La Palingenesi di Roma/La Rinascita/VI. Il Tacitismo e la ragion di stato

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VII. Il Tacitismo e la ragion di stato

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VI.


IL TACITISMO E LA RAGION DI STATO.


Ma quale è la ragione profonda di questa ammirazione di Tacito, che è più forte anche dei pregiudizi letterari e stilistici a lui spesso avversi? Essa deve cercarsi in una specie di falsificazione di Tacito, per cui l’opera sua ha servito a dare la conferma e giustificazione classica della dottrina politica della Ragion di Stato, creata dalla monarchia e dalla Chiesa per attenuare la dottrina machiavellica dello Stato-Dio. Secondo questa teoria lo Stato non è una istituzione assolutamente umana e razionale, come volevano gli ammaestramenti del Machiavelli, ma è anche una istituzione umana, ha cioè dei fondamenti — non tutti — negli interessi e nei vizi degli uomini, e pure dovendo l’ossequio alla superiore autorità della religione, in certi casi precisi e delimitati che si fissano sull’autorità degli antichi scrittori e specialmente di Tacito, ha diritto di violare la legge morale per il bene pubblico. Questa è la Ragione di Stato.

Tale dottrina cerca, attenuandolo, di conciliare il [p. 112 modifica] Machiavelli e tutti gli interessi, le ambizioni e le passioni che spingevano l’Europa verso lo stato razionale ed umano, con le istituzioni e le tradizioni del Medio Evo, che lo volevano strumento d’un ideale religioso. Essendo un’attenuazione del Machiavelli, deriva da lui e gli somiglia, nel tempo stesso che gli è avversa. Accade spesso di trovare nei tacitisti delle frasi che sono puro Machiavelli. Questa, per esempio, del Lipsio 1: «Si urbs aut provincia statui meo per opportuna, quam nisi occupo alius faciet cum aeterno meu metu aut damno: non praeveniam? Illi volunt, quibus haec talia semper licita et proba, si cum successu». Gli uomini sono cattivi e pazzi, diceva il Machiavelli. Per governarli non basta essere leone, bisogna anche essere volpe. E il Lipsio «interquos enim vivimus? nempe argutos, malos: et qui ex fraude, fallaciis, mendaciis constare toti videntur (Cic. pro Rosc. Com.). Ipsi Principes, cum quibus nobis res, plerique in hac classe: et quidquid leonem praeferant; «Astutam vapido servant sub pectore vulpem» (Persius Sat.)... «Per frauden et dolum regna evertuntur notat philosophus (Arist. V. Pol): Tu servari per eadem nefas esse vis? Nec posse Principem interdum.

«Cum vulpe iunctum pariter vulpinarier»? 2.

E un po’ più in là nel capitolo «Quo modo et quatemus Fraudes admittendae» dà una definizione della ragion di Stato che parrebbe estratta dal Principe. [p. 113 modifica] «Fraus universe mihi est, argutum consilium a virtute aut legibus devium, regis regnique bono» 3.

Eppure, mentre si scrivevano questi pensieri, il Machiavelli era bruciato in effige, messo all’indice, condannato alla riprovazione universale, esiliato da qualsiasi libro come autore, che si potesse citare. I tacitiani raramente lo nominano, anche quando lo confutano, designandolo con prudenti allusioni. Ipocrisia? Ingiustizia? Si bruciava l’opera di un uomo riprendendone sotto mano le teorie? No. La dottrina della Ragione di Stato alla quale Tacito doveva conferire l’autorità degli esempi antichi è elaborata nel cinque e nel seicento sotto l’occhio della Chiesa, ma pure avendo affinità con la dottrina machiavellica dello Stato-Dio, ne differisce sopratutto perchè tenta di risolvere la questione capitale dei limiti, entro cui è lecito allo Stato violare la legge morale per il bene pubblico.

Leggiamo, ad esempio, la pagina in cui Lipsio tratta della frode per ragione di Stato. Egli scrive: «ea triplex; Levis, media, magna. Illam appello quae haut longe a virtute abit malitiae rore leviter aspersa. In quo genere mihi est Diffidentia et Dissimulatio.

«Mediam quae ab eadem virtute flepit longius et ad vitii confinia venit. In qua pono Conciliationem et Deceptionem.

«Tertiam, quae non a virtute solum sed legibus etiam recedit, malitiae jam robustae et perfectae, [p. 114 modifica] uti sunt Perfidia et Iniustitia. Illam suadeo, hanc tolero, istam damno» 4.

Quel grido che era sfuggito un momento alla coscienza del Machiavelli a proposito di Agatocle e che, poi, l’autore stesso aveva rinnegato, quel bisogno di un limite al di fuori del puro interesse che il Machiavelli aveva saputo trovare soltanto nel successo, è qui chiaramente sebbene forse un po’ sommariamente inciso. Lo Stato ha certe libertà, ma non tutte.

Posto così il problema, si capisce che, in autori più profondi del Lipsio, il Machiavelli, le sue dottrine, i tempi in cui aveva vissuto e che le avevano ispirate, apparissero come nefasti e quasi diabolici.

L’Italia era allora travagliata da un’anarchia di principi e da quell’esautoramento dei governi, per cui s’era incrostata sulla Penisola una muffa di tirannelli privi di scrupoli, che applicavano fino in fondo la teoria dell’interesse proprio, senza che un limite morale o un interesse comune frenasse quel reciproco e continuo distruggersi. Siccome nessun principio di autorità li faceva legittimi, il Machiavelli osservava: i popoli sono cattivi, i principi birbanti; chi non bada come può a salvare la roba e la pelle, gli prendono la prima e gli fanno la seconda; se non l’ammazzo io, mi ammazza lui. È quindi consigliabile di cominciare per il primo. E diceva: «Un Principe, e massime un Principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose, per le quali gli uomini sono tenuti [p. 115 modifica] buoni, essendo spesso necessitato per mantenere lo Stato operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione»; e diceva pure: «A un Principe non è necessario avere tutte le soprascritte qualità, ma è ben necessario parere d’averle... Deve, adunque, avere un Principe grande cura, che non gli esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità e paia, a vederlo ed udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione» 5.

Cosicché l’interesse dello Stato, di cui era giudice il governo che lo rappresentava, finiva per giustificare ogni abuso.

La dottrina della Ragion di Stato, che si forma nel cinquecento e nel seicento, è — come dice uno dei suoi maestri — il Botero «notizia di mezzi atti a fondare, conservare, ampliare un dominio così fatto». Ma col Botero stesso, col Possevino, col Ribadeneira, la Controriforma affermava altresì che la Ragion di Stato è necessaria e utile solo quando è legittimata dalla Chiesa. Concessa a qualsiasi governo, in nome d’interessi particolari, senza la Chiesa, la Ragion di Stato è un principio pericolosissimo. Con questa limitazione essa diviene privilegio di pochi regnanti legittimi, e non di tutti i governi per contrari interessi; cosicché è sottomessa a un principio al di sopra e al di fuori dell’interesse immediato e individuale; e gli Stati sono in certo modo regolati [p. 116 modifica] nelle loro opere da una legge comune, di cui la Chiesa è depositaria, e non più soltanto dal proprio comodo. Insomma, la Ragion di Stato, pur allargando la sfera in cui l’interesse dello Stato può operare, vuol sempre circoscriverla con precetti e regole di natura morale e di carattere religioso. Con questa dottrina la monarchia assoluta cercava di mettere d’accordo le necessità del suo sviluppo, con le tradizioni religiose e morali ancora forti nella società del sedicesimo e diciannovesimo secolo. Ma come e perchè essa ha ricorso, per essere aiutata in questa opera, tra gli scrittori antichi, sopratutto a Tacito?

  1. (1) Iusti Lipsi, Polit., IV, 14.
  2. (2) Iusti Lipsi, Polit., IV, 13.
  3. (1) Iusti Lipsi, Polit., IV, 14.
  4. (1) Iusti Lipsi, Polit., IV, 14.
  5. (1) Principe, 18.