La Palingenesi di Roma/La Rinascita/VIII. Quel che noi dobbiamo agli storici antichi

Da Wikisource.
VIII. Quel che noi dobbiamo agli storici antichi

../VII. Il Tacitismo e la falsificazione di Tacito ../../Appendice IncludiIntestazione 20 marzo 2018 100% Da definire

VIII. Quel che noi dobbiamo agli storici antichi
La Rinascita - VII. Il Tacitismo e la falsificazione di Tacito Appendice
[p. 123 modifica]

VIII.


QUEL CHE NOI DOBBIAMO

AGLI STORICI ANTICHI.


Tanto Livio che Tacito furono dunque interpretati piuttosto bizzarramente dall’umanesimo. Ma, sia pure attraverso alterazioni, hanno aiutato il pensiero europeo a ritrovare il concetto dello Stato umano, che ha una vita e un fine suo, in opposizione all’idea dello Stato teologico, servo di Dio, strumento di un principio religioso, che dominò nel medio evo.

Questo concetto dello Stato umano, affermato con anticipazione profeticamente brutale da Machiavelli che si serve di Livio come maestro, è ripreso e adottato per mezzo di grandi limitazioni e tagli e rattoppi e attenuazioni, nel seicento, sotto l’influenza di Tacito con la teoria della Ragion di Stato, finché si inserisce definitivamente nello sviluppo storico della nostra civiltà. Una volta innestato questo principio si allargò e fiorì sempre più nel seicento e nel settecento, prima sottomesso al principio teologico che era padrone da tanti secoli, poi a poco a poco alzando la testa, e assumendo maggior importanza, e finalmente, con la Rivoluzione Francese, soverchiando il principio teologico. La Rivoluzione Francese e l’impero, che amavano le grandi apoteosi, [p. 124 modifica] rinnovarono l’antica venerazione per l’affrescatore delle prime glorie di Roma. E le trombe romane squillarono ancora dinnanzi al mondo, per celebrare il trionfo dello Stato degli uomini!

Senonchè dallo Stato umano, che vinse lo Stato teologico tra la fine del Settecento e il principio dell’Ottocento, sta svolgendosi ora lo Stato satanico; lo Stato nemico di Dio e degli uomini, della giustizia e dell’onore, della pace e dell’ordine, della verità e della legalità; lo Stato criminale, predatore, sanguinario, corruttore, neroniano, cinico, sofista — e sfrontatamente vano della propria ribalderia, come di una forza gloriosa. Il melanconico e solitario filosofo dell’Albergaccio l’aveva intravisto, in quella sua smania di «andar dietro alla verità effettuale della cosa»; era stato lì per lì tra abbagliato e inorridito; l’aveva guardato, aveva chiuso gli occhi, aveva guardato di nuovo. La perversione dei tempi magnifica oggi questa sua, tra inorridita e ammirante, intuizione dello Stato satanico, come una mirabile anticipazione di un genio profetico: oltraggio indegno alla tormentata e nobile figura di quel grande ma ingenuo pensatore che, disgustato dai suoi tempi, in qualche momento di esasperazione, aveva dimenticato questo principio elementare di ogni consenso civile: che più forte è la tentazione e maggiore la facilità di violare una legge morale, più risolutamente è necessario affermare e sostenere l’obbligo universale di osservarla: se no «la verità effettuale della cosa» diventa il vestibolo della più selvaggia anarchia.