La Nascita della Tragedia/Capitolo XXII

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Friedrich Nietzsche - La Nascita della Tragedia (1872)
Traduzione dal tedesco di Enrico Ruta (1919)
Capitolo XXII
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Capitolo XXII.

Il mondo individuativo e l’annientamento. — La confusione dell’estetica con la morale. — Lo schietto ascoltatore estetico e il critico. — La tendenza. — Il vero gusto.

Il lettore attento e coscienzioso si richiami ora alla mente, puro e incorrotto, secondo la sua propria esperienza, l’effetto di una vera tragedia musicale. Io credo di avere illustrato dall’un lato e dall’altro il fenomeno di questo effetto, in tal modo che egli adesso saprà interpetrare i dati della sua propria esperienza. Egli, cioè, si ricorderà, che, per quanto concerne il mito che gli si svolgeva davanti, si sentiva come salito a una specie di onniscienza, quasi che la virtù visiva dei suoi occhi non fosse una potenza meramente superficiale ma fosse abilitata a penetrare nell’intimo; e quasi che le fluttuazioni della volontà, la lotta dei motivi, il trabocco dilagante delle passioni, adesso, con l’aiuto della musica, fossero divenuti visibili ai suoi occhi in modo, per così dire, tangibile ai sensi, come un tumulto di linee e di figure vivamente mosse, e al suo animo fosse dato d’immergersi nei più delicati misteri delle emozioni inconscie. Ma nel momento stesso che egli si accorge che i suoi istinti di visione e di lucidità nel veder chiaro le immagini fuori di sé gli si sono affinati al massimo grado, pure sente con altrettanta [p. 191 modifica] precisione, che questa lunga serie di effetti artistici apollinei non hanno punto prodotto in lui quella felice perduranza della contemplazione involontaria, che ottengono in lui l’artista plastico e il poeta epico, ossia gli artisti specificamente apollinei; vai quanto dire, che non hanno prodotto in lui la giustificazione del mondo della individuatio che si raggiunge appunto nella contemplazione, e che rappresenta il culmine e la sostanza dell’arte apollinea; Contempla, divenutogli chiaro, il mondo della scena, eppure lo nega. Vede davanti a sè con epica chiarezza e bellezza l’eroe tragico, eppure si diletta del suo annientamento. Comprende fino all’intimo gli avvenimenti scenici, eppure si rifugia volentieri nell’incomprensibile. Sente giustificati gli atti dell’eroe, eppure prova maggiore elevazione d’animo, che questi atti distruggano l’autore. Rabbrividisce dei mali che colpiscono l’eroe, eppure presagisce in cotesti mali una gioia più alta, di gran lunga più soverchiante. Vede di più e più a fondo che mai, eppure si desidera cieco. Donde deriveremmo questa stupenda antinomia interiore, questo spianamento delle cime apollinee, se non dall’incantesimo dionisiaco, che, pure eccitando al massimo grado alle forme dell’apparenza i moti apollinei, nondimeno ha virtù di sottomettere al proprio servigio cotesta esuberanza della forza apollinea? Bisogna intendere il mito tragico meramente come una figurazione allegorica della sapienza dionisiaca ottenuta mercè i mezzi artistici apollinei: esso mena [p. 192 modifica] il mondo del fenomeno ai limiti dove nega sé stesso e cerca di rifugiarsi nuovamente nel seno della vera e unica realtà; dove il mondo del fenomeno sembra, dunque, che intoni, con Isotta, il suo metafisico canto del cigno:


Nel fiotto ondeggiante

del mare voluttuoso,
nell’eco sonoro
delle onde vaporose,
nel Tutto anelante
dell’alito universale,
annegarsi, sommergersi,

ignoti: suprema gioia!


In questo medesimo modo noi, attenendoci alle esperienze dell’ascoltatore veramente esteta, ci rappresentiamo anche l’artista tragico: egli, simile a un esuberante iddio dell’individuatio, crea le sue figure; e in questo senso la sua opera potrebbe approssimativamente forse intendersi come una «imitazione della natura»; ma poi il suo mostruoso istinto dionisiaco inghiotte tutto cotesto mondo dei fenomeni, per far presagire dietro di esso e per mezzo del suo annientamento una suprema gioia artistica primordiale nel seno dell’uno primigenio. Certo, non sanno dirci nulla i nostri esteti di questo ritorno alla patria originaria, della fratellanza delle due divinità artistiche nella tragedia, e della commozione tanto apollinea che dionisiaca dell’ascoltatore; mentre, d’altronde, non si stancano di caratterizzare la [p. 193 modifica] lotta dell’eroe col destino, la vittoria dell’ordine morale del mondo o la purificazione degli affetti per mezzo della tragedia, di caratterizzarle, dico, come il cómpito specificamente tragico. Pertanto questa loro infaticabile ostinatezza m’induce a pensare, che essi in generale siano uomini refrattari alle sensazioni estetiche, e che forse, quando ascoltano la tragedia, bisogna considerarli unicamente come esseri morali. Non mai, fin dai tempi di Aristotele, è stata data dell’effetto tragico una spiegazione desunta da stati d’animo artistici, ricavata dall’attitudine estetica dell’ascoltatore. Ora la compassione e la paura devono essere spinte a un sollievo di liberazione dalle più fosche peripezie, ora dobbiamo sentirci elevati e edificati dalla vittoria dei buoni e nobili principii, dall’immolazione dell’eroe fatta nel senso di una concezione morale del mondo; onde, come io credo di certo, che per moltissimi uomini è proprio questo e unicamente questo l’effetto della tragedia, così credo conseguirne chiaro e lampante, che tutti costoro, insieme con gli esteti loro interpetri, non abbiano compreso nulla della tragedia, riguardata nella vera sua essenza di somma arte. Quel sollievo patologico, la catarsi di Aristotele, che i filologi non sanno bene se bisogni annoverarla tra i fenomeni fisiologici o tra i fenomeni morali, mi riporta alla mente un notevole presagio di Goethe. «Non mi è mai riuscito senza un vivo interesse patologico», egli dice, «di elaborare una situazione tragica, e perciò ho [p. 194 modifica] preferito di scansarla piuttosto che andare a cercarla. É stato forse anche questo uno dei privilegi degli antichi, che per loro il supremo patetico era anch’esso un puro gioco estetico, laddove presso di noi è indispensabile, a produrre un tale effetto, la cooperazione della verità naturale?». A tale domanda, ispirata a un senso così profondo, ci è dato ora di rispondere affermativamente dopo le piagnifiche conoscenze che abbiamo apprese, dopo che appunto sulla tragedia musicale abbiamo con stupore fatto esperienza, che il supremo patetico può pure non essere altro che un semplice gioco estetico; ragion per cui ci è lecito credere, che non prima di adesso si possa descrivere con buon risultamento il fenomeno primordiale del tragico. A chiunque, ciò nonostante, non ha altri argomenti di cui parlare che gli effetti posticci presi dalle sfere estraestetiche, e non si sente sollevato al disopra del processo patologico-morale, non rimane altro, che disperare della propria natura estetica; e perciò gli commendiamo, come innocente compenso, l’interpetrazione di Shakespeare alla maniera di Gervinus e l’industre ricerca della «giustizia poetica».

In tal modo, con la rinascita della tragedia è rinato anche l’ascoltatore estetico, al cui posto ha usato finora assidersi in teatro un bizzarro qui pro pro, con pretese mezzo morali e mezzo dottrinali: vale a dire il «critico». Finora nella sua sfera tutto era artificioso, tutto intonacato superficialmente con solo un’apparenza [p. 195 modifica] di vita. In effetto, l’artista rappresentativo non sapeva più come regolarsi davanti a un ascoltatore atteggiato a critico, e insieme col suo ispiratore, il drammaturgo o il melodrammaturgo, spiava ansiosamente gli estremi resti di vita in cotesto essere pretensiosamente arido e incapace di gusto e di godimento. Ma precisamente di critici di tal sorta era composto finora il pubblico: già l’indole stessa dell’educazione e i giornali predisponevano a una cosiffatta suscezione dell’opera d’arte, senza che se ne rendessero conto, lo studente, lo scolaro, perfino l’innocente giovinetta. Le più nobili nature di artisti, dato cotesto pubblico, facevano a fidanza sulla suscitazione delle energie morali-religiose, e revocazione dell’ordine morale del mondo» sopravveniva surrettiziamente al punto giusto, dove la vera e sola potenza del fascino artistico avrebbe dovuto rapire lo schietto ascoltatore. Oppure il drammaturgo rappresentava sulla scena una tendenza grandiosa o, almeno, passionale del momento politico e sociale, con tanta evidenza, che l’ascoltatore poteva uscire dalla sua aridità critica e abbandonarsi ai propri sentimenti come nelle ore patriottiche o guerresche, o come davanti alla solennità della tribuna parlamentare o davanti alla condanna del delitto e del vizio: che era uno straniarsi dai fini specifici dell’arte, il quale nell’un caso e nell’altro doveva condurre al culto della tendenza. Se non che, avvenne anche qui ciò che è avvenuto di tutte le arti affettate e infinte; cioè un precipitoso pervertimento di [p. 196 modifica] quelle tendenze; tanto precipitoso, che, per esempio, la tendenza di adibire il teatro a istituto di educazione morale del popolo, tendenza che ai tempi di Schiller fu presa sul serio, viene già annoverata tra le anticaglie poco attendibili di una cultura superata da un pezzo. Mentre in teatro e nei concerti dominava il critico, nella scuola il giornalista, nella società la stampa, l’arte si degradava in un oggetto di trattenimento della più vile specie, e la critica d’arte era adoperata come cemento a tenere insieme un mondo frivolo, dissipato, egoistico e, per giunta, miserabilmente privo di originalità, il cui stato mentale ci è fatto intendere dalla parabola schopenhaueriana degl’istrici; talmente che in nessun tempo mai si cicalò tanto di arte, e tanto poca se ne ebbe. Ma càpita tuttora di far la conoscenza di un uomo, il quale sia in grado di parlare di Beethoven e di Shakespeare? A tale domanda ognuno risponderà secondo il proprio sentimento: a ogni modo, con la risposta dimostrerà che cosa egli intende per «cultura», presupposto che in generale cerchi di rispondere alla domanda, e che sul bel principio non ammutolisca dalla stupefazione.

Per contro, chi fosse stato dotato dalla natura di qualità più nobili e delicate, sebbene poi divenuto, nella conformità or ora descritta, un barbaro criticante, dovrebbe pur parlare di un effetto altrettanto inatteso quanto del tutto incomprensibile, suscitato in lui, per dirne una, da una felice esecuzione del Lohengrin; solo che [p. 197 modifica] forse gli mancò il filo conduttore che lo sostenesse e guidasse chiaramente nell’iniziazione; cosicché quella sensazione inconcepibilmente multiforme e assolutamente impareggiabile che allora lo scosse, rimase solitaria, e dopo un poco a guisa di un’arcana stella dileguò. Ma solo allora egli intuì ciò che sia l’ascoltatore estetico.