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La Italia - Storia di due anni 1848-1849/Libro sesto

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Libro sesto

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LIBRO SESTO


Stato morale del popolo, — Contrasto dei partiti. — Difesa del patriziato piemontese. — Due idee signoreggiano gli animi. — L’abate Vincenzo Gioberti. — Giuseppe Mazzini. — I corpi-franchi lombardi nel Tirolo. — Il governo di Milano gli richiama. — Armata austriaca e suo organamento. — I nostri si ritraggono dallo stato d’inerzia. — Giornata di Pastrengo. — Prove di valore nel nostro esercito. — Il generale Nugent passa l’Isonzo. — Caduta d’Udine. — Il Tagliamento vien debolmente difeso. — Il generale Durando sulla Piave. — Belluno e Feltre si arrendono senza trattato. — Combattimento di Cornuda. — Strana condotta del Durando. — I Romani ammutinati in Treviso. — Risoluzione del generale Ferrari. — Imprudente atto del generale Guidotti e sua morte. — La enciclica del 29 aprile. — Le fila della congiura austro-gesuitica. — Segni d’una inevitabile sommossa. — Un ministero laicale. — Lettera del papa allo imperatore d’Austria. — Proclama del ministro delle armi ai combattenti romani nella Venezia. — Verona — I due eserciti. — Aspetto di un campo di battaglia. — Giornata di Santa-Lucia. — Inutile valentia de’ soldati italiani. — Gravi perdite toccate dagl’imperiali. — I civili Toscani respingono gli attacchi della guarnigione di Mantova. — Perfidia de’ nostri nemici.

I grandi pericoli, le comuni sciagure, lo spettacolo de’ continovi stranieri insulti esaltano gli animi allo affetto pe’ miseri e fanno concorrere il braccio alla difesa di un popolo oppresso, alla tutela dei conculcati diritti, all’aiuto di que’ che gemono e soffrono. In tali emergenze nel cuore dell’uomo oscilla una corda sola, quella del sacrificio; e le migliaia sfidano tutti i rischi ed offrono ogni più cara cosa a sollievo d’altrui, del paese natio, della patria. Allora, le passioni individue, le debolezze della propria natura si tacciono nell’uomo non più avaro, egoista, ambizioso, ladro, vano, vigliacco. Purificato da un amore immenso, egli non ha idee che non sieno generose e sante; e pel bene de’ fratelli affronta gioiosamente la morte, quasi premio desiderato; chè, una idea sublime, eroica tutta, lo incalza, lo spinge là dove è un sollievo a porgere, un lamento ad acquetare, l’onore a far salvo, la terra de’ padri a redimere. Ma, satisfatta che sia quella smania irrequieta, la quale non trova pace che nella vittoria, l’amore di sè che degrada, invilisce, divide ed ammezza, subentra al primo bollore e le passioni con esso.

Tale la fisiologia della umanità. I nati in Italia non potevano mostrarsi diversi. Ottenuto dai re ciò che chiedevano — cioè, guarentigie costituzionali e concorso alla guerra contro lo austriaco invasore — tutti avrebbero dovuto parlar meno di nazionale indipendenza e oprar daddovero a suo pro; e i giovani dal primo all’ultimo armarsi in disciplinate falangi, lasciar gli amorazzi, le veglie, i teatri po* tempi più lieti e meno esigenti, scendere sulle contrastate pianure lombarde come un popolo armato dalla vendetta di Dio, e carpire di mano alle barbariche schiere la eredità del bellissimo suolo che il cielo amico a noi compartiva. Ma, [p. 98 modifica]gli economi della loro vita e delle agiatezze stimarono miglior conio rifare gli atti del congresso di Vienna, che il popolano moschetto aveva stracciato. I pubblicisti più chiari discesero nella lizza e — all’ombra della siepe formata dalle legioni de’ combattenti — vollero, quali ingrandire uno Stato coll’agglomerazione dei meglio limitrofi per formarne un regno dell’Alta-Italia; quali, con più pura idea, far della Penisola una nazione sola e rimettere al senno del voto universale, se ad essa soprasterebbe un re costituzionale, o la legge; altri, rispettare le autonomie de’ vecchi Stati e questi insieme congiungere mediante un patto federativo; e tutti—come governo provvisorio; come uomini di nome per mente politica, per patite persecuzioni, per fede di setta; come capi di circoli, di associazioni, di comitati municipali — pubblicarono indirizzi, conforti, avvisi, moniti, proclami, consigli, sentenze, ingiunzioni ai popoli or or liberati da stranieri lacci, e perciò sbalorditi dalle mirabili cose avvenute, ed incapaci a discernere il buono dall’utile, il vero dal falso, il liberale dal despota. Le discussioni sì fuor di proposito posero in molti la febbre; il pensiero della difesa venne posto da banda, perchè l’amore di sè, della propria parte parlava più alti accenti nel cuore e traeva a dispute avvelenate, a rimproveri acerbi, a feroci odii, a nimicizie crudeli. Cosi, la misera Italia, dilaniata come nell’evo antico dagli stessi suoi figli, la fu divisa in due campi nelle libere città; e chi tiranneggiò le coscienze per le fusioni; chi per gl’interessi de’ popoli; quale per ambizione propria, quale per opinion sua. Autocrati tutti, non in parole, ma in atti.

Furonvi persino parecchi, i quali, trascinati da un amor di eguaglianza ideale, maladicevano nelle gazzette e ne’ pubblici ritrovi allo esercito piemontese ed a quei che il guidavano, condannando nel primo le monarchiche simpatie, negli altri i titoli e il patriziato. Quel ceto d’uomini aveva potuto offenderli dapprima-, ma, proclamato lo Statuto, ogni forza, ogni prestigio era in esso smarrito. Possedeva eziandio preclare virtù che pur seppe mostrare, e che nessuno vorrà al certo negargli; imperciocchè, la nobiltà del regno non oziosa, nè infingarda e — per la maggior parte — diplomatica o militare, cogli scritti, nelle ambasciate, sui campi di battaglia sentì, che il nome di famiglia la obbligava a distinguersi, e il fece. I Balbo, i d’Azeglio, i Collegno parlarono libere parole al monarcato assoluto quando tutti tacevano. I generali, i colonnelli, gli ufficiali delle tre armi, e più specialmente quelli di artiglieria e di cavalleria, di patrizio seme, sparsero bravamente il loro sangue a prò della Italia, Molti fra essi potevano essere tacciati di poca intelligenza nell’arte della guerra; di poco valore, non mai. Per fermo, non tutti idolatravano le Riforme, la Costituzione, la libertà del popolo, la indipendenza della Patria; anzi, ben rari quelli che co’ voti del cuore giungessero tant’alto; pur seppero incontrare la morte, sia per amore, sia per dovere, sia per dispetto alle occorse novità. In faccia alla nobile causa panni che ciò sia tutt’uno; anzi, un atto anche più meritorio, più eroico, più nobile il morire per una idea che non si sente fremere nel cuore e che pur giova altrui. Ho veduto all’opposto giovani de) medio ceto, dalle libere ed intelligenti spade, accorrere al campo e restarvi per pochi di; chè, lo sdraiarsi sulla paglia, o sul [p. 99 modifica]fangoso terreno presso le risaie e le paludi del Mincio e dell’Adige, il mangiar male, la fatica delle marce, lo eccessivo calore del sole di Lombardia erano per essi troppo dura cosa a patirsi per amor della Italia. Ben altri — ma in minor numero — ne vidi in Roma, attirativi da più libera luce, o partire all’approssimarsi delle schiere francesi, o rimanersi a mendicare un brevetto e un salario; o senza combattere, presidiar sino all’ultimo le botteghe di pubblico ristoro. Fra uomini che muoiono per la tutela del proprio onore, ma a pro della patria indipendenza, e i poltroni che si ritraggono dalla pugna al prodamarsi di un principio si santo, accetto i primi a fratelli e gli altri rigetto. La Italia che vogliamo redenta non sa che for dei vigliacchi, de’ ciarlieri, de’ susurroni di piazza, di quelli che si chiaman sempre traditi e il sono di fatto dalla vilissima anima loro!

Nello sbalordimento in cui trovavansi le nostre popolazioni settentrionali, il nuovo Stato vedevasi accerchiato da nomini d’ogni setta, d’ogni terra, i quali raccomandavano le loro idee all’attuazione della pubblica cosa. Un sommo filosofo, che in politica non elevavasi a pari altezza, proponeva la unione della Lombardia, della Venezia, dei ducati di Parma e di Modena al regno Sardo; con lui erano ambasciatori, avvocati, giornalisti, faccendieri che i discorsi del maestro parafrasavano, glossavano, e porgevano dalle tribune dei circoli e dalle finestre, fotte anch’esso ringhiere parlamentarie. Il partito era grosso, potente e vinse; la fusione imposta venne eseguita e fu ostacolo alla unità degli sfòrzi per cacciar via lo straniero; e ritolse moltissimi dal più perigliarsi sui campi di battaglia, onde lo intento d’un principe — il quale, noto pei fatti del 21 e del 33, non era amato da alcuno, tranne dai piemontesi — non si conseguisse; e spense il generale entusiasmo; ed impensierì il Borbone, il papa-re, il duca di Toscana, impaurati dalla cupidigia ambiziosa del loro alleato; e soffiò sulla sanguinosa riazione tramata già nella regia di Napoli; e, ferendo nel vivo il municipalismo torinese, trascinò Italia a’ più lacrimevoli eventi. — Un famoso pubblicista, cui conforto ai mille dolori dell’esiglio era stato sempre lo amor della patria, consigliava — non la unione— ma l’unità d’Italia libera, indipendente; e perciò, la cacciata d’oltr’Alpe dello straniero e la educazione del popolo agli ordinamenti politici, onde — padrone del proprio suolo — valesse più tardi ad esprimere il suo voto genuino intorno alle sorti future del paese. La inspirazione di tanto nobile affetto non la era sterile in lui; i giovani se la immedesimavano, accogliendola nel petto come una creazione profetica; e, col fremito d’una verità presagita, bandivano le glorie di una terza epoca di grandezza civile, intraveduta tra la tenebra del dispotismo, diradata mercè gli albori prodotti dall’aureola de’ martiri.

«Da Roma — ei dicevano — dalla città eterna, escì il fiat dell’impero: da Roma mosse l’apostolato dei Papi: da Roma si diffonderà, checchè altri faccia per impicciolire le immense sorti italiane tra i calcoli d’una opportunità menzognera, la parola della fratellanza universale e della concordia nelle opere sulle nazioni. Roma, per legge di Provvidenza, come dicea il nostro Dante, capo del mondo, è naturalmente, inevitabilmente, Metropoli dell’Italia Una, Libera, Indipendente.» [p. 100 modifica] A maggior chiarezza dirò chi fossero que’ due incliti Cittadini, le cui tanto disparate idee accendevamo di entusiasmo, l’uno le menti e l’altro i cuori de’loro fratelli di patria.

Vincenzo Gioberti nasceva, sui primordi della presente centuria, in Torino, di umili ed onesti parenti. Lo ingegno e lo studio gli schiusero la strada al salire; e preso l’abito di prete, distintosi tra i costumati della sua casta, veniva nominato primo chierico di corte, addetto alla persona del re. Nei ribollimenti civili del 1833 cadde in sospetto della vigile polizia, e sarebbe stato cogli altri sostenuto in prigione, se — avvertitone a tempo — non avesse emigrato allo straniero. In Parigi, in Brusselle scrisse opere filosofiche di memoria; e negli ultimi tempi, colto da una idea conciliatrice, diè alla luce il suo Primato, in cui volle provare che il papato, riformandosi, poteva riassumere la missione umanitaria della civiltà; e il principato, collegandosi strettamente co’ popoli, avrebbe saputo redimere la penisola dal giogo servile dell’Austria. E nel vero, egli compiva una impresa di grande coraggio nel presentare agl’italiani, si avversi allora al pontefice ed ai principi, un quadro stupendo delle loro virtù, addebitando a’ loro ministri ed al consiglio aulico da Cui dipendevano, gli atti pravi della loro amministrazione e della loro politica. I continovi agitatori del popolo erano ornai stanchi di più inutilmente sacrificarsi nelle parziali rivolture mai sempre abortite; onde, facilmente si persuasero che, facendo cooperatori i principi nelle proprie sparanze, si avrebbero avuto probabilità maggiore di buon successo.

Posto l’assunto sull’arena della pacifica discussione, il conte Cesare Balbo — che già da qualche tempo lavorava sullo stesso subbietto — pubblicava un volume, le Speranze d'Italia, indirizzandolo al suo precursore. La nuova voce accennava pure al civile progresso, quantunque di molto il procrastinasse; e se non improntava le frasi a’ moti febbrili di un cuor passionato ed ardente, dilungavasi di molto dallo stile strisciante de’ letterati di corte e de’ politici assoldati. E il monarcato assoluto, rispettando in Torino la persona del nobile pensatore, dava la prima prova di una certa tolleranza di libertà.

Accadevano in quello stante i lacrimevoli fatti di Cosenza. E il Gioberti aggiungeva i Prolegomeni al suo Primato, ove attribuiva il martirio de’ fratelli Bandiera e de’ compagni che morirono per la salute della patria, all’azione rabbiosa e liberticida degl’Ignaziani e dell’Austria. Quegli scritti passavano per vario riguardo sotto gli occhi di tutti. Gli uomini, i quali soltanto chiedevano una patria indipendente dallo straniero e governata da savie leggi, plaudirono agli sforzi del valente concittadino. Il clero vide la luce e apri l’animo a generose aspirazioni.

La corte di Roma si scosse e, impaurita, si divise in due genti. Morto Gregorio XVI parve che il pontificato tendesse all’altezza preconcepita dal filosofo piemontese; e di tanto miracolo le popolazioni entusiaste a lui diedero il vanto. E siccome nella nostra poetica terra tutto che forte impressiona trascende, si videro in molte città intitolarsi dal di lui nome piazze, strade, locande e botteghe di ristoro.

A furia siffatta, i liberali unitari null’altro opposero che il silenzio; gl’incroiati [p. 101 modifica]nel tenebrore religioso-politico, lo amaro disdegno, o il pietoso dolore ne’ libri del Curci, del Tapparelli e del Pellico, di fede e di professione gesuiti. E il famoso Istituto che aveva osato difendersi — quantunque dannato nel passato secolo da un immortale pontefice e nel nostro reietto dalla universale opinione — s’ebbe dal pubblicista cattolico un’accusa virulenta in cinque grossi volumi, i quali a lui concedevano il merito di una erudita compilazione.

Grande d’ingegno e di persona, cortese oltre ogni dire ne’ modi, solitario per abito e per studi, il Gioberti consumò i suoi quindici anni di confino colla rassegnazione di chi sa non lo meritare. Promosse a tutt’uomo il ben della patria senza fremito, senza odio, colla potenza della meditazione e dello intelletto. S’ebbe gran fama finchè alle profetate sue idee, che rinverginarono Italia, risposero a capello gli atti pontificali e principeschi, e sino al punto in cui—digiuno affatto di politiche pratiche-discese nello insidioso ed intricato arringo. Allora, gl’innamorati dello scrittore si alienarono dal ministro; i plaudenti al ripristinatore del papato evangelico il disertarono; ed egli, perseguitato dalla fortuna e non dalla coscienza, ritraevasi in estranea terra per meditare sui popolari osanna sì a corto durati.

Il di lui antagonista Giuseppe Mazzini sortiva i natali in Genova, nell’anno 1808, da un professore di medicina in quella università e da Maria Drago, donna temprata a spiriti virili. A lui bambino — essa che il vedea riflessivo e sennato oltre la età, e perciò di tutte viscere amavalo — solea spesso parlare della defunta repubblica, della gloria del popol suo nella cacciata dell’austriaoo invaditore e della cessione fattane al Piemonte dal congresso dei re, con parole ed idee consentanee a’ genovesi di quell’epoca abbuiata. E il fanciullo adunava nel cuore tesoro d’odii e di affetti che le sventure addoppiarono in seguito e giammai sapranno acchetare. Compiti gli studi, ei si diè a pubblicare in un giornale per lui stabilito i pensieri politici che gli fervevano dentro; ed a quel foglio — bentosto soppresso dal proprio governo — col medesimo titolo un altro ne faceva succedere in Livorno, che pe’ motivi stessi indi a poco cessava. Le due gazzette compilate in compagnia di alcuni giovani con certa tal quale indipendenza di mente e di cuore, sotto il velame delle romantiche dottrine, nascondevano il germe di una idea, politica, mercè la quale egli intendeva costituire una Italia libera, indipendente e governata a suffragio di popolo. La rivoluzione del 1830 in Parigi eccitò forte le sue speranze, nè fu schivo a manifestarlo con liberi propositi. E l’autorità piemontese il facea sostenere con parecchi tra i suoi aderenti; e, giudicatolo reo, chiudevalo per sei mesi nella cittadella di Savona. Di quindi esulava, e mai più tornò nel loco natio.

Breve di statura, di corpo magrissimo, dalla fronte sviluppata ed aperta, dall’occhio espressivo ed ardente, fattosi in Marsiglia l’apostolo del principio repubblicano, vi fondava un nuovo giornale politico-educativo, diretto alle giovani generazioni d’Italia, non che un’associazione, la quale da esse toglieva il nome. Dello aiuto de’ vecchi carbonari avea già disperato, notando la loro pochezza ne’ ribollimenti cittadini di Bologna, delle Legazioni, delle Marche, del Modenese e del Parmegiano. Dotato di perduranza e d’ingegno, d’interezza e di specchiati costumi, [p. 102 modifica] con parole infiammate di patrio amore commuoveva le turbe degli emigrati italiani ne’liberi circoli della Provenza e fanatizzava i fratelli nelle oppresse città co1 suoi opuscoli misteriosamente inviati. Bandito di Francia dal nuovo re —il quale con ogni mezzo volea farsi perdonare dalle potenze pel divino diritto la mal tolta corona — riparava in Isvizzerà, ove ramingo seguiva lo apostolato intrapreso.

Difensore instancabile sui pubblici fogli della calunniata Italia, ei volle con atto ardito significare come un popolo ricinto di spie e di baionette, educato a’ livori municipali, raccolto che fosse in ud fascio da una idea redentrice, avrebbe saputo far tremare chi l’opprimeva e costituirsi in nazione. Due anni innanzi avea scritto a re Carlo-Alberto, confortandolo ad attuare le già concepite libertà della patria. In un brano di quella lettera cosi si esprimeva;

«Sire! respingete l’Austria — lasciate addietro la Francia — stringetevi in lega l’Italia.

«Ponetevi alla testa della nazione e scrivete sulla vostra bandiera: Unione, Libertà, Indipendenza! Proclamate la santità del pensiero! Dichiaratevi vindice, interprete de’ diritti popolari, rigenerazione di tutta l’Italia! Liberate l’Italia da’ barbari! Edificate l’avvenire! Date il vostro nome ad un secolo! Incominciate un’èra da voi! Siate il Napoleone della libertà italiana. L’umanità intera ha pronunciato i re non mi appartengono; la storia ha consecrato questa sentenza co’ fatti. Date una mentita alla storia ed all’umanità; costringetela a scrivere sotto i nomi di Washington e di Kosciusko, nati cittadini: v’è un nome più grande di questi; vi fu trono eretto da venti milioni d’uomini liberi che scrissero nella base: A Carlo-Alberto nato re, l’Italia rinata per lui!

«Sire! La impresa può riescir gigantesca per uomini che non conoscono calcolo se non di forze numeriche, per uomini che, a mutar gl’imperi, non sanno altra via che quella di negoziati e di ambascerie. È via di trionfo sicuro, se voi sapete comprendere tutta intera la posizione vostra, convincervi fortemente d’essere consecrato ad un’alta missione, procedere per determinazioni franche, decise ed energiche. L’opinione, Sire, è potenza che equilibra tutte le altre. Le grandi cose non si compiono co’ protocolli, bensì indovinando il proprio secolo. Il segreto della potenza è nella volontà. Scegliete una via che concordi col pensiero della nazione, mantenetevi in quella inalterabilmente, nate fermo e cogliete il tempo i voi avete la vittoria in pugno.»

E conchiudeva con queste parole; «Attendete le solenni promesse — conquistate l’amore de’ milioni. Tra l’inno de’ forti e de’ liberi, e il gemito degli schiavi, scegliete il primo Liberate l’Itaiia da’ barbari e vivete eterno!

«Afferrate il momento!

«Un altro momento, e non sarete più in tempo. Rammentate la lettera di Flores-Estrada a Ferdinando, rammentate quella di Potter a Guglielmo di Nassau!

«Sire! io vi ho detto la verità. Gli uomini liberi aspettano la vostra risposta ne’ fatti. Qualunque essa sia, tenete fermo che la posterità proclamerà io voi — il primo tra gli uomini, o l’ultimo dei tiranni italiani — Scegliete!» [p. 103 modifica]Generosi e patriotici sensi, immaturi in quell’epoca. Imperciocchè, il nostro paese era allor malcontento, ma non aveva fermezza di fede. E quando re Carlo-Alberto, dopo il lungo periodo di diecisette anni — durante il quale il Mazzini avea sempre predicato la unione, il sacrificio, la libertà, la rivolta — stimò venuto il tempo per attuar que’ consigli, vide la Italia da meno dell’alta impresa. Nè altrimenti poteva accadere. Una nazione diseredata di guerresche istituzioni e di vita morale, atterrita da continovi pericoli, veggendo le turpitudini aversi un premio’, le virtù dispregio o martirio, non poteva d’un tratto — a’ nostri tempi nè troppo civili nè troppo barbari — levarsi a miracolo e rispondere al richiamo della patria e dell’onor nazionale. Alla religione de’ fatti soccorre potentemente la religione delle memorie! I soli credenti oprano, e giulivi incontrano la morte pel trionfo di una santa idea. E i credenti non mancarono nel dì della pugna po’ la italica indipendenza. Gli altri non potevano discendere al convegno de’ forti per ingenita codardia; e i più, perchè mancanti — e non per loro colpa — di fede.

Il Mazzini, scorgendo deluse le sue speranze, preparava una rivoluzione in Savoia; e, raccolti in Ginevra i volontari italiani, dava loro il Ramorino per capo. È mia mente che la democrazia, esposta con tanta avventatezza in una lotta così disuguale, dovesse per ogni riguardo fallire allo intento. Ma, la spedizione di quegli ardenti giovani avrebbe potuto più onoratamente cadere, se il condottiero non avesse tradito coloro che piena fidanza in lui riponevano.

Dopo quella poetica ventura, il genovese, afflitto ma non iscoraggiato, veniva bandito dalla Svizzera; pure vi rimanea di celato per qualche tempo presso Soletta, ove dava opera alla società della Giovane-Elvezia, cospirazione che più tardi produceva per contrario effetto il Sonderbund gesuita-aristocratico; quindi, con mentito nome in Parigi; passò in ultimo a Londra, dove fissò per anni molti la sua dimora. Di là predicò sempre agl’italiani la unione in una idea nazionale contro l’Austria e i mali governi nostri che da quella nemica potenza si dipendevano.

Tutte le civili rivoluzioni della Penisola dal 1831 in poi — tranne la operata in Rimini nel 45 e la pacifica ed amplissima del 47 — sono dovute all’azione dell’esule genovese. Qua’ tentativi minarono, perchè succendentisi troppo spesso e perciò senza forza; perchè suscitati in paesi di poca, o nessuna importanza; perchè nati dalla rabbia individuale contro i soprusi del governo e non dal pensiero della unità della patria che ben pochi sentivano; perchè chi gli ordinava come un elemento di vita nazionale era troppo lungi per incarnarli a seconda delle sue idee. Quegl’isolati moti io gli chiamai rivoluzioni? Oh! mal feci. Doveva dirli particolari vendette contro i rispettivi governi.

E per questo molti riguardano il Mazzini quale un utopista, dissennato dalle sue esagerazioni. Altri, un ordinator di massacri. Altri ancora, lo incitator criminoso alla discesa dei fratelli Bandiera e consorti in Calabria. E moltissimi lo han posto penino a segnacolo di popolari vendette, qualificandolo vile strumento dell’Austria e della Inghilterra. E pure, il Metternich che il temeva, il volle sempre [p. 104 modifica]bandito dalla Svizzera e dalla Francia; e il Foreing-Office dissuggellava alla posta di Londra le di lui lettere, onde rivelare al consiglio aulico le speranze di successo e il nome degl’Italiani che in esse fidavano; e ne’ Ricordi — sacri alla memoria imperitura di que’ nove che nello amor della patria perirono a dì 25 luglio del 44 in Cosenza — ei discolpava sè stesso e i suoi intimi di alcuna diretta cooperazione in quel fatto.

Uno il fallo però, di cui ben pochi sappiano farsi gli scusatoli. Egli avea detto in Parigi, dinanzi agli adunati nel circolo dell’associazione nazionale italiana, che avrebbe fatto tacere la vecchia sua fede — affidandone il trionfo a più confacevoli tempi — ove il senno italiano e i buoni istinti delle moltitudini glielo avessero imposto. Discese le Alpi — le quali come a nemico avevano formato per tanti anni inciampo a’ suoi passi — e udito in Milano il grido sorgente dalle barricate del marzo «Principi e Popolo» scriveva in un suo diario le seguenti parole di professione politica:

«Se un principe italiano, sentendo tutta quanta la santità del concetto, abbracciando in una sublime intuizione di genio e di amore, doveri, voti, speranze, ostacoli e mezzi per vincerli, e la gloria eterna e la pace ineffabile che viene da un’alta missione compita, si facesse incarnazione, iniziativa vivente dell’impresa unificatrice italiana: — se questo principe, sprezzando i fantasmi d’una impotente diplomazia e di governucci che cadrebbero come Gerico allo squillo delle trombe d’Israele, al grido immenso che ventiquattro milioni d’Italiani inalzerebbero, si levasse e dicesse:

«— Io sento maturi i tempi per l’Unità della Patria; intendo, o Italiani, il fremilo che affatica le anime vostre. Su, sorgete; io precedo. Ecco: io vi do pegno della mia fede, spettacolo ignoto al mondo d’un re sacerdote dell’epoca nuova, apostolo armato dell’Idea-Popolo, edificatore del tempio della Nazione. Io lacero nel nome di Dio e dell’Italia i vecchi patti che vi tengono smembrati e grondano del vostro sangue: io vi chiamo a rovesciare le barriere che anche oggi vi tengon divisi e ad accentrarvi in legione di fratelli liberi, emancipati intorno a me vostro duce, pronto a cadere, o a vincer con voi. — Chi tra noi non scenderebbe soldato nelle file dell’esercito suo? Chi non griderebbe ai fra¬ telli: — Ecco l’Eletto della Nazione? —»

Cotest’uomo era sorto. Combatteva già. I voti, le speranze, le benedizioni lo avevano accompagnato sui campi delle libere battaglie. Egli noi vide. Non volle vederlo. E innalzò bandiera diversa, la quale, poco nocendo al comune nemico, assai nocque più all’emula sua, spargendo la diffidenza sul di lei glorioso cammino e discemandone la forza morale. Or, se sublime la idea del Mazzini, non però praticabile allora; avvegnachè, gl’italiani tutti non fossero pur anche giunti a quel grado di perfettibilità nazionale da patire individualmente dolori, disagi, sacrifici e morte per riscattare la patria dal giogo straniero; e — rispettando le provinciali autonomie, pur dispogliandosi del gretto abito municipale — risuscitar l’aquila latina sulla vetta del Campidoglio e costituire sulle ruine della Roma de’ papi lo edificio nuovo della Italia del Popolo.


Testo in pedice [p. 105 modifica]Senza recedere dalla sua ferie, egli — cui la integrità della vita dava un’assolata potenza su tutti i giovani cuori — doveva gridare ai popoli si armassero in coorti disciplinate e piombassero come valanga ruinosa sull’orde nemiche; doveva la febbre dell’animo suo mettere in altrui e — venerando la maestà della nazione risorta — rispettarne il volere, seguendo il principe ch’erasi fatto il campione d’Italia. Le parole del suo giornale dovevano sorreggere i manifesti atti del re, non malignarli, nè farli segno all’odio, al disprezzo dinanzi alla opinione pubblica. Fugato il nemico, la unità non sarebbe stata più una illusione, ma un vero; imperciocchè facil cosa diveniva lo esautorare i principi esosi al popolo per istintiva inettezza, per brutale ferocia e pel doppio potere l’uno all’altro nocivo e vie più dannoso alle sorti già allietate della Penisola. E la dinastia subalpina, nel riporre la spada nel fodero, si sarebbe forse assisa sull’unico trono che il popolare suffragio in grazia de’ meriti suoi avrebbele conceduto. Ma, l’egregio nostro concittadino altrimenti opinò, ed ebbe fede nelle masse susurrone, nelle parole dei patrioti, cui i fotti non seguono. Laddove facea d’uopo di concordia, d’impeto, di ardire, di azione energica e fremente, non si udì che clamor di partito, amaro sogghigno, insulto villano. E lo esercito del re, denigrato, perdè la fiducia; alcuni, traendo partito dalla confusion delle idee, moralmente il disfecero; e la Italia cadde in un abisso del primo anche peggiore.

Egli ha detto a sua scusa mancare in Carlo-Alberto il genio, l’amore, la fede; non aver creduto lui «despota per istinti radicatissimi; liberale per amor proprio e per presentimento dell’avvenire; d’indole incerta, tentennante perennemente tra il bene ed il male, tra il fare il non fare, tra Tosare e il ritirarsi» Il duca adatto alla impresa nazionale, e tanto più ch’ei tardi abbracciavate, quando la inerzia più a lungo protratta potea farlo discendere violentemente dal trono. È vero che il re a’ dì 22 marzo accertava il conte di Buol, ambasciatore austriaco in Torino, ch’ei «desiderava secondarlo in tutto ciò che potesse confermare le relazioni di amicizia e di buon vicinato esistenti tra i due Stati». Gli è fuor di dubbio che la sera dell’indomani, nell’atto che le truppe regie marciavano oltre il proprio confine, il ministro Pareto mandava un dispaccio al signor Abercromby, ambasciatore della Inghilterra presso la corte, con cui, informandolo de’ casi occorsi in Milano, aggiungevagli che «la situazione del Piemonte era tale, che da un momento all’altro all’annunzio che la repubblica è stata proclamata in Lombardia, un simile moto scoppierebbe pure negli Stati di S. M. Sarda, o che almeno un qualche grave commovimento porrebbe a pericolo il trono di S. M. In questo stato di cose il re.... si crede costretto a prendere misure che impediscano al moto attuale della Lombardia di diventare moto repubblicano, ed evitino al Piemonte e al rimanente d’Italia le catastrofi che potrebbero aver luogo se una tale forma di governo venisse ad essere proclamata».

La politica è l’arte di celare i propri pensieri sotto il velo di mentite parole e di porli in effetto a detrimento degl’interessi altrui, protestando pur sempre i sensi della più sentita amicizia. Io son lungi dal lodare procedimenti sì subdoli c ingannatori; ma, poichè gli esteri gabinetti gli usavano, il re potea ben permettersi [p. 106 modifica]di combatterli coll’arma medesima. Egli si aveva un numero scarso di schiere con pochi apparecchi dì guerra; sapea limitatissima la propria influenza morale pe’ fatti della sua vita passata. Con cotesti poveri mezzi doveva giuocare il grosso giuoco della nazionalità di un popolo e — tentando le sorti delle battaglie — buscarsi la corona di Teodolinda, fantasma or terribile, or lieto, che nelle sue notti vegliate e febbrili quel cerchio di ferro ingemmato additava a’ suoi cupidi sguardi come meta gloriosa alla dinastia di Savoia. Alla idea invaditrice, insistente, entusiastica un’altra idea si aggiungeva dolorosa, incerta, tremenda; il dover debellare il colosso austriaco per arrivare a’ suoi fini, a lato di potenze non ligie come la Inghilterra e la Francia e avente alle spalle i principi italiani contrari e popolazioni ardite, or or ribellate e combattenti, ben più contrarie. Gli era adunque mestieri usare astuzia colla straniera diplomazia per alienarne le antipatie, od averla neutrale nel supremo dì del cimento. Egli fece anche di più. Ne’ primordi dell’aprile inviava dal campo al Mazzini un di lui conterraneo ed amico colla proposta di venire a patti con lui, accettando per la Costituzione italiana gli articoli i più democratici che volesse, purché non avversasse la parte regia che già militava. L’uom di fede rifiutò di aver colloquio col principe, e disse non poter transigere con un uomo, il quale non dava sufficienti mallevadorie delle proprie intenzioni a favore della unità della patria, curando troppo la corona sabauda per farsi apertamente, irrevocabilmente la spada d’Italia. Il messaggero di pace partì, e ogni accordo fu rotto per sempre fra i due che governavano allora il pensier nazionale. B fu danno grandissimo, incalcolabile. Se la mente ed il braccio si fossero intesi e posti insieme d’accordo, forse avremmo potuto congiurare la crisi dolorosa che gli errori di tutti composero alle sorti della patria infelice. Chè, gli uomini avrebbero adorato soltanto il Dio delle sante speranze e non i sacerdoti, che per l’autorità della vita o del potere quelle rappresentavano. E gl’italiani non avrebbero sciupato un tempo prezioso nel dir villanie a Carlo-Alberto, perchè monarca; al Mazzini, perchè idolatra d’una idea generosa; al Garibaldi, perchè generale non escito dalle accademie, ma dai campi delle libere battaglie; al Manin, perchè ribattezzatore della repubblica di San Marco, e via di seguito. Le sciagure patite correggano almeno lo errore. Siamo uniti per lo avvenire. E l’amore per la nazione che ci fu madre non si spenda più in attacchi epilettici contro l’autorità di un principe di pensiero o di spada, nè con parole o con ridevoli intagli; ma si addimostri ne’ cimenti contro i nostrani e gli stranieri che a noi contrasteranno il principio della nostra indipendenza.

Suggestioni cotanto svariate, mosse da chi si aveva ingegno e loquela, confondevano la mente non ricca dei governanti provvisori in Milano, più e più sconfinata dal genio della nostra rivoluzione. I quali, in quelle domestiche scissure non calcolando che, se le virtù politiche adornano i nuovi Stati, quelle di guerra gli fanno splendidi e duraturi, assai scarsamente provvedevano a stabilire il vero ordine del momento, consistente non in concioni, non in belle scritture^ non io leggi più o meno buone, ma nel numero degli assoldati e nella loro acconcia direzione. In quella vece, essi opravano in contrario senso. In Cremona i reggimenti Ceccopieri e [p. 107 modifica]Arciduca-Alberto — lombardi tutti, ribellatisi a’ lor comandanti austriaci — dirigevansi su Milano con armi e bagaglie. G il governo, in luogo di trarre profitto di tali uomini disciplinati e agguerriti, gli mandava alle loro case. Dal lago di Garda — lungo la linea di Salò a Gargnano — alle prossime alture tirolesi, erano adunati cinquemila e più volontari lombardi, svizzeri e genovesi, i quali si avevano a capo supremo un colonnello federale, originario di Piemonte, per nome AUemandi. Capitanavano la varie colonne il Borra, di Brescia, ufficiale napoleonico, cui la molta età non avea dome le forze fisiche e del cuore; il Thannberg, giovane alsaziano arditissimo, che aveva militato prima nella marina francese, quindi nella legione straniera in Africa; il Tibaldi, di Cremona, già militare in Ispagna; il Manara, il Trotti, il Longhena, il Beretta, l’Anfossi ed altri di vario carattere ed accorgimento; que’ che ad essi doveano ubbidire erano audaci tutti, ma indisciplinati, non fermi al combattere, di mutabili sensi, come milizie civili. Il governo parea gli avesse abbandonati, facendogli mancare di vesti, di munizioni, di vettovaglie. Il generale, raramente mostrandosi, parlava loro mercè lontani ordini del giorno e proclami. Pur essi valorosamente combatterono alle Sarche, presso il castello di Toblino e inseguirono il nemico verso Trento sin oltre Vezzano. Abbandonati quindi dall’Allemandi — il quale, intendendo impadronirsi della capitale del Tiralo, come centro delle sue operazioni militari, onde tagliare la ritirata al nemico e impedirgli lo aiuto di novelli rinforzi, avea chiesto a re Carlo-Alberto, senza ottenerlo, quattro pezzi di artiglieria con quattro battaglioni di truppe regolari — venivano poco stante a sapere come il governo di Milano, non volendo quivi agire più oltre, gli richiamasse collo scopo altresì di meglio ordinarli. Gli abitanti di quella contrada, instigati a sollevarsi contro l’austriaco dominio durante l’occupazione de’ nostri, tutt’ad un tratto diserti e soli in balìa della vendetta nemica, maladirono al triste loro destino e a chi il procacciava; e bruciando la insegna dell’italiano riscatto, o inalberarono con lacrimosa rabbia gli esecrabili colori dello straniero, o innalzata la voce di tradimento, seguirono colle grame famiglie i passi de’ volontari, frementi essi pure per l’atto vilissimo che loro imponevasi.

Cosi nel corso di un mese, giorno per giorno, dalla cacciata degli austriaci di Milano, da que’ governanti decretavasi lo abbandono del Tiralo, concedevasi agio al nemico di raccozzar nuove forze al di là delle Alpi per soccorrere Verona, si lasciava topograficamente indifesa la Venezia, libero il passo pel lago verso la provincia di Brescia ed il Friuli scoperto. E i lamenti infiniti; e le discordie magiori!

Giusta una nota rinvenuta nella cancelleria del Radetzky in Milano, lo esercito austriaco in Italia doveva sommare ad 85,000 uomini di tutte armi; effettivamente però non oltrepassava i 70,000. Nella insurrezione lombarda ne aveva avuto 4,000 di morti, 7,000 tra prigionieri e feriti; 5,000 di disertori; 7,000 d'imbarcati a Venezia; non rimanevano dunque al maresciallo che 45,000 soldati — fra cui 10,000 italiani—non ben forniti in materiali di guerra per aver lasciato molti pezzi di artiglieria in Milano, in Venezia e nelle minori fortezze di Pizzighettone, [p. 108 modifica]di Piacenza, di Comacchio e del Veneto. Cotesto corpo d’armata, in malo arnese, scoraggiato, sconvolto, bersagliato da tutte parti, erasi rincantucciato nelle quattro piazze forti del Mincio e dell’Adige, ed occupava le principali posizioni intermedie. L’Austria ha soldati di varia lingua, di diverse razze, tutte mimiche tra loro, c •di tali divisioni fa la sua forza. Con una severa disciplina di ferro, interprete di una legge invariabile, durissima ed una per gli Stati della monarchia, essa rende omogenei cotanto svariati elementi sino a far perdere nell’individuo lo istinto della propria nazionalità, e di tutti formarne una specie a parte, al di fuori della umanità, la quale non conosce dopo Dio che lo imperatore, altra autorità che quella da lui tramandata al capitano che gli conduce, altra patria che il ministero di guerra. Per meglio giungere a siffatto scopo, gli ufficiali di ciascun reggimento appartengono alle varie province del vasto impero e più a quella ove questo vien reclutato. La cavalleria leggera la si compone di uomini e di cavalli ungheresi; i lancieri, di galliziani; i corazzieri e i dragoni sono della contrada austrogermanica; l’artiglieria la è tutta tedesca e boema: i cacciatori, tirolesi; i fantaccini sono coscritti di tutti i paesi indistintamente, separati ne’ diversi reggimenti; e onde rompere ogni possibile contatto tra le truppe e le popolazioni, e far delle prime lo strumento cieco del dispotismo, ogni soldato debbe dipendere pe’ suoi affari civili dai tribunali militari, e pei doveri della religione dai rispettivi cappellani subordinati all’autorità suprema di un vescovo dell’armata. Per ogni riguardo adunque una la legge, uno il comando cui tutti ubbidiscono; ai renitenti il bastone, o la morte. Ad una tale organizzazione più volte lo Impero ha dovuto la sua salute ne’ ripetuti cimenti colle invincibili schiere di Francia; ed è ingrazia sua se, nello sfacelo delle cose viennesi, il Radetzky potette far salvi gl’italiani possessi alla monarchia della casa d’Ausborgo.

Oh! se un eguale organamento militare avesse tenuto in freno gli armati nostri ! Se il generalissimo — serbando la mitezza dell’animo per tempi più lieti — si fosse mostrato capace di risoluzioni forti ed ardite! Se i generali piemontesi, meglio scienti di quanto valevano, non avessero abbracciato ogni mezzo per ispegnere il primo entusiasmo nè gittato il discredito sulla insurrezione popolare! Od almeno, se gl’italiani tutti adatti alle armi, in luogo di farsi abbagliare da quei propositi, e sciorinar ne’giornali con vario tipo il facile insulto contro Io inimico lontano, e ricostruire una Italia di propria fattura, fossero sorti alla voce dell’onore ed avessero avviluppato e ristretto gli stranieri entro un cerchio di fuoco, ben altre parole avrebbe ora a scrivere la mia penna lamentosa e fremente! Da una parte, imperizia e dubbiezze; dall’altra, libertà loquace e sospetti; e la ruina pubblica in fondo!

Dopo una inerzia assai prolungata, parecchie scaramucce di avamposti eransi operate dai piemontesi in sul finir dell’aprile. I nostri, fugato il nemico, occuparono Villafranca, grazioso paese situato sulla fertile pianura che si dilata dalle colline di Valeggio a quelle di Sommacampagna. E nell’atto che il generale Bes respingeva vigorosamente gli austriaci alla testa della brigata di Piemonte, dai villaggi di Pacengo e di Cola, presso il lago di Garda, la terza divisione marciava [p. 109 modifica]verso Santa-Giustina e Pastrengo per occupar quelle posizioni, distruggere i corpi esciti di Verona e chiudere ogni comunicazione tra quella piazza e Peschiera. Altre truppe venivano aggiunte per formare un nerbo di ventiquattro a venticinque mila uomini, e si affidavano al senno militare del generai di Sonnaz. A’ 30 aprile era giorno festivo; e il devoto re volle i soldati udissero la messa prima d’ingaggiar la battaglia; la qual cosa ritardò di molte ore i movimenti delle truppe. L’azione cominciò alle undici del mattino. Noi avevamo a fronte tre divisioni, comandate dal bravo generai d’Aspre e dall’arciduca Sigismondo, le quali difendevano gl’importanti posti di Bussolengo e di Pastrengo, che si elevano sulla valle bagnata dall’Adige. La divisione Broglia formava l’estrema diritta della prima linea e avanzossi verso Bussolengo; un’altra si diresse al centro nemico, e la brigata Piemonte, ch’erasi appoggiata sul lago di Garda, formò l’ala sinistra del corpo d’attacco. Questa fu la prima nostra battaglia campale, in cui gl’italiani diedero saggio del loro valore e della intelligenza nello eseguire le eccellenti disposizioni ritolte dal generale Ettore di Sonnaz. La brigata di Piemonte, la prima a scontrar» coll’inimico, lo spinge, lo incalza, il persegue di collina in collina; quella di Cuneo — benché a rilento a cagione del terreno accidentato e paludoso — la imita alla diritta. Pastrengo è presa d’assalto con un entusiamo senza pari. Gli austriaci disloggiati, si riordinano e tentano una vigorosa fazione sulla sinistra; e forse quel brusco attacco poteva cangiare le loro sorti, se tre squadroni di carabinieri non si fossero slanciati alla carica sulla collina e non avessero trascinato i fanti odia forza irresistibile dello esempio. Allora l’inimico circondato per ogni banda, piega disordinatamente verso i ponti di barche stabiliti a Pescantina e a Pontone. Battevano le quattr’ore di sera; senza alcun rischio potevansi inseguire i fuggiaschi, tagliar loro la ritirata, o per lo meno fa-re un numero grande di prigionieri. Ma, il re che da una eminenza aveva assistito dapprima al combattimento e quindi erasi trovato ne’ punti i più perigliosi, non seppe trar profitto della loro demoralizzazione, e si fe’ lieto delle posizioni acquistate e non con molta perdita de’ nostri. Il d’Aspre trovò mancanti nelle sue file tra morti e feriti mille e dngento uomini; cinquecento prigionieri all’incirca erano il frutto della nostra vittoria.

Nell’atto che il grido «Viva l’Italia» celebrava questa sul campo, una colonna di 3,000 uomini, escita di Verona, passava sotto Sommacampagna collo scopo di occupare le alture di Sona, di Palazzolo, Santa-Giustina e di operare una diversione, il generale di Sommariva, accorso immediatamente con un reggimento di fanti di Aosta e con poca artiglieria, ricacciavala indietro. Un medesimo tentativo venia pur respinto tra Sona e Palazzolo dal capitano d’artiglieria Paolo Riccardi che pose in rotta il nemico con una scarica di mitraglia. La guarnigione di Peschiera volle fare anch’essa una sortita vigorosamente respinta dal Bes, il quale entrava la sera colla sua brigata in Piovezzano, piccolo borgo presso Pastrengo sulla riva dell’Adige. Nella corte del palazzo Marinelli, ov’egli stabiliva il suo quartier generale, ho veduto una vite attaccata al muro, sul cui grosso ed annoso fusto Buonaparte, Massena e Moreau legavano le briglie dei loro cavalli al ritorno [p. 110 modifica]de’ ripetuti attacchi dati in Rivoli ai continovi inimici nostri e della libertà, nel 1796. Ben altri tempi eran quelli! Diversi i capitani che agivano sullo stesso teatro delle nostre battaglie; ed egualmente diversi gli elementi di buon successo.

Tra le virtù le più conte che in quel giorno si palesarono, noterò quelle del maggiore Alfonso della Marmora, il quale alla testa di uno squadrone di cavalieri e di una mezza batteria a cavallo poneva in rotta una colonna di fanti nemici a Pastrengo e infugava parecchie compagnie di tirolesi a Piovezzano. Il capitano Delavenay con un piccolo drappello di granatieri savoiardi si avanza arditamente contro una compagnia di austriaci che aveva sorpreso uno squadrone de’ nostri disposta in scaloni; il nemico resiste ed egli lo assale colla baionetta; e, afferrato il braccio del capitano, lo fa prigione co’ suoi cenquarantanove soldati. La seconda batteria di posizione, comandata dal marchese di Cortanze, meritò pure ogni encomio per la sua buona cooperazione alla presa di Pastrengo. Ufficiali e soldati morirono da prodi. Cadde tra i più chiari e rimpianti il giovane marchese Bevilacqua, di Brescia, ricco di dovizie e di patriotico amore, pochi dì innanzi assunto al grado di ufficiale nel reggimento di Piemonte cavalleria. Si vide un tenente-colonnello degl’invalidi, il di Buglione, per grazia richiesta, combattere col moschetto nelle file come volontario soldato; ed un altro vecchio, il conte Cesare Balbo — meritevole pe’ servigi renduti alla Italia come filologo e come statista — allor presidente del consiglio, vestito della divisa di un’altra età, volle costantemente accompagnare a cavallo la persona del re ne’ posti di maggiore cimento.

II maresciallo Radetzky aveva chiesto rinforzi. Il suo messaggero trovava Vienna sconvolta; gli ordini affatto cangi; nei grandi dell’aula però ostinata volontà di riallacciare alla monarchia le bellissime e ricche province d’Italia che se n’erano disciolte; di ogni canto dubbiezze, smarrimento, paura. Ciò non ostante, potè la sentenza di guerra; e il braccio smisurato di tanta possanza ragunò uomini ed armi, affidandoli al generai Nugent onde per l’Isonzo entrasse nella Venezia e si congiungesse ai corpi che già combattevano. Co’suoi 20,000 soldati doveva attraversare per centoventi miglia un paese inimico, e trovar la via asserragliata da truppe regolari, ed evitare o sorprendere sul suo passaggio parecchie città, per non iscemare le proprie forze in vani cambattimenti e per provvedersi di vettovaglie e di danaro. Sullo scorcio del mese valicò senza ostacolo l’Isonzo... e gl’italiani dalla mente immaginosa e poetica cantavano inni a gola piena sulla patria riconquistata, quasi attendendo il prodigio di Gerico! Quel generale avea tolto la direzione di Palma-Nova; e siccome colà era un buon nerbo di difensori lombardi, veneti e piemontesi e stimò che il barone Zucchi, lor comandante, non avrebbe tradito le comuni speranze, diverse il cammino e gittossi sopra Udine. La città non era murata; ma, il popolo avea nello interno costrutto barriere e trincee. Il combattimento ineguale durò per tre ore continove; grave il danno cagionato dai razzi e dalle bombe; non lieve la perdita del nemico che ritirossi; per il che, cresciuto l’animo nei civili, volevano esporsi ad una sortita che dalle autorità municipali e dall’arcivescovo non venne assentita. Durante la notte gl’impaurati reggitori del paese il cedettero, capitolando. E gli altri, nel leggere affisso pe’ canti il turpe trattato [p. 111 modifica]in sull’alba dell’indomani, ad imprecare, a fuggire, a sottrarre le armi e le robe dalla cupidigia e dalla vendetta nemica. Il Nugent non imita la moderazione e la lentezza de’ generali a lui avversi; ma, opprime, taglieggia, spande da per tutto il terrore e prosieguo la sua corsa verso il Tagliamento. Il ponte era quivi troncato per un quarto della sua lunghezza; il fiume fu traghettato su piccole barche per togliere a San-Vito e nelle vicinanze materiali ed operai affine di restaurarlo. I crociati pel patrio affrancamento e le scarse truppe che difendevano la sponda, dopo breve resistenza si ritiravano, contando far mano, non sulla Livenza, ma sulla Piave. Alberto Ferrero della Marmora — uno tra i più dotti generali piemontesi, l’autore della Storia dell’isola di Sardegna, di cui ha tracciata la miglior carta che esista — spedito già dal suo governo nel Veneto, era in Narvesa a studiare i punti di’ difesa sul fiume. In Treviso adunavansi, oltre i volontari, un migliaio d’uomini di truppa regolare e due legioni di egual numero, una delle quali comandata dal conte Livio Zambeccari, di Bologna. Si attendevano d’ora in ora i 7,000 pontifici, cui duce era il generale Giovanni Durando, ed in seguito i 40,000 volontari di Roma, delle Marche, deH’Umbria condotti dal generale Andrea Ferrari. Coteste schiere, in gran parte non disciplinate, non bastavano ad infrenare i passi del Nugent, che, giunto già a Conegliano, avea allocato i suoi avamposti sulla ripa sinistra del fiume.

Sopramodo difficile è la difesa di una tal naturale barriera, impossibile, quando si hanno di contro forze di molto superiori e una lunga linea a sorvegliare. Or, il Durando ne avea una lunghissima dal Cadore alla Foce e insufficienti le truppe a’ suoi ordini; laonde, chiusa nel cuore ogni speranza, diede le sue disposizioni sui punti che pareano i meglio minacciati, se non per respingere, almeno per ritardare le operazioni di un inimico abile e forte. Ei fece minare i ponti e alcuni passi sulle montagne, affidandone la custodia a’ ripaiuoli e alle guardie civiche mobilizzate; collocò il Della Marmora innanzi Treviso con tre mila uomini; il rimanente delle truppe condusse in Montebelluna, e scrivea premurosamente al Ferrari rafforzasse le marce de’ suoi, per congiungerli ai reggimenti di linea in Treviso. Il Nugent esitò qualche giorni in Conegliano e in Oderzo; distaccò colonne a Ceneda, a Serravalle e spinse partiti sino a Mei sulla Piave; alla fine la Dovei la del prossimo arrivo de’romani il decise; e, cacciato un grosso corpo tra Belluno e Feltre, diresse tre mila uomini sulla prima città senza incontrar resistenza e usò il medesimo sull’altra che gli aprì le porte senza condizione veruna. 11 Durando ripiegò su Bassano onde abbarrare la valle della Brenta; e siccome il nemico, perseguendolo da Feltre, non avea che due strade, quella di Primolano e l’altra di Pederoba, cosi egli pose mille e dugento uomini nell’un paese, ritenendone con seco tre mila; l’altro era custodito dai romani del Ferrari che era in Montebelluna e in Narvesa col suo principal nerbo. Il nemico che avea frastagliato le sue schiere per tutti i paesi rioccupati, mandò quattro mila uomini sulle due strade. In Pederoba fu breve la resistenza; le truppe ripiegarono sopra Comuda, ove il generale Ferrari si recò sollecitamente con tremila de’ suoi. I nemici gli attaccarono la sera dell’otto, e le milizie civili — quantunque non use al [p. 112 modifica]fuoco della moschetteria e dei cannoni — resistettero all’empito della cavalleria, alle bombe ed ai razzi che piovevano sopra di loro. La oscurità della notte pose fine ai combattimento; ma, l’alba schiarava a mala pena l’orizzonte, che gli austriaci il riappiccavano, i nostri sostenendolo con una gagliardia maravigliosa. Il Ferrari aveva durante la notte spedito messaggi premurosi al Durando, per avvertirlo del fatto, pregarlo di accorrere subito e togliere le sue disposizioni qaal generai-co mandante; ne aveva avuto l’assicurazione che le di lui truppe si ponevano incontanente in marcia per Crespano. La certezza di un pronto soccorso animava i volontari romani, i quali tenevano in rispetto l’inimico coperto dal folto bosco del Mantello e lo ricacciavano colla baionetta da un colle. Intanto molti de’nostri erano mietuti dalla morte, tra i quali l’aiutante maggiore Danzetta, operosissimo e bravo. Nelle prime file, esempio di raro coraggio era il Gentiioni, di Filottrano, che i compagni animava colle parole e cogli atti ove meglio ferveva la mischia. Poc’oltre il mezzodì giungeva altra lettera del Durando, la quale diceva queste sole parole:

«Generale — Crespano — Vengo correndo. — Durando.»

Il Nugent sempre più rinforzava le sue posizioni con nuovi battaglioni. Il Ferrari, ornai certo del domandato soccorso, spinse innanzi uno de’ due battaglioni, che per qualunque evento avea fatto venire di Montebelluna. Anche poche ore, e le milizie, svigorite dalla veglia della notte precedente, dal continuato combattere, dal digiuno, dal soverchio entusiasmo e dal vedere il nemico ognor più crescente sui vari punti attaccati, cominciarono a diradare il fuoco e a cedere il terreno. Allora il generale ordinò si effettuasse il movimento di ritirata. Erano le cinque e un quarto pomeridiane.

La marcia fu ordinata, se non tranquilla. Gli austriaci che avevan patito di molte perdite, non osarono inquietare quella strategica mossa verso Montebelluna e non oltrepassarono il loro campo d’un passo. Ma, i nostri giunti colà e non trovandovi truppa di linea, gridarono ad alta voce essere ingannati dal Ferrari, traditi dal Durando, venduti al soprastante nemico. Le perfide insinuazioni allumarono un incendio; e tanta pauia e disordini entrò nelle legioni che avevano si gagliardamente combattuto poc’anzi, a disciogliere il freno della obbedienza e a partirsene a stormi ed a truppe per a Treviso ed anche più in là. Fu giuoco forza all’infelice generale seguire le improntitudini dei fuggiaschi e col resto della sua divisione abbandonare la Piave. Ei sperava raffrenar le paure, contenere la corsa, riordinarsi e riprendere Montebelluna pria che il nemico potesse occuparla; e perciò frettolosamente partecipava i lamentevoli eventi al Durando onde su vi pensasse; scriveva al generale Guidotti di difendere colla sua brigata i posti occupati, o si ritirasse su quel punto che stimasse il migliore; ed eguale ordine trasmetteva al bravo colonnello Gallieno. Inutile cura! Ambidue erano in marcia precipitosa verso Treviso, nell’atto che il Nugent—veduto sgombero il terreno—spingevasi a Montebelluna, e, rompendo gl’indugi, incalzava i nostri da presso.

La condotta del generale Durando era inesplicabile e senza scusa dinanzi agli [p. 113 modifica]uomini di guerra. A quattordici miglia di distanza, ei poteva prima del mezzodì condurre i desiderati rinforzi e cogliere il nemico a rovescio o alle spalle; e questo, preso tra due fuochi, facilmente sarebbesi sgominato e disperso. Egli era difetto partito di Bassano; e giunto a Pederoba, saputo da un lato il movimento retrogrado che gli austriaci facevano innanzi alla viva resistenza dei romani, e dall’altro avuto premuroso avviso che il corpo da lui lasciato a Primolano ed a Fastro poteva essere istantaneamente assalito, erasi ritirato di bel nuovo a Bassano. Le novelle di Primolano erano voci di nessuna importanza. Il generale operò marce e contromarce per manco di riflessione e di quel securo istinto che debb’essere, o frutto d’imparate regole, o naturai privilegio di un capitano di esercito.

Rimanendo il Ferrari in Treviso e non potendovelo il Durando raggiungere perchè la contrada la era tutta infestata dall’inimico, ei si portò a Cittadella, poco innanzi alla Brenta, ove poteva disputare il passaggio del fiume in Fontaniva o più in giù in Padova, i soli punti che il nemico potesse tentare per far quindi il suo congiungimento colle truppe del maresciallo in Verona. Queste infrattanto appressavansi a Treviso in tre punti diversi. Il Ferrari appostava i civili e i volontari fuori della città in luogo di minore pericolo; e co’ soldati di linea delie tre armi recavasi egli stesso in riconoscenza sulla via di Spresiano, ove — trovati gli avamposti tedeschi — gli respingeva per oltre due miglia; ma, imbattutosi in tal loco col grosso dell’esercito, i nostri — sordi alla voce del dovere e dell’onore — ripiegavano in tumulto, per colpa di alcuni capi cui il governo gregoriano avea dato gradi supremi in grazia di turpi e nefandi meriti. La fuga avvenne così precipitata e ruinosa, che un pezzo d’artiglieria col suo cassone rimase sull’infornato campo; ed ove i vincitori fossero stati più destri, avrebbero potuto penetrar nel paese insieme co’ vinti. Cotesto fatto demoralizzò sempre più le schiere stanziate in Treviso ed in ispecial modo i fonti di linea, i quali — oltre all’aver sempre minor orgoglio militare degli assoldati per le altre armi — erano raggranellati alla peggio nel modo che in altro libro ho accennato.

Laonde, il Ferrari radunato sollecito consiglio, proponeva lasciar nella piazza un presidio di 3,600 uomini — i migliori che avesse tra i granatieri, i reggimenti de’ volontari e i corpi-franchi — e trar seco il rimanente, di notte per la via di Mestre, la sola sicura. Ma, il grosso delle nostre genti, preso dal timor panico — malattia contagiosa che si facilmente si apprende nelle giovani schiere di recente battute — non voleva partire, adducendo a ragione non voler commettere una viltà collo abbandonare un paese che il nemico stringea come d’assedio. Oltre a ciò, una forte mano di giovani trevigiani abbarrava la porta della città per impedirne lo egresso. L’indomani — dodici maggio — fu ritentata la prova e riescì; il colonnello Lante rimase a comandante la piazza colla guarnigione di sopra accennata; la popolazione, sommante a quindicimila abitanti, pareva animata dal più nobile ardore; e la città circondata da muraglie era per lungo tratto inaccessibile a cagione delle paludose sponde del Sile. Facevano parte eziandio del presidio trecencinquantuno italiani di tutte regioni, venuti di Parigi a [p. 114 modifica]Genova con armi ed a spese del governo provvisorio di Francia ed accolti in quel porto con apparato di precauzioni e con tale freddezza a pungere potentemente il cuore di quei generosi nostri fratelli, i quali non amavan la patria d’allora, ma sin da quando era delitto d’esiglio e di morte lo esprimere per lei forti affetti. Gli conduceva Giacomo Antonini, di Novara, capitano nelle napoleoniche schiere; colonnello in quelle della Polonia risorta; or dai suoi, generale; uomo valente, arditissimo.

Il corpo del Nugent era in buona parte composto di transilvani e croati, grate brutta, ingorda e ladrona, uscita dalle povere sue contrade per far numero e forza ed opprimere con ogni crudeltà, con ogni preda il paese infestato da’ suoi passi. E’ campeggiavano sui prati tra Visnadello e Fontane e si spingevano a drappelli rubando ne’ più vicini villaggi. Lo stesso giorno che il Ferrari per Mestre, il generale Guidoni — che aveva avuto con lui un qualche alterco — col moschetto alla mano, quasi semplice milite, volle fare una sortita coi pochi che consentirono seguirlo. Rotto il cuore dall’angoscia, voleva morire. Invano il P. Ugo Bassi il raggiungeva a cavallo per esortarlo a non esporsi a certo pericolo. Egli cadde in quell’atto per molte ferite nel petto. Ma, fu vendicato; imperciocchè, gli austriaci n’ebbero un centinaio fuor di combattimento io quel giorno.

Intanto che tali cose accadevano fortunose e triste nel teatro della guerra italiana, siffatto avvenimento chiamasi in Roma, che ai molti parve incredibile.

Pio IX, il pontefice che avea benedetto alla Italia; lo iniziatore del movimento nazionale; quell’atleta del cielo, che avea detto «Iddio essere con noi» risorti a nuova e libera vita; non lasciato mai dalla putrida e fangosa diplomazia curialesca che dall’aula di Vienna s’ebbe mai sempre le sue inspirazioni; e da questa minacciato di uno scisma religioso in Germania; e persuaso dai suoi nunzi apostolici che la politica nuoceva alla fede, aveva tenuto nel concistoro segreto del 29 aprile un’allocuzione a’ cardinali sulle cose d’Italia. In essa il pontefice parlava di una guerra contro i popoli della Germania e scusavasi dal cooperarvi col dire, non aver dato altro comando alle truppe pontificie spedite a’ confini che questo «difendessero la integrità e la sicurezza degli Stati della Chiesa». Ma, il nostro popolo non era in guerra con quel di Germania — siccome i perversi della corte romana lo avevano suggerito all’anima meticolosa di Pio, si poco degna di un Vicario del Cristo; — sibbene collo imperator d’Austria che non si voleva più, per mezzo dei suoi proconsoli militari e politici, oppressore della Penisola; e padrone della sua parte più bella; e rompitor degli stessi suoi trattati nella invasione della provincia di Ferrara e dei ducati di Modena e di Parma. Gl’italiani, che brandiron le armi co’ loro principi, erano spinti da una idea eminentemente cattolica, quella che inspira ad ogni uomo lo istinto conservatore della propria dimora, della libertà del proprio comune, lo affetto per la propria provincia, la indipendenza della propria nazione. Ciò non poteva recar nocumento alla fede religiosa del popolo germanico; imperciocchè, anch’esso—dopo aver infranto i lacci dell’aulico dispotismo—avrebbe scacciato dalla sua terra qualunque straniero fosse [p. 115 modifica]venuto ad imporgli l’antica sua schiavitù.» Ma poiché alcuni desiderano» seguiva a dire la enciclica papale «che noi pure con gli altri popoli e principi d’Italia imprendiamo la guerra contro i germani, stimammo alla fine essere nostro debito di professare qui chiaramente e palesemente in questa solenne vostra adunanza: essere tal cosa lontana affatto dal nostro pensiero. Imperocché, noi, sebbene indegni, teniamo in terra le veci di colui, che è autore di pace e amante della carità; e per ufficio del supremo nostro apostolato, amiamo d’un medesimo paterno amore ed abbracciamo tutte le genti, tutti i popoli, tutte le nazioni.» I tristi consigliatori di Pio IX gli avevano dettato tali parole per uccidere nel cuore il principio della italianità, o per suscitargli i più possenti ostacoli, assottigliando le file de’difensori peninsulari, rendendo più numeroso, più altiero, più audace il nemico e promuovendo scandalosi disordini. Nè questi si fecero a lungo attendere. Il fior fiore della romana gioventù era al campo per rivendicare la patria in nazione contro una infellonita soldatesca che si facea giuoco d’ogni cosa più sacra, rubando gli averi, massacrando donne, vecchi, fanciulli, profanando gli altari e facendo ingiuria nel corpo alle caste vergini del Cristo. Moltissimi annoveravano tra que’ lontani i figliuoli, i mariti, i fratelli, i parenti, gli amici. Tutti furono presi dal più alto sdegno; e brandiron le armi; ed irruppero in concitate minacce contro i prelati che avevano ispirato al pontefice un atto sì odioso, sì avverso; e boriavano già doversi dare al paese altro governo, altro capo.

Il ministero istantaneamente adunossi e dichiarò come sua mente fosse ritirarsi da’ pubblici negozi, ove il principe non proclamasse formalmente la guerra allo imperatore d’Austria e rinviasse il di lui ambasciatore. La chiesta dimessione veniva accettata, autorizzandosi però i ministri a continovar francamente nello esercizio delle loro attribuzioni. La guardia cittadina occupava tutte le porte della città; lo ingresso dà circoli affollatissimi e deliberanti sulle sorti comuni; il forte Sant’Angiolo e la polveriera di San Paolo. Nell’ufficio della posta vengono sequestrate tutte le lettere dirette a’ cardinali e a’ prelati; le quali, consegnate al senatore Corsini, sono dissuggellate e lette onde vedere se alcuna corrispondenza riveli congiure e soprusi a danno del pubblico. Le così dette eminenze, chiuse e custodite ne’ loro palazzi, non dimore di umili apostoli, ma di principi orgogliosi; il popolo intendeva chiuderli tutti in castello. Effetto eguale alla causa!

Gl’intriganti in carica, avvezzi da gran tempo agli spensierati diletti del dispotismo che le recenti libertà popolari lor ritoglievano, avevano trascinato Pio IX nelle ambagi di una cospirazione tremenda. Il di lui carattere irresoluto, debolissimo, devoto, inferiore all’altezza de’casi e de’ tempi; la mezzanità dello ingegno suo; le minute subdolerie di cui erasi alimentato nella sua vita di prete, di vescovo, di diplomatico; e la gelosa cura che risentiva nel cuore per la persona di re Carlo-Alberto — a suo credere, signore d’Italia, se vincitore — lo mettevano agevolmente in loro balìa. La trama ordivasi da lunghi mesi nel silenzio delle notti. Il principe sorrideva in palese; covava dentro però lo amaro sogghigno. Nel Quirinale erano frequenti i conciliaboli tenuti co’ cardinali Bernetti, [p. 116 modifica]della Genga, Antonelli, Lambruschini ed Altieri. Un giorno, passeggiando in privato cocchio fuori della porta Portese, egli arrestossi in una casa a diritta della strada e quivi s ebbe due ore di abboccamento col conte di Lutzoff, ministro delle austriache volontà. L’Altieri era presente. Essi tolsero i concerti sulla impresa a tentarsi, onde troncare ogni speme agli spiriti caldi e animosi, e ricondurre i principii e le dottrine governative all’ordine antico; e stabilirono le basi dell’allocuzione concistoriale, la quale dovea riprovare e interdire la guerra italiana contro le mire del gabinetto di Vienna. In caso di subugli e di anarchici eccessi, era fisso ohe il papa dovesse fuggire di Roma e riparare in Napoli, ove il palazzo della Foresteria lo avrebbe temporalmente accolto. Il cardinale Giacomo Antonelli — tipo di gesuitica doppiezza — interrogato dai suoi colleghi i ministri Pasolini, Rocchi e Simonetti, se i sensi della enciclica gli fossero noti, rispondeva: «Averne contezza come prelato di Santa Chiesa, ignorarli come uomo di Stato». E pure nella gazzetta d’Augusta del 2 maggio leggevasi la seguente dichiarazione del nunzio apostolico in Vienna; la era scritta a’ dl 29 aprile, giorno in cui fa letta nel concistoro la pontificale allocuzione: «In un proclama inserito dal conte Giovanni Battista Batthyani — ministro ungherese — nel supplemento della sera alla Gazzetta di Vienna del 28 aprile, si suppone che il papa abbia cominciato la guerra coll’Austria. Siamo autorizzati a dichiarare che la supposizione del signor Conte è affatto senza fondamento, giacché il Santo Padre ed il suo Governo non hanno cessato di mantenere relazioni amichevoli colla corte imperiale austriaca.» Il giorno innanzi della pubblicazione della enciclica per le stampe, il ministro Recchi che aveva tutte le apparenze del favore sovrano, volle tenerne proposito al papa come di cosa le cui sparse voci gli davan pensiero. fi quegli a lui: «Le parole sono tutte di religione e di pace; non danneggiano punto la causa della italiana nazionalità. Anzi, potrò farvi leggere le bozze, «se le son pronte nella tipografia camerale». Di fatto, ei spediva a prenderle; ma non vennero mai. Tali tortuosità governative ho voluto discorrerle per filo e per segno, onde far noto fin d’ora che in Roma le riforme carpite dalla opinione pubblica avevano mutato le frasi del potere, non l’anima, e che i buoni potevano pel momento acquetare il conflitto della teocrazia colla libertà, rappacificarlo giammai.

Il conte Terenzio Mamiani tentava la impresa. Chiamato dal papa, dopo lungo colloquio assumeva la commessione di comporre un ministero tutto di laici; il giorno dipoi il consiglio era siffattamente costituito. Egli era ministro dello interno; il conte Giovanni Marchetti, delle relazioni estere; Pasquale de’ Rossi, di grazia e giustizia; l’avvocato Lunati, delle finanze; il principe Filippo Doria-Pamphily, presidente delle armi; il duca di Rignano, del commercio e de’ lavori pubblici; l’avvocato Giuseppe Galletti, della polizia. Al popolo romano erano noti cotesti nomi; e particolarmente quello del Galletti, uomo di specchiata rettitudine, eccellente nel dire e negli atti, vittima antica di civili sollicitudini; e l’altro del Mamiani, il quale avea recentemente pubblicato un programma per la elezione dei deputati, in cui dichiarava doversi «procurare per prima cosa di aiutare la guerra santa con ogni maniera ed efficacia di mezzi; nè fermarsi agli effetti [p. 117 modifica]«del primo ardore; ma ripeterli ed aumentarli via via con infaticabile zelo». E più sotto: «con l’Austria non transigere mai e non fermare la pace finché le Alpi non segnino da una banda i confini d’Italia dal Varo al Brennero e da questo al Sava ed al Quarnero». Il paese si tranquillò; la gente minuta tornò alle officine; e non più ne’ crocchi parlò di pericoli e di rimedi. Tutti fidavano nello amore che il Mamiani nudriva per la indipendenza della patria e nelle sue credenze costituzionali monarchiche.

Gli errori politici della enciclica dovevano essere ammendati. Il popolo lo esigeva, il novello ministero lo consigliava. Ei fu mestieri che il corrivo pontefice si sottomettesse ad una ritrattazione. Molte cose riferì a voce alle deputazioni che erano andate a complirlo; la seguente lettera autografa dovette però dirigere allo imperatore d’Austria: «Fu sempre consueto che da questa Santa Sede si pronunciasse una parola di pace in mezzo alle guerre che insanguinavano il suolo cristiano, e nella nostra allocuzione del 29 decorso, mentre abbiamo detto che rifugge il nostro cuore paterno dal dichiarare una guerra, abbiamo espressamente annunziato l’ardente nostro desiderio di contribuire alla pace.

«Non sia dunque discaro alla maestà vostra che noi ci rivolgiamo alla sua pietà e religione, esortandola con paterno affetto a far cessare le sue armi da una guerra, la quale, senza poter riconquistare all’impero gli animi de’ lombardi e de’ veneti, trae con sè la funesta serie di calamità che sogliono accompagnarla e che sono da lei certamente abbonite e detestate. Non sia discaro alla generosa nazione tedesca che noi invitiamo a deporre gli odii e a convertire in utili relazioni di amichevole vicinato una dominazione che non sarebbe nobile nè felice, quando sul ferro unicamente riposasse.

«Così noi confidiamo che la nazione stessa, onestamente altera della nazionalità propria, non metterà l’onor suo in sanguinosi tentativi contro la nazione italiana, ma lo metterà piuttosto nel riconoscerla nobilmente per sorella, come entrambe sono figliuole nostre e al cuor nostro carissime; riducendosi ad abitare ciascuna i naturali confini con onorevoli patti e con la benedizione del Signore.

«Preghiamo intanto il Dator d’ogni lume e l’Autor d’ogni bene che inspiri la Maestà Vostra di santi consigli, mentre dall’intimo del cuore diamo a Lei, a Sua Maestà l’imperatrice e all’imperiale famiglia l’Apostolica Benedizione.

«Datum Romae apud Sanctam Mariam Majorem, die 3 maii anno mdcccxlviii, Pontificatus nostri anno secundo.

«Pius Papa IX.»

L’ambasciatore d’Austria riceveva bentosto i suoi passaporti; ma, lasciando il palazzo di Venezia, egli vantavasi di aver lasciato tale una spina confitta nel cuor del pontefice a non dubitar più del trionfo della casa d’Ausborgo. Contemporaneamente, il ministro Doria Pamphily tramandava un ordine alle milizie combattenti nel Veneto, in cui erano notevoli cotesto magnifiche parole:

«L’influsso di quella mano augustissima, che già vi benedisse sul Quirinale allorquando marciaste, non può mai ritirarsi da voi in qualunque parte d’Italia ed a qualunque nobile fazione siate condotti.

[p. 118 modifica]«I guerrieri del magnanimo Carlo-Alberto, cui vi annodate insieme coi vaiorosi di Toscana e di Napoli, formano un esercito da vincere in qualunque tempo ogni ostacolo e debellare qualsivoglia numero di orgogliosi nemici. Pare, l’immortale Pio IX per accrescere, se pure fia d’uopo, o soldati, la vostra forza ed il vostro coraggio, ha benignamente risoluto di formare un’eletta di altri sei mila combattenti, i quali in ogni occasione emulerano la vostra bravura.»

Era vasto il disegno del Doria, lo scopo grandissimo, favorevoli le condizioni; ma queste congiunte in tutta Italia allo imperar d’uomini, i quali non sapevano approfittarne per preconcetto giudicio, per cattivezza e per inesperienza di rivoluzioni e di guerra.

La opinione pubblica aveva già mormorato sullo inutile tentativo fatto sopra Peschiera; attendevansi di Piemonte i materiali d’assedio per persuadere colla ragion del cannone il governatore alla resa di quella piazza. Il ministero muoveva istanze perchè le mosse offensive si continuassero; i gazzettieri prorompevano io biasimo più o meno aperto sulle cose si a rilento operate, sulla persona che le dirigeva e sul nessun prò ritirato dalla vittoria di Pastrengo. Il re che leggeva quei fogli, entrava in gravi pensieri e ordinava lo esercito escisse da quell’apparente immobilità. Quelli che con tanta avventatezza parlavano e scrivevano, non riflettevano punto che le classi nuovamente giunte dal regno, non aventi degli assoldati che la paga, la divisa ed il nome, dovevano istruirsi almeno nel maneggio delle anni pria di rischiarle dinanzi a disciplinato nemico. Alcuni segreti messaggi spediti di Verona al Quartier-generale, davano speranza che gli abitanti di quella città sarebbero insorti all’apparìre de’ nostri nelle vicinanze e all’escir del presidio; dicevano altresì che 5,000 lombardi avrebbero disertato e battuto di fianco gli austriaci; e aggiungevano che le truppe ungheresi, conscie di ciò che accadeva nella loro patria, difficilmente avrebbero preso parte al combattimento. Con tali speranze di successo probabile — non certo — il re, di Sommacampagna, senza molto precisare il come ai capi di schiere, comandava si eseguisse l’indomani — 6 maggio — una ricognizione offensiva sotto Verona, la piazza la più importante che l’Austria possegga in Italia, come quella che fa capo della strada fortificata che di Salisborgo pel Tirolo scende sull’Adige. Situata a’ piedi d’alte montagne, il fiume tortuosamente l’attraversa, separandola in due parti disuguali, riunite mediante tre ponti pel traffico de’ suoi 50,000 abitanti. L’Austria cominciò a fortificare cotesto importantissimo paese nel 1823, costruendo sulla parte sinistra dell’Adige una linea di opere giusta il principio delle torri Massimiliane, e sulla dritta sei bastioni secondo il sistema stabilito |da Carnot, per riunire in una piazza il doppio risultato della offesa e della difesa. Nelle campagne circonvicine, si nel piano come nelle alture sono sparse altre opere avanzate, costrutte a guisa di forni,, le quali non prestano lungo vantaggio all’assediata città.

Nelle prime ore del mattino, le truppe che furono avvertite a tempo si mossero dai rispettivi campi di Pastrengo e di Goito e discesero sulla pianura scaldate di grande entusiasmo. L’ala diritta dell’armata capitanavala il generale di Ferrere e la [p. 119 modifica]era composta delle due brigate d’Acqui e di Casale e di due batterie. L’ala sinistra era guidata dal generale Broglia di Casalborgone, e dessa formavasi della terza divisione. Il centro, ove trovavasi il re, rassembrava le brigate di Aosta e delle Guardie, il battaglione Real-Navi e la compagnia del Griffini. Il duca di Savoia guidava l’avanguardo ch’ei rassegnava nelle brigate di Cuneo e della Regina ed in un forte drappello di cavalleria. Dietro questi il centro avanzavasi, lasciando a’ due lati il resto dell’armata a scaloni.

Il nemico occupava tutta la linea dinanzi ai bastioni della piazza, da Chievo a Tomba; campeggiava alla Croce-Bianca, a San-Massimo, a Santa-Lucia; e spingeva i suoi avamposti a Feniletto sulla via che mena a Peschiera; a Camponi su quella di Sommacampagna; e a Dossobono sull’altra di Villafranca. Il piano già stabilito alTindigroKo nel Quartier-generale era questo; le nostre forze distribuite io quattro divisioni, dovevano marciare sulle posizioni centrali della Croce-Bianca, di San-Massimo e di Santa-Lucia, impadronirsene, chiamare gl’imperiali a battaglia fuor di Verona, e dar agio al movimento popolare nello interno.

Oh! come gli è bello e desiderato dalle forti schiere lo spettacolo di una campale giornata!.... Da lungi, il sole che spunta infiamma a poco a poco co’ vividi suoi raggi le azzurre montagne, le verdeggianti colline. La pianura, coperta d’uomini, di cavalli, di carreggi, di artiglierìe, manda un suono confuso che non si sa definire. D’un tratto, quel rumore si tace e a lui succede la calma foriera della tempesta; quindi, lo strepito si rinnova, cresce, raddoppia ed assume la voce fragorosa, scrosciante del tuono; una spessa nugola di polvere riscossa e di fumo cuopre le due genti che ordinatamente si azzuffano; talchè non più si distinguono le azzurre tinte del cielo e dei monti, nè il verde delle colline. È la terra, la qual sembra si commuova e ruggisca. Allora la morte campeggia sul piano e miete la vite di quelli il cui destino è scrìtto sul libro fatale. Anche una volta, e dopo tanto subuglio odesi un novello silenzio, interrotto ad intervalli dalle grida vittoriose de’ fortunati vincenti, o dal doloroso gemito degli agonizzanti. La polvere non più riscossa e sedato il fumo delle armi da fuoco, la pianura vedesi di bel nuovo; ma, qua e là coperta di cadaveri ammonticchiati; e presso alle rotte carra miransi uomini guasti e monchi nella persona contorcerà e smaniare su larghe pozzanghere di sangue...Oh! l’osceno spettacolo d’un campo di battaglia! Io maraviglio vi sieno ancora tali che pensatamente possano ordinare una tanta carnificina, quand’essa non la sia richiesta dalla dignità nazionale e dalla salute della patria contro le avare smanie di un ingordo straniero.

Tale la situazione degl’italiani in faccia ai soldati dello impero. Non tutti i nati però nelle nostre contrade sentivano la santità de’ loro diritti e il religioso amore che si debbe alla patria; gl’indegni dovevano essere presso la persona del re; imperciocchè, il Radetzky, avvertito delle disposizioni dell’attacco, avea tolto a capello i suoi provvedimenti per la più ostinata difesa. La colonna dei centro, marciando verso San-Massimo, trovò soperchiale il nemico; e siccome le due ali dell’esercito — non so dire se per malignità dei capi, o per tarda trasmessione [p. 120 modifica]d’ordini dallo stato-maggior-generale — erano indietro di molto, la piegava a diritta per una strada asserragliata ad ogni tratto da canali e da fossi d’irrigazione per gittarsi sul cimitero di Santa-Lucia, ove l’avanguardo sosteneva solo da qualche tempo tutto l’urto de’ suoi difenditori. Un reggimento della brigata d’Aosta si slancia all’assalto; a questo altri succedono; gli ostacoli si annullano dinanzi l’empito de’ nostri che ardiscono applicare la canna del loro moschetto nelle feritoie stesse dell’avversario; e, superato il muro del cemeterio, caricano que’ che vi si rimpiattano colla punta della baionetta e ne fanno un orribile scempio. Un battaglione de’ cacciatori Guardie, condotto dal maggiore Cappai, s’impadronisce d’un casolare, fortemente tenuto, detto la Pellegrina. Le molte difficoltà del terreno impedivano alla nostra artiglieria di proteggere gli assediami che muovevano verso il villaggio, ove la mitraglia gli decimava; le troppe, giovanissime alle armi, ignare di disciplina, caricavano come schiere provette per entusiasmo, per amore della causa e del re che sul suo cavallo morello vedovasi impassibile nelle prime file; ma, colla facilità istessa si scompigliavano, risculandò dopo un attacco infruttuoso e la molta mortalità de’ compagni. Il 16° reggimento, brigata di Savona, sgominato dal fuoco delle batterie mimiche, e colto da miro spavento, fugge in dirotta; il colonnello, un maggiore, parecchi ufficiali si coprivano di vergogna; il sottotenente Carisio si rimane con pochi nel posto del pericolo e dell’onore, sperando che la propria intrepidezza richiamerebbe gli smarriti presso la bandiera ch’egli portava e che tutti doveano difendere. Non ostante, il villaggio di Santa-Lucia fu preso due volte, malgrado la mitraglia e i proietti di ogni maniera. Di quinci Verona apresi tutta dinanzi, dai bastioni alla parte superiore della città. Il re arrestossi presso l’ultima casa ed a luogo; ma, inutilmente vi attese il pattovito segnale. Nulla dava indizio del benché menomo movimento. E siccome giunsero triste novelle della divisione Broglia che era all’attacco della Croce-Bianca — la quale poteva essere circondata dal nemico acquartierato nel villaggio di San-Massimo giammai inquietato dai nostri — veniva decisa la ritirata pei medesimi alloggiamenti d’onde le truppe eransi ritolte il mattino. Il villaggio fu affidato alla brigata Cuneo capitanata dal valoroso duca di Savoia, il quale si aveva l’ordine di non abbandonar la posizione fino a che le altre colonne non fossero già a lunga distanza. Gl’imperiali l’assalirono immediatamente con impeto grande senza alcun pro; nell’atto che una buona mano di tirolesi, correndo inosservata verso alcune case di campagna sulla linea percorsa dalla seconda divisione, con quel loro trarre inatteso, vi posero la confusione e il disordine, malgrado la voce e lo esempio degli ufficiali. Fortunatamente, la mezza batteria agli ordini del tenente Salino e la compagnia del Griffini opposero una valida resistenza e rimediarono all’effetto ed alla causa; qual’era lo imperdonabile obblio del generale di Ferrere nel non aver fatto occupar quelle case medesime dai bersaglieri onde proteggere la ritirata di quella colonna, e allocare in vantaggiosi luoghi ed a convenienti distanze alcuni drappelli delle diverse armi.

Cotesta impresa, operala soltanto per concedere una soddisfazione a chi lamentava [p. 121 modifica]il soverchio della inerzia nel campo, malamente diretta e senza insieme, senza la menoma conoscenza del terreno, con uno spreco di sangue, come se da lei dipendessero le sorti supreme d’Italia, colmò di stupore gli austriaci — i quali tolsero un’alta idea del valore italiano—e impensieriva i nostri sulla poca perizia de» capi e sulla nessuna previdenza del corpo sanitario. Un migliaio di piemontesi rimase fuori di combattimento. Gloriosamente perirono il cavalier Caccia, colonnello del quinto reggimento; il quale, traforato il petto da una palla, proferì negli estremi singulti: «Come io sono felice di morire per la mia Italia!»; il cavaliere Alfonso Balbis, aiutante di campo del general Sommariva, che ogni più caro affetto aveva fatto succedere a quello santissimo della patria minacciata sui liberi campi lombardi; il marchese del Carretto, spento sul cannone di cui dirigeva il fuoco; il marchese Colli di Felizzano, tenente d’artiglieria, abiatico di quel bravo che nel 1795 difese la linea appennina contro Massena. Tra i feriti si notarono il colonnello Manassere; il maggiore Cozzani; il capitano artigliere della Valle; il capitano Righini dello stato-maggior-generale; il soldato Deschamps dell’artiglieria a cavallo, che rimase al suo posto quantunque una scheggia di mitraglia gli avesse strappato due dita; e l’intrepido capitano d’Yvoley, il quale — non curando una grave ferita già riportata — continovò a combattere sino al punto in cui un altro proietto non venne a fracassargli l’osso della gamba. Vo’ notare altresì l’atto generoso e pio del tenente di Loc-Maria — nativo di Francia e di parte legittimista — la cui religione, nella ritirata, fu scossa alla vista di alcuni soldati giacenti sul campo alla mercè de’ croati; ond’egli, con pochi de’ suoi malgrado il grandinar delle palle, gli raccattava e gli facea salvi per tempi migliori.

Il nemico deplorò all’incirca la perdita di 900 de’ suoi. Caddero morti il maggior generale Strassoldo; il colonnello Leuteendorf e il di lui aiutante generale Batistig; il capitano Zergollern; il tenente Pezoli; il colonnello Nadarms; il tenente Stradi; e gravemente feriti il conte Salis, maggior generale; il colonnello degli ungheresi Pettornhai; i capitani Brandt e Betzold; il tenente Wolf di Eiggenberg; al tenente maresciallo principe di Schwartzemberg una palla strisciò il dorso, ferendolo; al maresciallo Wratislaw, comandante il primo corpo d’armata, fu morto il cavallo. Avevano assistito alla battaglia tutti i giovani arciduchi della casa imperiale.

Alcuni dì innanzi, la divisione toscana — dilatando il suo campo d’operazione sino al villaggio di San Silvestro a due miglia di Mantova — ingaggiato aveva il fuoco con parecchie compagnie ungheresi del reggimento Gyulai, presso Chiesanova, ove que’ soldati occupavansi a far tagliare tutti gli alberi della campagna. La ricognizione era diretta dal maggiore Belluomini, vecchio soldato che le nevi di Russia han risparmiato alla Italia. Dopo breve resistenza i nemici furono presi e infugati, ed alcuni ardimentosi giovani gli rincorsero sin sotto le mura del forte. Anche due giorni, e ricomparvero, in numero di mille con due pezzi d’artiglieria centro i posti avanzati di San-Silvestro, d’onde ben presto volsero ignominiosamente le spalle, e in numero di duemila all’incirca avviaronsi verso il campo di Cullatone; quivi trovaronsi a fronte del secondo battaglione del 10° di [p. 122 modifica]linea napoletano che, gittando grandi urli a suo modo, si cacciò loro addosso; e l’avanguardo a fuggire; ma, in quello stante sboccavano da una prossima via altri uomini in colonna serrata, aventi veste di velluto e cappello piumato alla foggia de’ volontari lombardi, i quali preceduti da una bandiera tricolore, ivan gridando «Viva Pio IX! Viva l’Italia!». I napoletani ed i militi livornesi gli stimarono fratelli, risposero al gradito saluto e corsero ad abbracciarli. Allora, que’ perfidi tranellieri scuoprono un pezzo d’artiglieria, dan fuoco e partono precipitosi. I nostri gl’inseguirono per trarre vendetta di tradimento sì nero. Cotesto manco di lealtà è degno di vili assassini e non di soldati. Ma da quelle orde che insozzano la Italia abbiam veduto commettere anche di peggio.