La Nascita della Tragedia/Saggio di un'autocritica/V.

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Saggio di un'autocritica - IV. Saggio di un'autocritica - VI.
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V

Il mondo come creazione artistica.

La negazione del cristianesimo.


Nella prefazione a Riccardo Wagner già era presentata l’arte, e non la morale, come l’attività metafisica propria dell’uomo; e anche nel libro [p. 10 modifica] ricorre sovente la caustica tesi, che l’esistenza del mondo non si giustifica altrimenti che come fenomeno estetico. Col fatto, l'intero libro riconosce unicamente un intendimento e un sottinteso artistico in tutto il creato: un dio, se così piace dire, ma certamente un dio artista affatto istintivo e amorale, che nel costruire come nel distruggere, nel bene come nel male, intende di uniformarsi al suo proprio benpiacere e alla propria gloria di dominio, e che, creando il mondo, si spaccia dalle pastoie della pienezza e dell’esuberanza e dalla pena delle contraddizioni che in quello si ammatassano. Il mondo, concepito come la liberazione di un dio raggiunta a ogni istante, come visione eternamente cangiante, eternamente nuova del massimo soffrire, della massima opposizione, della massima contraddizione, che è capace di redimersi solamente nell’apparenza della realtà: è questa un’intera metafisica da artista, che può definirsi arbitraria, oziosa, fantastica; ma in essa l’essenziale è, che già prenunzia una mente, che un giorno si porrà allo sbaraglio contro l’interpretazione e significazione morale dell’esistenza. Vi si annunzia, forse per la prima volta, un pessimismo «di là dal bene e dal male», e vi trova il suo verbo e la sua formola quella «perversità del sentimento», contro la quale lo Schopenhauer non si è stancato di avventare anticipatamente le sue più furibonde imprecazioni e le sue folgori: una filosofia che osa, nientemeno, di collocare la stessa morale nel mondo fenomenico, di [p. 11 modifica] degradarla, e non solamente di classificarla tra i «fenomeni» (nel senso del terminus technicus idealistico), ma addirittura tra le «illusioni», come apparenza, fantasia, errore, interpretazione, accomodamento, arte. Forse la profondità di cotesta inclinazione antimorale può nel modo migliore misurarsi dal silenzio circospetto e ostile, con cui in tutto il libro viene contemplato il cristianesimo: il cristianesimo, quale la più traviata configurazione del tema morale, che all’umanità sia finora toccato di ascoltare. In verità, di fronte all’interpretazione e giustificazione puramente estetica del mondo, quale è insegnata in questo libro, non s’incontra una opposizione più recisa della dottrina cristiana, che è e vuol essere unicamente morale nei suoi assiomi, e, principiando, per esempio, dalla sua indiscutibile veracità di Dio, rigetta l’arte, tutta l’arte, nel regno della menzogna, vale a dire la annichila, la condanna, la danna. Dietro un siffatto criterio di raziocinazione e di valutazione che, fintanto che la dottrina cristiana si serba schietta, dev’essere nemico dell’arte, io fin da allora avvertii che è anche nemico della vita, avvertii la sua rabbiosa e vendicativa avversione alla stessa vita; giacché tutta la vita è fondata sull’apparenza, l’arte, l’illusione, la visione, sulla necessità del prospettico e dell’erroneo. Fin dal principio il cristianesimo fu essenzialmente e fondamentalmente fastidio e disgusto della vita per la vita, i quali a stento riuscivano ad ammantarsi, a celarsi, a imbellettarsi con la fede in un «altro [p. 12 modifica] mondo », in un « mondo migliore » 1. L’odio al « secolo », la maledizione agli affetti, l’orrore davanti alla bellezza e al senso, il cercare un « di là » per meglio denigrare il « di qua », che era in fondo un’aspirazione al nulla, alla fine, al riposo, insomma il «sabato dei sabati», tutto ciò, come pure l’assoluta volontà del cristianesimo di lasciare in piedi solamente i valori morali, mi è sempre apparso come la più pericolosa e sinistra forma tra tutte le possibili forme di una « volontà di distruzione », per lo meno come un segno della più profonda morbosità, stanchezza, abbattimento, estenuazione, immiserimento della vita. E questo, perché infatti davanti alla morale (particolarmente davanti alla cristiana, cioè la morale assoluta) la vita deve costantemente e inevitabilmente ricevere torto, essendo essa, la vita, qualcosa di essenzialmente amorale; la vita, insomma, deve essere compressa dal peso del disprezzo e dell’eterno Nulla, come indegna di desiderio, come immeritevole di essere sentita e goduta per sé. La stessa morale, come? la morale non sarebbe forse una « volontà di annientamento della vita », un segreto istinto di annullamento, un principio di corrompimento e menomamento e vilipendio, un principio della fine? E, per conseguenza, non sarebbe il pericolo dei pericoli? Il mio istinto, dunque, con questo libro discutibile si volse [p. 13 modifica] allora contro la morale, come istinto assertore della vita, e rinvenne una dottrina sistematicamente contrapposta, un’opposta valutazione della vita, una dottrina puramente artistica e anticristiana. Come chiamarla? Come filologo e conoscitore dell’elocuzione, io, non senza qualche libertà, giacché chi mai accetterebbe e capirebbe il vero nome di anticristiano? la battezzai col nome di un dio greco e la denominai dionisiaca.

  1. Fa pensare involontariamente al famoso Zu was Besserm sind wir geboren dello Schiller. (N. d. T.)