La Palingenesi di Roma/La Distruzione/IV. S. Agostino e la corruzione dei costumi

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S. Agostino e la corruzione dei costumi

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IV.


S. AGOSTINO E LA CORRUZIONE DEI COSTUMI.


Anche S. Agostino parla a lungo della corruzione dei costumi romani, e in modo che ricorda il tono di Sallustio e di Tito Livio.

« In che tempo la passione di dominare si sarebbe spenta in quei cuori superbi, se essa non fosse arrivata, di onore in onore, alla potenza reale? Poiché non sarebbe stato possibile continuare a crescer di onori, se non fosse prevalsa l’ambizione, e l’ambizione non poteva prevalere che in un popolo corrotto dall’avidità e dal lusso. Poiché l’avidità e il lusso di un popolo sono il frutto della prosperità; la quale con molta prudenza Scipione Nasica stimava essere pericolosa, quando non voleva distruggere la più grande, la più forte, la più ricca città nemica di Roma » 1.

«O mentes amentes! Non siete più stolti, ma ammattiti, siete, voi che cercate i teatri, li affollate, li [p. 58 modifica] riempite, e fate mille pazzie, mentre l'Oriente piange la vostra rovina, e le più grandi città sono nel lutto e nell’afflizione per voi, sino alle estreme lontananze del mondo!... Ebbero più forza sui vostri animi le seduzioni degli empi demoni, che gli ammaestramenti dei saggi. Per questo non volete imputare a voi stessi i mali che fate; e quelli che soffrite li imputate ai cristiani. Poiché nei tempi sicuri non volete la tranquillità dello Stato, ma l’impunità del piacere; e siete stati depravati nella prosperità; nè avete saputo correggervi nella sfortuna. Scipione voleva che foste atterriti dal nemico, perchè non foste vinti dalla lussuria, e voi pure essendo abbattuti dal nemico non l’avete repressa; avete perduto il frutto della calamità, e siete diventati i più infelici, restando i più cattivi di tutti i mortali » 2.

Anche qui, come negli storici latini, si attribuisce la rovina dell’impero alla corruzione dei costumi. E su questo punto S. Agostino e gli storici sembrano d’accordo. Ma è facile, addentrandosi nel pensiero dell’uno e degli altri, accorgersi che l’accordo è apparente. La rovina dell’impero lascia S. Agostino indifferente; ciò che lo inquieta è la corruzione dei sudditi; egli è sdegnato perchè la rovina di Roma non ha corretto i romani, ed anche quest’ultimo ammaestramento è rimasto inutile; ma ha l’aria di dire che, se la catastrofe generale avesse migliorato i Romani, questa catastrofe sarebbe stata da lui benedetta come [p. 59 modifica] una grazia del Signore. In certi passi, infatti, S. Agostino sembra lodare piuttosto i tempi della decadenza che quelli della gloria, perchè gli sembra che gli uomini siano divenuti un poco migliori. Questo ad esempio: « Roma, fondata e accresciuta dalle fatiche degli antenati, fu più sozza nella sua potenza che nella sua rovina, poiché nella rovina caddero pietre e travi, ma nella corruzione dei romani caddero i sostegni e le bellezze non dei muri ma dei costumi, quando i loro cuori arsero di passioni più funeste delle fiamme che bruciarono i tetti della città » 3.

Sallustio, invece si spaventa perchè « in Roma si cominciarono ad onorare troppo le ricchezze, e poi la gloria e poi la potenza: e allora cominciò a mancare ed a impigrire la virtù e si disprezzò come vergognosa la povertà e l’innocenza. E così la gioventù romana cadde per le ricchezze nel lusso e nell’avarizia; cominciò ad arraffare e consumare e disprezzare le proprie cose e desiderare quelle altrui ». Ma lo storico teme, perchè tutti quei vizi enumerati sono dannosi alla repubblica, perchè con l’ambizione e l’arrivismo i migliori rimangono soffocati, con lo spreco si consuma il capitale romano, con le ricchezze è importato l’ozio, con la lussuria la debolezza, con la cupidigia lo sconvolgimento tumultuoso dell’ordine e della pace.

Con questa opposta concezione della vita e della storia, gli stessi avvenimenti assumono un aspetto [p. 60 modifica] diverso e le stesse opere sembrano eroiche e scellerate, buone e cattive, ispirate da Dio e dal demonio. Ecco, ad esempio, come S. Agostino giudica il ratto delle Sabine.

« Per questa naturale tendenza alla giustizia e alla bontà, credo, si rapirono le Sabine. Non è forse segno della massima giustizia e bontà insidiare con la frode a teatro le figlie degli altri, per prenderle, non col consenso dei genitori ma con la forza, e come a ciascuno capita? Poiché se i Sabini fecero male a rifiutare le figlie domandate, quanto peggio non fecero i Romani a rapirle? Sarebbe stato più giusto portare la guerra a quel popolo quando rifiutò di dare le sue figlie in matrimonio ai suoi vicini, piuttosto che quando venne a riconquistare le donne rapite » 4. « E vinsero i Romani per potere estorcere funesti abbracci dalle figlie, con le mani ancora sanguinose della strage dei padri. E le figlie non osarono piangere i padri uccisi, per timore di offendere i mariti; e mentre quelli combattevano esse non sapevano per chi invocare vittoria » 5.

Livio invece descrive in questo modo il Ratto delle Sabine.

« La Repubblica Romana era già così forte che poteva essere uguale in guerra a qualunque delle città vicine; ma per la mancanza di donne, quella grandezza avrebbe solo durato l’età d’un uomo, non essendoci speranza di prole futura in patria, nè di ma[p. 61 modifica]trimoni coi vicini » 6. Perchè Roma potesse seguire la via gloriosa tracciata negli astri, Romolo risolse, dopo il rifiuto, di violare per una volta la legge, obbedendo quasi, come Loth, a un comando divino. E spiegò poi « che ciò si era fatto per la superbia dei padri, che avevano negato i connubi ai loro vicini; ma che quelle tuttavia sarebbero legittime spose nel matrimonio e nella comunità di tutte le fortune di Roma e dei figli, dei quali non vi è per gli uomini cosa più cara. Perciò calmassero l’ira e concedessero gli animi a coloro ai quali la fortuna aveva dato i corpi » 7.

E dopo aver vinto i Ceninensi, i Crustumini e gli Antennati che volevano vendicare l’ingiuria, Romolo portò sopra una barella le spoglie del duce nemico, le appese ad una quercia sacra sul Campidoglio, e consacrò un tempio a Giove Feretrio con queste parole:

« O Giove Feretrio, io, Romolo, re vincitore, ti offro queste armi reali, e ti consacro il tempio che ora ho fondato in questa terra, perchè nel tempio siano deposte le prime spoglie che i posteri, seguendo i miei esempi, toglieranno ai re uccisi in battaglia » 8. Per S. Agostino il ratto delle Sabine non è che una violazione della morale. Per Livio è il momento sacro e solenne da cui comincia la storia di Roma, è [p. 62 modifica] l’esecuzione di un ordine venuto dagli dèi, è l’adempimento di una delle tante imprese predestinate, che dovevano riuscire felicemente, perchè Roma diventasse la dominatrice del mondo.

E questi due contrari punti di vista si ritrovano quando S. Agostino parla del combattimento fra Orazi e Curiazi, e dice di Virginia « humanior huius unius feminae, quam universi popoli Romani, mihi fuisse videtur affectus » 9. Egli non si lascia esaltare dagli argomenti inebrianti degli scrittori latini.

« A che mi si obbiettano qui il nome della gloria, il nome della vittoria? Messi da parte gli intralci di una folle opinione, guardiamo, pesiamo, giudichiamo a nudo i delitti. E che si dica il conflitto di Alba come si dice l’adulterio di Troia. Non si troverà mai niente di uguale, niente di peggio. Tullo vuol solamente « levare in armi gli uomini impigriti, e le schiere ormai disavvezze ai trionfi ». Per questo vizio, è stato dunque perpetrato il delitto di una guerra fra alleati e parenti! » 10

  1. (1) De Civit. Dei, I, 31.
  2. (1) De Civit. Dei, I, 33,
  3. (1) De Civit. Dei, II, 2.
  4. (1) De Civit. Dei, II, 17.
  5. (2) De Civit. Dei, III, 13.
  6. (1) Livio, I, 9.
  7. (2) Livio, I, 9.
  8. (3) Livio, I, 10.,
  9. (1) De Civit. Dei, III, 14.
  10. (2) De Civit. Dei, III, 14.