La Colonia Eritrea/Parte I/Capitolo V

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Capitolo V

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CAPITOLO V.

(1886-1887)




Missione Pozzolini — È sospesa in seguito a cattive notizie pervenute dall’Abissinia — Minaccioso contegno di ras Alula — Spedizione Salimbeni — Occupazione di Uà — Ras Alula fa incatenare la spedizione Salimbeni e la trascina dietro a Ghinda — Ultimatum di ras Alula al generale Genè — Combattimento vittorioso di Saati — Combattimento e strage di Dogali.


L’indirizzo politico coloniale del ministro Robilant, pur mantenendosi fermo ed energico, tendeva a dissipare le diffidenze che l’occupazione di Massaua aveva destato nell’animo del Negus.

Perciò il nuovo comandante superiore Genè si astenne da ogni ulteriore atto che potesse spiacere a quel Sovrano ed al suo Ras di Asmara, troncando le trattative cogli Habab e respingendo le proposte del famoso Debeb ribelle scorazzante nelle provincie tigrine ed aspirante al dominio sopra di esse.

Riconosciuto pericoloso il distogliere il Comandante Superiore dalle sue attribuzioni politiche e militari, il Robilant pensò allora di affidare l’incarico della solenne missione promessa al Negus, al generale e deputato Giorgio [p. 27 modifica]Pozzolini, il quale munito di ricchi doni e di lettere del Re d’Italia ed accompagnato dal capitano medico dottor Nerazzini e da altri funzionari ed ufficiali italiani, partì per Massaua l’11 gennaio 1886.

Giunto a Massaua il generale Pozzolini mandò lettere a ras Alula ed al Negus, annunziando la solenne missione italiana e chiedendo al primo di potergli inviare subito il dottor Nerazzini per concordare insieme il viaggio e la sicurezza della missione stessa.

Il Ras accolse di buon grado la lettera e quindi chiamò il Nerazzini al quale permise ed assicurò il transito della missione fino a Borumieda ove trovavasi il Negus.

Ma mentre la missione stava per salire l’altipiano avvenne un fatto che impressionò talmente il ministro Robilant da determinarlo a sospenderla.

Per mezzo del conte Antonelli residente allo Scioa ed intimo della Corte Scioana, egli ricevette la copia autentica di una lettera scritta quattro mesi prima dal Negus a Menelik, la quale palesava tutto l’odio di quel Sovrano verso gli italiani e manifestava i più fieri propositi di rappresaglia verso di essi.

Robilant non si sentì più sicuro dell’esito della missione, e non volle più avventurarla nell’interno dell’Etiopia, temendo che fosse fatta prigioniera e maltrattata.

Mascherando la causa vera della sua determinazione coll’addurre la troppa lontananza del Negus e l’imminenza della stagione delle pioggie, il ministro fece avvertire dal Pozzolini [p. 28 modifica]ras Alula che l’Italia ed il suo Re, pur mantenendo i sensi di cordiale amicizia per l’Abissinia e pel suo Sovrano, erano costretti a differire l’invio della missione.

Questa notizia accrebbe l’ira del Negus e quella del Ras, e destò anche in Itala un grande clamore. Ormai si vide lo stato di guerra latente tra l’Italia e l’Etiopia, e l’ottimismo del Governo non arrivava a dissipare le preoccupazioni.

Ras Alula dal suo alpestre nido dell’Asmara cominciò a scorrazzare razziando e minacciando fin sotto le nostre posizioni avanzate. Un’accolta di malvagi europei e specialmente di greci, tra i quali va annoverato il famigerato dottor Parisis1 e Marcopulo-bey già segretario del vice governatore Jzet-bey in Massaua, soffiavano ai nostri danni, ed i sintomi di rappressaglia si verificavano in tutti i modi. Finalmente il Comando Superiore si determinò a chiedere rinforzi di truppe al Governo.

Mentre le relazioni italo-abissine erano così tese concorse ad intricarle ed a renderle più difficili l’intromissione inopportuna di una nuova spedizione scientifico-industriale che, a quanto pare, non ebbe alcun carattere ufficiale, ma che tuttavia gettò il paese e la colonia in grandi imbarazzi. [p. 29 modifica]

Il conte Augusto Salimbeni che era già stato nel 1883 nel Goggiam e vi aveva costrutto un ponte sul Temciàh aveva promesso al re Tecla Haimanot di ritornarvi e di eseguire un altro grandioso ponte sul Nilo Azzurro. A tal uopo e sebbene fosse sconsigliato dal ministro Robilant, che declinò ogni responsabilità in proposito, il 25 settembre 1886, accompagnato dal maggiore di cavalleria Piano, dal tenente Savoiroux e da alcuni suoi operai, il Salimbeni s’imbarcò per Massaua; ove giunto, annunziò tosto il suo arrivo e lo scopo a ras Alula ed al Negus chiedendo loro il passaggio fino al Goggiam. Per non destare diffidenze il maggiore Piano ed il tenente Savoiroux furono qualificati come ingegneri. Il Ras accettò la domanda di Salimbeni, riserbandosi di ricevere la spedizione all’Asmara appena che egli fosse di ritorno da una razzia che stava per compiere verso Kassala.

Intanto però che il Ras era impegnato in questa impresa, le frequenti scaramuccie che avvenivano nelle vicinanze di Zula tra i nostri irregolari ed i seguaci del predone Debeb determinarono Genè a far occupare anche la posizione di Uà posta al confluente dei torrenti Haddas e Alighedè, per proteggere le carovane scendenti alla costa.

Ras Alula ritornò all’Asmara il 5 gennaio 1887 e quando seppe della predetta occupazione ne fu irritatissimo; Salimbeni che da un mese circa era già all’Asmara coi suoi compagni non potè certo placarlo co’ suoi doni nè colla dichiarazione di ignorare le [p. 30 modifica]occupazioni suddette. Dovette sospendere perciò la sua marcia verso Adua, e scrivere a Genè per consigliarlo all’abbandono di Uà.

Quando poi il Ras venne a sapere che Piano e Savoiroux non erano ingegneri ma due ufficiali, non seppe più contenersi; fece tradurre tutti i membri della spedizione nella sua tenda e quindi li fece incatenare, trascinandoseli dietro al suo esercito fino a Ghinda ai piedi dell’altipiano. Quindi il Ras mandò a Genè un ultimatum fatto scrivere dal Salimbeni e recapitare da uno degli operai del suo seguito, col quale ultimatum intimava di sgombrare Saati ed Uà pel 18 gennaio, od altrimenti avrebbe fatto tagliar la testa a tutta la spedizione e mosso guerra all’Italia. Glie ne mandò un secondo il giorno 20, facendoglielo portare da un servo tigrino.

Genè frattanto informato degli intendimenti ostili del Ras e della sua discesa su Ghinda aveva fatto rinforzare Uà e Saati occupandoli anche con truppe regolari. Agli ultimatum di ras Alula egli rispose che non intendeva affatto di sgombrare i luoghi occupati giustificandone l’occupazione collo scopo di rendere più sicure le strade ed i commerci, ed affermando che le intenzioni dell’Italia eran sempre amichevoli verso l’Abissinia.

Da quel momento prese consistenza e cominciò a diffondersi in Europa la notizia che ras Alula marciava su Massaua, producendo in Italia una viva commozione; alla Camera piovvero interpellanze, e qui una frase disgraziata del ministro Robilant che qualificava gli [p. 31 modifica]abissini col nome di quattro predoni, dimostrò come fosse grande la sua sicurezza e come si ignorassero allora le condizioni militari dell’Abissinia.

Il 25 gennaio ras Alula con circa 10000 seguaci mosse contro le fortificazioni di Saati, occupate da un battaglione composto di 2 compagnie italiane, 1 sezione d’artiglieria, e circa 300 irregolari, agli ordini del maggiore Boretti.

Le operazioni di guerra non potevano cominciare meglio per l’Italia, perchè quel battaglione oppose un’eroica resistenza, obbligando il Ras a ritirarsi, subendo gravissime perdite2.

Preoccupato Genè sulla sorte di quel battaglione e desiderando di rinforzarlo affinchè potesse sostenersi contro i nuovi attacchi che si temevano dal Ras, dispose che un’altro battaglione forte di 500 uomini circa, oltre ad una cinquantina di irregolari, agli ordini del tenente colonnello De Cristoforis, muovesse il 26 gennaio da Monkullo per Saati. Un grande entusiasmo animava i nostri soldati; la notizia della vittoria del maggiore Boretti li infiammava e li spronava alla gloria, spensierati, audaci e direi quasi temerari.

Senonchè giunta la colonna De Cristoforis il mattino di detto giorno a circa 11 chilometri da Monkullo in una località detta Dogali, ove un piccolo rio di questo nome si congiunge al [p. 32 modifica]torrente Desset, fu sorpresa da ras Aìula che stava in agguato con tutto il suo esercito.

Si impegnò tosto un fierissimo combattimento dove i nostri compirono prodigi di valore. Il minuscolo esercito dei 500 uomini rinnovò le gesta delle antiche sacre falangi. Stretti attorno al loro eroico Duce e tutti bersagliati da un cerchio di fuoco micidiale, i bianchi, soldati d’Italia bruciarono fin l’ultima cartuccia tenendo a bada per più ore l’intero esercito tigrino forte di oltre diecimila uomini, finchè esaurite le munizioni e schiacciati dall’immensità del numero, in una lotta corpo a corpo caddero tutti, difendendosi come leoni e facendo pagar cara la vittoria al nemico, il quale lasciava sul terreno tra morti e feriti più del triplo dei nostri.

Dal poggio tristamente celebre, detto poi di «Ras Alula», la spedizione Salimbeni assisteva incatenata, e con quale animo è facile immaginarsi, a tutte le fasi del combattimento.

Dell’eroico manipolo italiano rimasero morti sul campo 418 individui, fra cui 23 ufficiali; e ne rimasero salvi appena 91 (tra cui un solo ufficiale, il capitano d’artiglieria Michelini) che tutti feriti ed abbandonati per morti, poterono sfuggire all’efferata strage compiuta dal nemico.

All’indomani con una marcia notturna che ebbe del prodigioso, il maggiore Boretti, eludeva la vigilanza dell’esercito tigrino e riusciva a trarre in salvo il suo battaglione a Monkullo.

Il mondo restò ammirato dell’eroico valore [p. 33 modifica]dimostrato dall’Italia in questa sua prima fazione di guerra, dopo quelle della sua indipendenza, e tutte le nazioni ebbero parole di caldo elogio pei valorosi soldati di Dogali e Saati.

In Italia poi fu un’esplosione immensa di dolore e di ammirazione. Tutti gli ordini di cittadini sentirono il lutto della patria e l’orgoglio pei proprii soldati, ed andarono a gara per onorarli. Si raccontarono terribili episodi che gettarono su quel manipolo di eroi una luce di poesia e di gloria; ed una frase del capitano Tanturi che giunto in sulla sera sul luogo della catastrofe, descriveva i loro cadaveri quasi allineati sul colle fatale dell’ultima difesa, scolpiva a caratteri di sangue tutto il loro sublime ed eroico sacrificio.3




Note

  1. Il conte Antonelli in una corrispondenza da Entotto all’Opinione in data 20 dicembre 1886 narra che il Parisis traducendo davanti al Negus una lettera di Umberto a Menelik chiamava quest’ultimo re di Cassa, invece che di Caffa, venendo in tal modo a significare che il re Giovanni Cassa era qualificato vassallo del Re dello Scioa.
  2. In questo primo combattimento i nostri ebbero soltanto 5 morti (2 bianchi, 3 indigeni) tra cui il tenente Cuomo Federico, e 3 feriti.
  3. In questo combattimento così glorioso trovarono eroica fine: il ten. colonnello De-Cristoforis, i capitani Longo, Bonetti, Puglioli, De-Benedictis; il capitano medico Gasparri; i tenenti Fusi, Gattoni, Di Bisogno, Feliciani, Galanti, Sburlati, Griffo, Comi, Saccani, Tirone; il ten. medico Ferretti; i sottenenti Dessi, Tofanelli, Lombardini, Martelli, Bellentani.