beatrice. Perchè mi pare che la nostra compagnia non abbia la fortuna di soddisfarvi.

Eleonora. Dite piuttosto che a voi piace meglio la picciola conversazione.

Silvio. Orsù, se la cosa si mette in cerimonia o in puntiglio, la conversazione è finita. Signor Dottore, accettiamo le vostre cortesi esibizioni. Consorte, senz’altre repliche, andiamo.

Dottore. Bravo, così mi piace.

Beatrice. (Prevedo qualche sconcerto). (da sè)

Momolo. (Son un pochetto intrigà, ma me caverò fora), (da sè)

Silvio. Permetta la signora Eleonora che io abbia l’onor di servirla. (le offre la mano)

Eleonora. Riceverò le sue grazie. Via, signor Momolo, serva la signora Beatrice.

Momolo. Vorla ela, sior Dottor?

Dottore. Oh, io non sono al caso. Tocca a voi.

Beatrice. La strada è breve; non ho bisogno che nessuno per me s’incomodi. (parte)

Eleonora. (Che affettazione! Tanto peggio mi fan pensare). (parte con Silvio)

Dottore. Via, non lasciate andar sola quella signora. (a Momolo)

Momolo. Se no la vol... (Stago fresco da galantomo). (da sè, indi parte)

Dottore. Parmi, ch’egli abbia un poco di soggezione per Eleonora. Se fosse vero! chi sa? (parte)

SCENA XVI.

Strada colla casa del Dottore, e colla locanda.

Ottavio, Beccaferro, Tagliacarne.

Ottavio. Amici, il signor Momolo è colà dentro in quella locanda. Aspettate ch’egli esca, e quando è escito, bastonatelo bene. Sarò poco lontano, e tosto che averete fatto il vostro dovere, ecco i quattro zecchini; sono qui preparati per voi. Vien gente: mi ritiro per non esser veduto. (parte) [p. 211 modifica]

Beccaferro. Mi dispiace aver che fare con Momolo.

Tagliacarne. Anch’io ne ho dispiacere, ma due zecchini per uno...

Beccaferro. Ritiriamoci; stiamo a vedere.

Tagliacarne. Conviene operar con giudizio. (si ritirano)

SCENA XVII.

Silvio dando braccio ad Eleonora.

Momolo dando braccio a Beatrice. Il Dottore.

Dottore. La porta è aperta, favoriscano di passare.

Silvio. Andiamo dunque.

Eleonora. Passi prima la signora Beatrice.

Momolo. Se sior Dottor me permette, gh’ho una bottiglia de vin de Cipro vecchio da quattr’anni; voria che se la bevessimo sta mattina.

Dottore. Bene; la beveremo.

Momolo. Se la me dà licenza, la vago a tior. (a Beatrice)

Beatrice. Oh sì, signore, andate. Già ve l'ho detto, so andar da me; non ho bisogno di braccio, (con un poco di sprezzatura, ed entra)

Eleonora. (Le belle caricature!). (da sè, ed entra con Silvio)

Dottore. Fate presto. Non vi fate aspettare. (a Momolo, ed entra)

Momolo. Vegno subito.

SCENA XVIII.

Momolo, Beccaferro, Tagliacarne.

Momolo. Mi no me par de esser inamorà de siora Leonora, e pur la me dà un pochetto de suggizion. Cossa mo vol dir? Mi no saverave...

Tagliacarne e Beccaferro vanno girando e cercando di prenderlo in mezzo.

Momolo. Chi xe sti musi proibiti? Cossa zireli da ste bande?

I suddetti, vedendosi guardare da Momolo, si mettono in qualche soggezione e parlano fra di loro. [p. 212 modifica]

Momolo. (Ho capio. No credo de inganarme. Costori xe qua per mi. O che i vol cavarme qualcossa, o che i me vol far qualche affronto. Li ho visti stamattina a parlar co sior Ottavio. Chi sa, che sto sior no i abbia messi all’ordene per saludarme? Gnente paura. A mi). (da sè) Galantomeni, favorì, vegnì avanti, ve bisogna gnente? Voleu bezzi? Voleu roba? Gh’aveu bisogno de protezion? Basta che averzì la bocca, sarè servidi. Momolo xe cortesan, amigo dei amici; fazzo volentiera servizio a tutti, e in t’una occasion son pronto a tutto. Comande, fradei, comande.

Beccaferro. Niente, signore, siamo qui passeggiando...

Tagliacarne. (Per dire il vero, un galantuomo della sua sorte non merita quest’affronto). (piano a Beccaferro)

Momolo. Vegnì qua, tolè una presa de tabacco.

Beccaferro. Obbligato. (prende tabacco)

Tagliacarne. Favorisce? (gli chiede tabacco)

Momolo. Patron anca della scatola, se volè. Disè, amici, aveu disnà?

Beccaferro. Non ancora.

Tagliacarne. La cose vanno male. Si mangia poco.

Momolo. Amici, me faressi un servizio?

Tagliacarne. Comandate.

Momolo. Stamattina ho ordenà qua alla locanda de missier Brighella un disnaretto per mi e per do forestieri. L’occasion ha porta, che andemo tutti a disnar qua a casa del sior Dottor. Brighella bisogna che lo paga, e me despiase che quella roba nissun no la gode. Me faressi el servizio de andar vu altri do da parte mia a magnar quei quattro risi, quel per de foleghe e quelle altre bagatelle, che xe parecchiae?

Tagliacarne. Perchè no! quando si tratta di far piacere.

Beccaferro. Basta, che Vossignoria avvisi Brighella.

Momolo. Vago a tor una bottiglia che ho lassà alla locanda, e co sta occasion ghe lo digo, e godevela in bona pase. (vuol partire, poi torna indietro)

Tagliacarne. Come si può bastonare un galantuomo di questa sorte? (a Beccaferro)

Beccaferro. Mi dispiace per i due zecchini. (a Tagliacarne) [p. 213 modifica]

Momolo. Avanti de avisar Brighella, vorave pregarve d’un altro servizio. Co mi no avè d’aver suggizion. So omo del mondo, e so come che la va. Diseme da quei galantomeni che sè, da boni amici e fradeli, diseme se aspettè nissun, se sè qua per mi, se ve xe sta dà nissun ordene de recamarme le spalle. Ve prometto, da cortesan onorato, de no parlar co nissun: e el vostro disnar tanto e tanto xe parecchià. Anzi sentì, se ve parlo da amigo e da galantomo. Se qualchedun v’ha promesso quattro, sie, otto zecchini, son qua mi: no vôi che perdè un bagattin.

Beccaferro. Siamo galantuomini, non vogliamo di più di quello che è giusto. Ci sono stati promessi quattro zecchini soli.

Momolo. Per reffilarme mi.

Tagliacarne. Sì signore, ma cogli uomini della vostra sorte non abbiamo cuore di farlo.

Momolo. Anca sì che xe sta sior Ottavio, che v’ha ordenà sto servizio?

Tagliacarne. Per l’appunto.

Momolo. Sentì, amici: mi ve darò sie zecchini, se bastonè sior Ottavio, e el vostro disnar.

Beccaferro. No, sei zecchini non li vogliamo; ci bastano i quattro.

Tagliacarne. Sì, siete un galantuomo, e non vi vogliamo far pagare di più d’un altro.

Momolo. Anemo donca; vago a dar ordene per vu, e po savè chi son. Vegnime a trovar, e ve dago i vostri quattro zecchini. (Se la me va fatta, la bissa beccherà el zarlatan). (da sè, ed entra nella locanda)

SCENA XIX.

Beccaferro, Tagliaferro, poi Ottavio.

Beccaferro. Questi è un uomo che merita essere servito.

Tagliacarne. Meglio è pigliare quattro zecchini da lui, che dieci da un altro.

Beccaferro. Ma poi, amico, bisognerà che ce ne andiamo, perchè in questo paese chi ne fa una di queste, non ne fa due. [p. 214 modifica]

Tagliacarne. Sì, ce ne andremo subito. Quattro zecchini pagheranno il viaggio.

Beccaferro. Dove troveremo il signor Ottavio?

Tagliacarne. Dovrebbe essere poco lontano, secondo ch’egli ci ha detto.

Beccaferro. Proviamio un poco, s’egli ci sentisse. Eh, ehm.

Tagliacarne. (Fischia).

Beccaferro. Signor Ottavio, signor Ottavio. (da più parti sotto voce)

Ottavio. E bene, cosa volete?

Tagliacarne. Abbiamo bisogno di Vossignoria.

Ottavio. Non avete fatto ancora?

Beccaferro. Senza di lei non si può far niente.

Ottavio. Non è stato qui Momolo? L’ho pur sentito alla voce.

Tagliacarne. C’è stato.

Ottavio. Perchè non avete fatto l’obbligo vostro?

Tagliacarne. Lo faremo or ora.

Ottavio. Tornerà Momolo?

Tagliacarne. Tornerà.

Ottavio. Animo dunque, io mi ritiro.

Beccaferro. Se Vossignoria si ritira, non faremo niente.

Ottavio. Io non ci voglio essere.

Tagliacarne. Anzi ci ha da essere. (lo bastonano)

Ottavio. Ahi, traditori, aiuto! (i due bravacci partono)

SCENA XX.

Momolo ed Ottavio.

Momolo. Coss’è, coss’è sta?

Ottavio. Sono assassinato.

Momolo. Gnente, sior Ottavio. Per adesso feme la ricevuta a conto. Un altra volta ve darò el vostro resto. (entra in casa del Dottore)

Ottavio. Oh, mi sta bene! Ecco quel che succede a chi vuol usare soverchieria. (parte)

Fine dell’Atto Secondo.



Note dell'autore
  1. Capitombolo qui vuol dire nel laccio
  2. In brio.
  3. Schiaffi.
  4. Uomo da niente.
  5. Vicino ad esser senza denaro.
  6. Sul fiato, senza pegno.
  7. Mancia.
  8. Inganno, ovvero usura.
  9. Modo di dire, che spiega una minestra di riso.
  10. Midolla.
  11. Salciccia.
  12. Luogo così nominato.
  13. Stadera.
  14. Di mezza qualità.
  15. Il terzo di novanta soldi, cioè trenta.
  16. Uccelli acquatici.
  17. Trenta soldi.
  18. Otto soldi.
  19. Cinque soldi.
  20. Cacio parmigiano.
  21. Venti soldi.
  22. Si misura.
  23. Svergognare.
  24. Nome accorciato di Truffaldino.
  25. Or ora.
  26. Colle code.
Note dell'editore
  1. Ed. Savioli: benevolenza.
  2. Zatta: ricusate.
  3. Ed. Savioli: E chi è.
  4. Ed. Savioli: Ho l’onore.
  5. Zatta: per ben.(
  6. Ed. Paperini: e.
  7. Paperini e Savioli: altro.
  8. Zatta: pranzar.