La Colonia Eritrea/Parte II/Capitolo XII

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Capitolo XII

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CAPITOLO XII.

(1894-95)




Relazioni tra l’Italia, il Tigrè e lo Scioa — Ribellioni interne del Tigrè — Missione Traversi allo Scioa — Formale denuncia del Trattato d’Uccialli — Missione Piano allo Scioa — Mangascià a Adis Abeba — Suo ritorno e suoi preparativi — Sua intesa con Batah Agros capo dell’Okulè-Kusai — Rivolta di costui — Combattimento di Halai — Morte di Batah Agos — Mangascià accoglie i ribelli superstiti — Ultimatum di Baratieri a Mangascià — Baratieri ad Adua — Mangascià minaccia e invade l’Okulè-Kusai — Giornate di Coatit e Senafè.


Le armi italiane riposavano da poco dalle lotte contro i dervisci quando incominciarono i primi torbidi verso l’Abissinia.

Lo stato di pace e di quiete creato tra l’Eritrea ed il Tigrè dal trattato del Mareb durava inalterato da quasi tre anni senza che da una parte o dall’altra fossero sorti dissidi od avvenute delle infrazioni di patti.

Tuttavia il Governo eritreo non aveva sempre potuto riposare sopra una perfetta tranquillità, sia per causa delle agitazioni interne che infestavano il Tigrè, sia per le relazioni politiche che esistevano tra Mangascià ed il Negus, le quali facevano temere che da un momento all’altro riuscissero a modificare l’animo del nostro alleato. [p. 106 modifica]

Nell’interno del Tigrè ras Alula non sapeva rassegnarsi a quello stato di cose che lo aveva spogliato del suo adorato dominio dell’Amasen; nè ras Sebath aveva rinunziato alle sue brame d’indipendenza dell’Agamè.

Questi due Ras si erano intesi fra loro, cercando di dar del filo da torcere a Mangascià e agli Italiani. Cominciò ras Alula a sollevarsi in armi e nel dicembre 1892 catturava improvvisamente il nostro residente in Adua, capitano De-Martino. Accorso Mangascià, il fremente ribelle fu in breve vinto e perdonato, ma dopo poco tempo si ribellò ancora.

Le agitazioni interne tigrine alla fine poterono essere domate da Mangascià, che debellato e reso impotente il vecchio Alula, lo perdonava nuovamente, e coadiuvato da un certo Tesfai Antalo, riuscì pure a sbarrazzarsi di ras Sebath, che fu preso e relegato sull’inaccessibile Amba Alagi.

In questo frattempo Mangascià non aveva fatto che moltiplicare le sue proteste di amicizia verso l’Italia, inviando continuamente a Baratieri il solito John Bascià incaricato di manifestare i sentimenti del suo signore, e di chiedere continui aiuti materiali e morali per domare i Ras ribelli e preparare della resistenza alle minaccie di Menelik, e sollecitando più volte un convegno segreto personale col Governatore per intendersi; convegno che non fu mai concesso.

Viceversa l’Italia aveva mantenuto verso Mangascià un contegno di benigna neutralità che lo aveva poco lusingato. Essa non gli diede [p. 107 modifica]che delle buone parole e dei platonici consigli. Anzi, invece di aiutarlo a sostenersi ed a emanciparsi contro il comune nemico Menelik, preferì ritentare segretamente le vie diplomatiche per pacificarsi con costui, servendosi del dottor Traversi.

Ma anche questo tentativo andò fallito.

Traversi giunse ad Adis Abeba nel febbraio 93, e quali risultati vi ottenesse appare dal fatto che il 27 di detto mese Menelik, ascoltando le proposte di maligni consiglieri europei che facevano all’Italia una spietata guerra diplomatica, e tra i quali pare che primeggiasse per influenza lo svizzero ingegnere Illg, denunziò formalmente alle potenze il Trattato d’Uccialli.

Le notizie di questa missione e delle nuove pratiche che l’Italia aveva aperte con Menelik, mentre avevano portato lo spavento nell’animo di Mangascià, concorsero certamente ad intiepidire l’animo suo ed a renderlo più che mai diffidente. Egli temette di essere giuocato e poi gettato in potere di Menelik; per cui approfittando degli inviti continui che costui gli faceva perchè si recasse allo Scioa a farvi atto di sommissione ed a scolparsi della sua alleanza cogli Italiani, e dando ascolto ai consigli del suo amico Tesfai Antalo, convertitosi di recente alla causa scioana, pensò di aderire a tale invito e di piantare in asso i suoi alleati bianchi.

La denunzia del trattato d’Uccialli impressionò ben poco l’Italia. Il ministero Giolitti succeduto a quello Rudinì il 15 maggio [p. 108 modifica]1892, assorto nelle difficoltà politiche, economiche e bancarie che angustiavano la patria, non potè opporvi alcun efficace riparo; e proprio allora che ritentava riannodare le relazioni intiepidite con Mangascià, aderendo al convegno personale da lui per tante volte chiesto al governatore Baratieri, sopravveniva la crisi finanziaria che conduceva al potere novellamente il Gabinetto Crispi (21 dicembre 1893).

Del predetto convegno non se ne fece più nulla, perchè anche il nuovo Ministero, di cui faceva parte come sottosegretario agli Esteri l’Antonelli, preferì la ripresa di tentativi diplomatici collo Scioa.

Anzi tale Gabinetto essendo sorto coi programmi delle economie, piuttosto che acuire il dissidio con Menelik ed esporsi a nuovi avventurosi compromessi con Mangascià, fece subito i suoi studi per vedere se non era il caso di ridurre la Colonia al famoso triangolo Massaua-Asmara-Keren, limitandone il confine fino a Sichet, come aveva già proposto il Negus, e fissando per essa un bilancio di poco più di tre milioni annui; ma questa idea fu tosto abbandonata per le grandi avversioni che trovò nella maggioranza del Gabinetto.

Per ritentare un’ultima prova con Menelik fu quindi inviato allo Scioa il colonnello Piano, l’antico prigioniero di ras Alula a Dogali. Egli giunse in Adis Abeba nel giugno 1894; ma sebbene fosse munito delle istruzioni, più concilianti per parte del Governo, non fu più fortunato del Traversi, e con costui già [p. 109 modifica]rimasto allo Scioa inutilmente, dovette ritornarsene in Italia senza aver nulla concluso.

Poco prima del Piano era pure partito per lo Scioa Mangascià per far atto di sommissione al Negus e per domandargli quella corona regale del Tigrè che in mancanza della imperiale etiopica gli stava pur tanto a cuore.

Se non che questa sua speranza era rimasta un pio desiderio.

Da una parte ras Oliè, fratello della regina Taitù e rivale di Mangascià, aveva ottenuto dalla sorella promessa che mai la corona regale sarebbe posata sul capo del figlio di re Giovanni; dall’altra l’ambiente della corte scioana era tutt’altro che ben disposto contro Mangascià, che era accusato di aver tradito la causa nazionale gettandosi in braccio agli Italiani.

Quando, secondo le consuetudini abissine, Mangascià si presentò colla pietra al collo davanti a Menelik, questi non solo lo accolse freddamente e lo coprì di rimbrotti per aver stretta amicizia cogli Italiani, ma lo avvertì che prima di pretendere la corona pensasse a conquistarsi il regno che era stato invaso dai nemici.

Nè certo migliori furono le accoglienze fatte a Mangascià dalla regina Taitù e dai suoi consiglieri costituenti alla corte scioana il così detto partito tigrino, che soffiava sempre nel fuoco contro l’Italia. Essi lo posero in dileggio, e lo spinsero alla riabilitazione pungendolo con ogni sorta di sarcasmi.

Invece a ras Alula, che aveva accompagnato Mangascià allo Scioa, e che era rinomato come [p. 110 modifica]nemico irreconciliabile degli invasori del suo paese, furono fatte grandi feste e fu concesso l’onore di rimanere presso la corte del Negus.

Così avvenne che Mangascià, già tentennante verso l’Italia prima di recarsi al convegno di Adis Abeba, ne ritornò addirittura nemico; e sebbene l’eco della recente conquista di Kassala gli turbasse l’orecchio e lo determinasse ad inviare per non compromettersi al generale Baratieri le felicitazioni più calorose, si diede subito di nascosto a far dei preparativi di guerra.

Intanto ras Alula ed altri Capi tigrini rimasti nello Scioa infervoravano il Negus ad intervenire contro gli Italiani e vi facilitavano quell’unione politica dell’Etiopia che doveva divenire così esiziale per l’Italia.

Le conseguenze di questa grave situazione in cui era venuta a trovarsi l’Eritrea non tardarono a manifestarsi.

Il generale Baratieri, non potè a meno di essere preoccupato degli strani armeggi e preparativi guerreschi che ras Mangascià eseguiva alla sordina, e gliene chiese spiegazioni: ma il Ras, che non era ancor pronto, seppe accampare tali abili scuse accompagnate da così ferventi dichiarazioni di amicizia e di affetto, da stornare momentaneamente intorno a sè i sospetti di tradimento.

Anzi, avendogli poi Baratieri fatto proposte di un’azione in comune contro i dervisci nel Ghedaref, egli dimostrò di accettare con tanta gioia, da essere dal Governatore ritenuto in buona fede. [p. 111 modifica]

Intanto però Mangascià si serviva di questa proposta per proseguire febbrilmente gli armamenti.

Le cose erano a tal punto quando a smascherare ogni cosa ed a far precipitare gli eventi scoppiava una bomba nell’interno stesso della Colonia eritrea, cioè nella provincia dell’Okulè-Kusai.

Quivi era stato prescelto a tenere il governo della regione, sotto la dipendenza dell’Italia, il celebre capo Abissino Batah Agos, che per l’antica sua inimicizia con ras Alula e con Mangascià e per gli aiuti efficaci prestati alle nostre truppe fin da quando si stabilirono nell’altipiano e per le continue prove di fedeltà date al Governo della Colonia si era acquistato la più ampia fiducia.

Gli stava al fianco come residente politico in Saganeiti il tenente Sanguinetti, ed in tutta la regione era distaccata una sola compagnia di 250 ascari sotto gli ordini del Capitano Castellazzi, che presidiava il forte di Halai.

Adescato dalle promesse e dalle lusinghe di Mangascià, che parlando anche a nome del Negus gli faceva sperare l’investitura definitiva della sua provincia, e stanco di mordere il freno degli italiani, dai quali temeva da un giorno all’altro di venire spodestato, e probabilmente, a quanto si disse, anche istigato dai padri Lazzaristi della missione francese, che avversavano in tutte le maniere la politica italiana nell’Eritrea, ed esercitavano su lui una grandissima influenza, avendolo già convertito [p. 112 modifica]al cattolicismo, il 14 dicembre 1894 egli fece improvvisamente imprigionare il residente italiano tenente Sanguinetti, e lanciato un bando violento contro gli Italiani che dipinse invasori e spogliatori del suolo, chiamò la popolazione alle armi e si proclamò signore indipendente dell’Okulè-Kusai.

Egli fece tosto interrompere le comunicazioni telegrafiche col resto della Colonia, per aver tempo a raccogliere gente, ed a ricevere soccorsi da Mangascià; ma la notizia della rivolta portata da informatori e da un telegrafista italiano sfuggito alla cattura, fu tosto a conoscenza del Governatore, il quale da Keren, ove trovavasi, ordinò subito al maggiore Toselli di muovere contro il ribelle.

I piani di Batah Agos, furono sventati dalla prontezza di Toselli, che il mattino del 16 dicembre si trovò già con tre compagnie vicino a Saganeiti ove, in attesa di altri rinforzi che marciavano verso di lui, mandò ad intimare al ribelle la consegna delle armi e del tenente Sanguinetti.

Batah Agos prevenuto ne’ suoi disegni si schermì, allegando scuse e proteste di fedeltà, ma non obbedì alle intimazioni ricevute, e poco dopo, vistosi incapace di resistere a tante forze che affluivano intorno a Saganeiti, nella notte abbandonava segretamente questa località, dirigendosi co’ suoi uomini verso Halai, allo scopo di impadronirsi di quel forte, e catturarvi la compagnia ivi distaccata agli ordini del capitano Castellazzi.

Il 18 dicembre Toselli entrò in Saganeiti [p. 113 modifica]rimasto abbandonato dai ribelli, e con felice intuito della situazione, proseguì tosto verso Halai.

Quivi la compagnia Castellazzi forte di soli 250 uomini, dopo aver respinto le inutili intimazioni di resa mandate da Batah Agos, era stata assalita da circa 1600 uomini, e si difendeva con estremo valore sostenendo il fuoco d’accerchiamento dalle 13.30 fino alle 16.45. A quest’ora una viva fucilata prendeva alle spalle gli assalitori, e poco appresso tutta la colonna Toselli, giunta meravigliosamente in tempo sul luogo dell’azione, si lanciava all’assalto dei ribelli, i quali, rotti e sgominati, furono costretti a precipitosa fuga, lasciando gran numero di morti sul campo, compreso il ribelle Batah Agos.

Il giorno stesso fu liberato il tenente Sanguinetti, e gli avanzi dei ribelli ripararono nel campo di Mangascià che li accolse premurosamente.

Mangascià rimase sconcertato dell’avvenimento di Halai e si affrettò a mandare felicitazioni e proteste di amicizia a Baratieri, ma oramai si era troppo scoperto la sua connivenza col ribelle; e si conobbe anche che egli non cercava che di guadagnare tempo per ultimare i suoi preparativi di guerra.

Baratieri gli mandò un ultimatum, intimandogli di consegnare i ribelli di Halai e di inviare le sue truppe verso Tomat contro i dervisci giusto gli accordi già convenuti; quindi essendo rimasto senza risposta, ritirò da Adua il residente tenente Mulazzani, e si preparò alle ostilità. [p. 114 modifica]

Le forze militari che sulla fine di dicembre 1894 erano a disposizione del generale Baratieri, compresi i reparti di sanità, sussistenza, telegrafisti e gli altri servizi, sommavano in tutto a 159 ufficiali e 1158 uomini di truppa italiana, oltre a 6806 indigeni tra truppe regolari, milizia mobile indigena, e bande, disseminate nelle piazze e nei forti della colonia, da Massaua a Kassala ed al confine del Mareb.

Il Governatore concentrò il corpo di operazione in Adi Ugri, radunandovi tre battaglioni di 5 compagnie agli ordini dei maggiori Toselli, Galliano, e Hidalgo, una batteria da montagna di 4 pezzi, un plotone di cavalleria e le bande dell’Okulè-Kusai e del Seraè; in tutto 66 ufficiali, una quarantina d’uomini di truppa italiana, e 3684 indigeni, tra regolari, milizia mobile e bande.

Ras Mangascià invece aveva raccolto una parte del suo esercito, circa 10.000 fucili, nell’Entisciò, mentre Ras Agos con altri 2000 circa campeggiava nello Scirè, sotto il pretesto simulato di voler accorrere contro i dervisci.

Allo scopo di smascherare completamente i due Ras ed impedire la loro congiunzione, Baratieri decise di fare un colpo su Adua, ed il 26 dicembre 1894, per la via di Adiqualà, ciglione di Gundet, Mareb e passo di Gasciorchi, mosse in direzione della vecchia capitale tigrina.

Questa città, che porta un nome a noi fatale, il giorno 28 di detto mese vide per la [p. 115 modifica]seconda volta le truppe italiane traversare le antiche sue rovine, e la sua popolazione le accompagnò con forzati segni di festa e giubilo fino alle alture di Fremona a nord ovest della città stessa, ove Baratieri pose campo.

Preti e notabili accorsero subito a fare atto di sommissione ed a esibirsi intermediari per trattative di pace, e Baratieri gli accolse con benevoli parole, promettendo loro di rispettare la vita e gli averi dei cittadini, e dichiarando di aver voluto solo determinare colla sua mossa, il Capo del Tigrè a muovere contro i dervisci. Scrisse anche in tal senso all’Eccighiè (capo religioso) Teofilos, il quale benchè si scusasse di non essersi presentato, non mancò di dare delle buone parole consigliate certamente dalla paura.

Durante il suo soggiorno ad Adua Baratieri vagheggiò l’idea di uno scontro con i Tigrini; ma ras Agos accampato nei dintorni di Axum preferì di tenersi al largo, e Mangascià si limitò a scrivere a Baratieri promettendogli sotto certe condizioni il disarmo, ed effondendosi nelle solite proteste di pace e di amicizia.

Giungevano frattanto notizie dagli informatori che Mangascià accennava a spostarsi dall’Entisciò verso la curva del Mareb per penetrare improvvisamente nella Colonia e prendere possibilmente alle spalle il Baratieri; dei nuclei nemici erano stati segnalati verso Amba Beesa ed Amba Cristos intenti a preparare la strada tagliando spini; gli amici tigrini ammonivano di stare in guardia: allora [p. 116 modifica]Baratieri risolse di ritirarsi per la via già fatta ed alla sera del 2 gennaio tornava in Adiqualà, donde poi riconcentravasi col corpo d’operazione in Adi Ugri.

I movimenti di Mangascià accennarono infine verso il Belesa, manifestando l’intenzione di invadere l’Okulè-Kusai, rimasto in fermento per la ribellione di Batah Agos. Le sue forze erano aumentate fino a circa 12,000 armati di fucili, 7000 fra armati di lancia e disarmati, e giungevano notizie di propositi bellicosi e di millanterie senza fine contro gli Italiani, che si volevano ricacciare al di là del mare.

Baratieri, quando non ebbe più alcun dubbio sulle intenzioni del nemico, spostò il suo corpo d’operazioni da Adi Ugri verso sud-est, occupando le alture di Chenafena sulla destra del Mareb, donde offrivasi allo sguardo un vasto orizzonte e si potevano osservare tutte le mosse dei Tigrini.

Questi procedevano lentamente verso il Belesa, ed il giorno 11 gennaio erano schierati ed accampati sulla riva sinistra di questo torrente in vista al nostro comando.

Baratieri, informato che all’indomani Mangascià avrebbe varcato il confine, passò sulla sinistra del Mareb, prendendo posizione ad Addis Addis, e quindi, premendogli di impedire che i Tigrini potessero penetrare ed internarsi tra le ardue gole dell’Okulè-Kusai donde sarebbe stato diffìcile ricacciarli, decise di prevenirli alle imboccature di esse, facendo marciare celermente il 12 stesso di buon [p. 117 modifica]mattino il nostro corpo d’operazioni su Coatit che fu occupato verso le ore 15.

Nello stesso tempo e sulla stessa direzione si avanzava l’esercito tigrino, il quale, arrivato verso sera ad Adi Legib, poneva il campo tra questo villaggio e le acque di Mai Mehemessa a circa 6 Km. da Coatit, senza che si fosse accorto dell’improvvisa occupazione fattane dalle nostre truppe, la cui avanguardia (battaglione Toselli e bande) disposta sulle alture ad est ed a nord-est di Coatit era quasi a loro contatto.

La notte dal 12 al 13 passò senza alcun incidente. All’alba dal 13 dallo spianato della chiesa di Coatit, ove hanno riposato la notte, i battaglioni Galliano e Hidalgo si schierano verso nord-est recandosi sul fianco sinistro del battaglione Toselli, quello Galliano in l.a linea e quello Hidalgo in riserva.

La batteria da montagna Cicco di Cola si porta in linea col battaglione Toselli, le bande del Serae e dell’Okulè Kusai si schierano sul fianco sinistro verso Adi Auei, Baratieri col suo stato maggiore e colla bandiera del comando occupa un poggio eminente al centro. La fronte di combattimento è verso est e nord est e la sua lunghezza è di circa 1 Km.

Il sole che spunta sull’orizzonte è salutato dal primo sparo di artiglieria che da una distanza di circa 1900 m. va a mettere in iscompiglio il campo nemico.

In questo si nota subito una forte agitazione, un accorrere alle armi, un formarsi di gruppi combattenti, un riunirsi agli [p. 118 modifica]appostamenti, e non tardano a udirsi le risposte di fucileria.

Il combattimento s’impegna tosto e diventa vivacissimo e micidiale. Le truppe eritree sostengono il fuoco con ammirabile bravura e disciplina, e ufficiali e soldati italiani e indigeni gareggiano in valore infliggendo al nemico grandi perdite; ma il suo corpo è più che quadruplo del nostro; e mentre con una parte tiene impegnata la destra e il centro, ove la vittoria comincia a sorridere alle nostre truppe, con altra parte, di forza quasi uguale, approfittando della sinuosità del terreno, compie un aggiramento nascosto verso la nostra ala sinistra, puntando verso Adi Auei e quindi verso Coatit alle spalle dei nostri.

Questo movimento, non potuto impedire a tempo perchè mal guardato il fianco sinistro dalle nostre bande, costringe il Governatore a spedirvi contro dal centro il battaglione Galliano, il quale riesce ad occupare le alture dominanti i sentieri che da Adi Auei conducono a Coatit; ma nella lotta tremenda che egli sostiene contro la preponderante massa nemica subisce notevolissime perdite ed è costretto a chiamare rinforzi per salvare la posizione già minacciata di Coatit.

Fortuna volle che in quel momento la vittoria sulla destra si pronunciasse decisa e permettesse un cambiamento di fronte alle nostre truppe, altrimenti questo movimento pericolosissimo avrebbe potuto avere un esito fatale.

Baratieri arresta l’inseguimento della massa [p. 119 modifica]tigrina già vinta sul fronte est e nord-est, ed ordina ai battaglioni Toselli ed Hidalgo ed alla batteria di ripiegare e di cambiare gradatamente fronte verso nord-ovest, riconcentrandosi verso Coatit, dove le salmerie ed i feriti e la stessa base d’operazione sono minacciati dal corpo tigrino aggirante.

Nell’esecuzione di questo movimento, sotto un terribile fuoco contro cui il battaglione Galliano e le bande stavano per soccombere, anche il Quartiere Generale traversò un istante di supremo pericolo; due ufficiali1 un sergente, alcuni ascari e lo stesso portabandiera a fianco di Baratieri, caddero colpiti, da palle nemiche; tuttavia il Generale con un coraggio che rasentava la temerarietà e che da alcuni si volle attribuire al desiderio di cercar la morte prevedendo perduta la battaglia, riuscì a portarsi su Coatit; donde poi, coadiuvato efficacissimamente dal generale Arimondi, potè disporre validamente le sue truppe alla difesa.

Così anche la massa aggirante tigrina veniva sbarrata a nord di Coatit; e altri nuclei nemici che si erano già spinti fin presso la chiesa, erano dispersi.

Alla sera del 13 gennaio cessarono le ostilità ed i due corpi avversari restarono tutta la notte nelle posizioni rispettivamente occupate, con evidente vantaggio dei nostri, i quali in pochissimo numero avevano respinto, infliggendo gravissime perdite, due masse [p. 120 modifica]nemiche quasi doppie di loro, conservando le proprie posizioni e il villaggio minacciato, con perdite molto minori.

Il combattimento cominciò ancora all’alba del 14, iniziato dai Tigrini, i quali dalle alture a nord di Coatit cercavano di trarre all’assalto le nostre truppe; in questo giorno però Baratieri fu più cauto e si mantenne vigorosamente sulla difensiva, respingendo tutti i tentativi dei nemici e riuscendo a far loro perdere ogni speranza di rivincita.

Ormai le sorti delle due giornate erano già decise. La grande massa tigrina, malgrado le sue millanterie e la sua boria non era riuscita nel suo intento; il nostro piccolo corpo l’aveva arrestata e battuta, e si apprestava a sloggiarla dalle sue alture; e così sarebbe certamente avvenuto se Mangascià, la sera stessa del 14, verso le ore 22, riconosciuto impossibile di sostenersi, e costretto anche dal difetto di munizioni, non avesse cercato scampo ritirandosi verso Senafè colla sua gente in dissoluzione.

Quivi all’indomani lo raggiunse Baratieri inseguendolo rapidamente, e sorpresolo accampato nelle vicinanze di Senafè, da una altura dominante, e ad una distanza di 2600 metri, lo fulminò coll’artiglieria, mettendo a soqquadro lo scompigliato esercito tigrino, e spaventando lo stesso Mangascià, che fuggì precipitosamente coi pochi rimasti fedeli, cercando rifugio tra le montagne dello Scimenzana, e lasciando la sua tenda, perforata da uno srapnel e circondata di cadaveri, con carte ed altri indumenti in mano dei nostri. [p. 121 modifica]

Con questa vittoria brillante si chiudeva il primo periodo della campagna tigrina del 94 e 95 e si ebbe per risultato la riconquista e la riappacificazione della nostra provincia dell’Okulè-Kusai; e la cacciata di Mangascià dall’invasa Colonia.

L’esercito tigrino in questa campagna ebbe oltre a 1500 morti e 3000 feriti, compresi molti capi e sottocapi, ed il resto fu disperso. Dalla parte dei nostri si ebbero solo 3 ufficiali e 120 uomini di truppa morti: 2 ufficiali e 190 uomini di truppa feriti2.

Il generale Baratieri ne ebbe fama di valente generale e di sapiente organizzatore di truppe; ed invero in queste due giornate il piccolo corpo coloniale compì prodigi di valore, ed il piano generale della breve campagna non poteva essere meglio ideato nè quasi sempre meglio eseguito.

Come avveniva sempre dopo ciascuna battaglia i capi ed i preti dell’Okulè-Kusai e dello Scimenzana, si affrettarono tosto a portare gli omaggi ed a fare gli atti di sottomissione a Baratieri; nè mancò un pretendente, nostro amico, Agos Tafari dell’Agamè, di chiedere appoggio per occupare questa provincia già tenuta da ras Sebath e quindi dal governatore scioano Tesfai Antalo. Egli prestò giuramento di fedeltà a Baratieri e compì tosto la sua conquista, ma non ebbe da Baratieri [p. 122 modifica]che aiuti morali ed incoraggiamenti che pur venivano ad impegnare la protezione dell’Italia sul territorio tigrino e concorrevano a spodestare un rappresentante di Menelik.

Il 18 gennaio Baratieri si ritirava dall’Okulè-Kusai, lasciando occupati militarmente Senafè, Addis Addis e Adì Caiè, ed ordinando la costruzione di un forte in Saganeiti.

Il suo ritorno in Asmara e Massaua fu tutto un trionfo; l’entusiasmo degli indigeni per quel generale che li aveva condotti alla vittoria e che si curava tanto di loro non ebbe limiti; gli furono eretti archi di trionfo, si eseguirono fantasie, luminarie e festeggiamenti di ogni specie, e lo si venerò come un Dio.

Nè minore fu il giubilo col quale si accolsero i lieti eventi nella madre patria. Le vittorie brillanti annunciate di sera nei teatri, nei caffè, e nei pubblici ritrovi, sollevarono delle clamorose manifestazioni d’entusiasmo. Baratieri era chiamato il degno discepolo di Garibaldi dal quale aveva imparato a vincere con pochi mezzi; ed il Parlamento ed il paese andarono a gara nel manifestargli la propria ammirazione. Il Governo ed il Re gli indirizzarono telegrammi di felicitazioni, e come premio all’opera sua, lo si promosse tenente generale per merito di guerra.




Note

  1. Tenenti Sanguinetti e Castellani.
  2. Tra gli ufficiali morti, oltre il tenente Sanguinetti e Castellani, fu il tenente Scalfarotto colpito mortalmente al principio del combattimento.