La Secchia rapita/Canto decimo
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Canto nono | Canto undecimo | ► |
la
SECCHIA RAPITA
CANTO DECIMO.
________
A Napoli sen va la Dea d’Amore,
E ’l principe Manfredi all’armi accende.
Al Conte di Culagna infiamma il core
4Renoppia che di lui gioco si prende.
Ei d’uccider la moglie entra in umore
Con veleno, e se stesso incauto offende.
Fugge la moglie al campo, e si procaccia
8D’amante, e fagli alfin le corna in faccia
I.
Il carro della notte era già fuora
Del cerchio che divide Affrica e Spagna;1
E non dormiva e non posava ancora
12Il glorìoso Conte di Culagna.
Va tra se rivolgendo ad ora ad ora,
Con quant’onore in campo egli rimagna,
Poichè, mercè di sua felice stella,
16L’incantato guerrier tratto ha di sella.
II.
Quindi pensando alla cagion che spinto
Melindo avea sul favoloso legno,
Pargli non pur del ricco scudo vinto,
20Ma della bella Donna esser più degno.
Gli somministra il naturale istinto,
E la ragion del suo elevato ingegno,
Che poichè ’l campo il Cavalier gli cede,
24D’ogni onor, d’ogni premio il lascia erede.
III.
E su questo pensier vaneggia in guisa,
Che di Renoppia già si finge amante,
E le bellezze sue fra se divisa
28Cupidamente, e n’arde in un istante.
Or ne’ begli occhi suoi tutto s’affisa,
Or negli atti leggiadri, or nel sembiante;
E come lusingando il va la speme,
32Or gioisce or sospira, or brama or teme.
IV.
Moglie giovane e bella ei possedea:
Ma ogni pensier di lei se n’è fuggito;
E in questo nuovo amor s’interna e bea
36Tanto, che pargli il ciel toccar col dito.
Così la carne già, ch’in bocca avea,
Sul fiume il can d’Esopo un dì, schernito,
Lasciò cader nel fuggitivo umore,
40Per prender l’ombra sua ch’era maggiore.
V.
Tutta la notte andò girando il Conte
Le piume, senza mai prender riposo.
E Febo già coll’infiammata fronte
44Rimovendo dal ciel l’aer ombroso,
Colta l’Aurora avea sull’orizzonte
Ignuda in braccio al suo Titon geloso;
Ond’ella rossa in volto, alzando il petto,
48Colla camicia in man fuggia del letto:
VI.
Quand’ il Conte levato anch’egli, mosse
Colà dove Renoppia era attendata,
Cantando all’improvviso a note grosse
52Sopra una chitarriglia discordata:
E giudicando che la lingua fosse
Di gran momento a intenerir l’amata,
S’affaticava in trovar voci elette,
56Di quelle che i Toscan chiamano prette.
VII.
O, diceva, bellor dell’universo,
Ben meritata ho vostra beninanza;
Che ’l prode battaglier cadde riverso,
60E perdè l’amorosa e la burbanza.
Già l’ariento del palvese terso
Non mi brocciò a pugnar per desìanza;
Ma di vostra parvenza il bel chiarore,
64Sol per vittoriare il vostro cuore.
VIII.
Così cantava il Conte innamorato
A lei che del suo amor fra se ridea.
Ma Venere frattanto in altro lato
68Le campagne del mar lieta scorrea.
Un mirabil legnetto apparecchiato
Alla foce dell’Arno in fretta avea;
E muovea quindi alla riviera amena
72Della real città della Sirena,2
IX.
Per incitar il Principe novello
Di Taranto ad armar gente da guerra,
E liberar di prigionia il fratello
76Che chiuso sta nella nemica terra.
Entra nell’onda il vascelletto snello,
Spiega la vela un miglio o due da terra.
Siede in poppa la Dea chiusa d’un velo
80Azzurro e d’oro agli uomini ed al cielo.
X.
Capraia addietro e la Gorgona lassa,
E prende in giro alla sinistra l’onda.
Quinci Livorno, e quindi l’Elba passa,
84D’ampie vene di ferro ognor feconda.
La distrutta Faleria in parte bassa
Vede, e Piombino in sulla manca sponda,
Dov’oggi il mare adombra, il monte e ’l piano
88L’aquila del gran re dell’Oceàno.
XI.
Tremolavano i rai del sol nascente
Sovra l’onde del mar purpuree e d’oro;
E in veste di zaffiro il ciel ridente,
92Specchiar parea le sue bellezze in loro.
D’Affrica i venti fieri e d’Orìente
Sovra il letto del mar prendean ristoro;
E co’ sospiri suoi soavi e lieti
96Sol Zeffiro increspava il lembo a Teti.
XII.
Al trapassar della beltà divina
La fortuna d’Amor passa e s’asconde.
L’ondeggiar della placida marina
100Baciando va l’inargentate sponde.
Ardon d’amore i pesci; e la vicina
Spiaggia languisce invidìando all’onde.
E stanno gli Amoretti, ignudi, intenti
104Alla vela, al governo, ai remi, ai venti.
XIII.
Quinci e quindi i delfini a schiere a schiere
Fanno la scorta al bel legnetto adorno;
E le Ninfe del mar pronte e leggiere
108Corron danzando e festeggiando intorno.
Vede l’Umbrone, ove sboccando ei pere,
E l’isola del Giglio a mezzogiorno;
E in dirupata e ruinosa sede
112Monteargentario in mezzo all’onde vede.
XIV.
Quindi s’allarga in sulla destra mano,
E lascia il porto d’Ercole a mancina.
Vede Civitavecchia, e di lontano
116Biancheggiar tutto il lido e la marina.
Giaceva allora il Porto di Traiano,
Lacero e guasto, in misera ruina.
Strugge il tempo le torri, e i marmi solve
120E le macchine eccelse in poca polve.
XV.
Già la foce del Tebro era non lunge;
Quando si risvegliò Libecchio altiero,
Che ’n Libia regna, e dove al lido giunge,
124Travalca sopra il mar, superbo e fiero.
Vede l’argentea vela; e come il punge
Un temerario suo vano pensiero,
Vola a saper che porti il vago legno,
128E intende ch’è la Dea del terzo regno:
XVI.
Onde orgoglioso e come invidia il muove,
A Zeffiro si volge, e grida: O resta,
O io ti caccerò nel centro, dove
132Non ardirai mai più d’alzar la testa.
A te la Figlia del superno Giove
Non tocca di condur: mia cura è questa.
Va’ tu a condur le rondini al passaggio,
136E a fare innamorar gli asini il maggio.
XVII.
Zeffiro ch’assalito all’improvviso
Dall’emulo maggior quivi si mira,
Ne manda in fretta al suo fratello avviso,
140Che sull’Alpi dormiva, e ’l piè ritira.
Corre Aquilon tutto turbato in viso,
Ch’ode l’insulto, e freme di tant’ira,
Che fa i tetti cader, gli arbori svelle,
144E la rena del mar caccia alle stelle.
XVIII.
Libecchio che venir muggiando insieme
I due fratelli di lontano vede,
Si prepara all’assalto; e già non teme
148Del nemico furor, nè il campo cede.
Tutte raguna le sue forze estreme;
E dal lido affrican sciogliendo il piede,
Chiama in aiuto anch’ei di sua follia
152Sirocco3 regnator della Soria.
XIX.
Vien Sirocco veloce: onde s’accende
Una fiera battaglia in mezzo all’onde:
Si turba il ciel, si turba l’aria, e stende
156Densa tela di nubi, e ’l sol nasconde.
Fremono i venti e ’l mar con voci orrende;
Risonano percosse ambe le sponde,
E par che muova a’ suoi Fratelli guerra
160L’ondoso Scotitor dell’ampia terra.
XX.
Si spezzano le nubi, e foco n’esce,
Che scorre i campi del celeste regno.
Il foco e l’aria e l’acqua e ’l ciel si mesce:
164Non han più gli elementi ordine o segno.
S’odono orrendi tuoni: ognor più cresce
De’ fieri venti il furibondo sdegno.
Increspa e inlividisce il mar la faccia,
168E l’alza contra il ciel che lo minaccia.
XXI.
Già s’ascondeva d’Ostia il lido basso,
E ’l Porto d’Anzio di lontan surgea;
Quando sentì il romor, vide il fracasso
172Che ’l ciel turbava e ’l mar, la bella Dea;
Vide fuggirsi a frettoloso passo
Le Ninfe dal furor della marea:
Onde tutta sdegnosa aperse il velo,
176E dimostrò le sue bellezze al cielo;
XXII.
E minacciando le tempeste algenti,
E le procelle e i turbini sonanti,
Cacciò del ciel le nubi, e gli elementi
180Tranquillò co’ begli occhi e co’ sembianti.
Corsero tutti ad inchinarla i Venti,
Alle minacce sue cheti e tremanti.
Ella in Libecchio sol le luci affisse;
184E mordendosi il dito, irata disse:
XXIII.
Moro, can, senza legge e senza fede,
T’insegnerò, con queste tue contese,
Come si tratta meco e si procede,
188E ti farò tornare in tuo paese.
Quel s’inginocchia, e bacia il divin piede;
Chiede perdon dell’impensate offese,
E fa partendo in Affrica passaggio.
192Segue la navicella il suo viaggio.
XXIV.
Le donne di Nettun4 vede sul lito
In gonna rossa, e col turbante in testa.
Rade il porto d’Astura ove tradito
196Fu Corradin nella sua fuga mesta.
Or l’esempio crudele ha Dio punito;
Che la terra distrutta e inculta resta.
Quindi Montecircello orrido appare
200Col capo in cielo, e colle piante in mare.
XXV.
S’avanza, e rimaner quinci in disparte
Vede Ponzia diserta e Palmarola
Che furon già della città di Marte
204Prigioni illustri in parte occulta e sola.
Varie torri sul lido erano sparte:
La vaga prora le trascorre, e vola;
E passa Terracina, e di lontano
208Vede Gaeta alla sinistra mano.
XXVI.
Lascia Gaeta, e su per l’onda corre
Tanto, ch’arriva a Procida, e la rade:
Indi giugne a Pozzuolo, e via trascorre;
212Pozzuolo che di zolfo ha le contrade.
Quindi s’andava in Nisida a raccorre,
E a Napoli scopria l’alta beltade:
Onde dal porto suo parea inchinare
216La Regina del mar, la Dea del mare.
XXVII.
Da Nisida la Dea spedisce un messo
Al principe Manfredi;5 e ’n terra scende,
E cangia volto, e bel sembiante espresso
220Della Contessa di Caserta prende.
Il principe e costei d’un padre stesso
Nacquero, se la fama il vero intende,
Ma di madri diverse; e fur nudriti
224Per alcun tempo in differenti liti.
XXVIII.
Condotti in corte poi fanciulli ancora,
Nell’albergo real crebbero insieme
Senza riguardo, infin che venne l’ora
228Che ’l fior di nostra età spunta col seme.
Erano gli anni quasi uguali, e allora
Dell’uno e l’altro le bellezze estreme:
Onde il fraterno amor, non so dir come,
232Strano incendio divenne, e cangiò nome.
XXIX.
Sospettonne, osservando i gesti e i visi,
Il padre, e maritò la giovinetta:
Ma i corpi fur, non gli animi, divisi,
236E restò l’alma in servitù ristretta.
Or che vede venir con lieti avvisi
Manfredi il messaggier dall’isoletta,
Cuopre la poppa d’una navicella,
240E solo e chiuso va dalla sorella.
XXX.
Trovolla appiè d’una distrutta rocca,
Che passeggiava in un giardino ameno.
Subito scende, e, come Amore il tocca,
244Corre e l’abbraccia, e la si strigne al seno,
E la bacia negli occhi e nella bocca:
E dalla Dea d’Amor tanto veleno
Con que’ baci rapisce e tanto foco,
248Che tutto avvampa, e non ritrova loco.
XXXI.
Volea iterar gli abbracciamenti e i baci;
Ma con la bella man la Dea s’oppose,
E respignendo l’avide e mordaci
252Labbia, si tinse di color di rose.
Frenate, signor mio, le mani audaci,
E le voglie dicea libidinose;
Che non son questi, agli andamenti, ai cenni,
256Baci fraterni: e udite perch’io venni.
XXXII.
Il Principe ristette: ed ella, poi
Che d’Enzio il fiero caso ebbe narrato,
Ch’estinto il fior de’ cavalieri suoi,
260Prigioniero pugnando era restato;
Le lagrime asciugando: Or, disse, a voi
Che mio padre in sua vece ha qui lasciato,
Tocca mostrar, s’in voi non mente il sangue,
264Che la destra di Svevia ancor non langue.
XXXIII.
Voi che reggete il fren di questo regno,
Potete vendicar di nostro padre
E di nostro fratel l’obbrobrio indegno,
268Armando in terra e in mar diverse squadre.
Nè già più glorìoso o bel disegno,
Nè più famose prove e più leggiadre
Poteva in terra o in mar da parte alcuna
272Al valor vostro appresentar Fortuna.
XXXIV.
Io, se non fossi donna, andrei con questa
Mano a spianar le temerarie mura;
Nè vorrei che giammai l’iniqua gesta
276Si vantasse d’aver parte sicura,
Se prima non venisse in umil vesta
Con una fune al collo o la cintura
A chiedermi perdono, e a consegnarmi
280Il mio fratello e la cittade e l’armi.
XXXV.
Ah Dio! perchè fui donna, o non usai
All’armi, al sangue anch’io la destra molle?
Qui sfavillò di sì cocenti rai,
284Che trafisse il meschin nelle midolle.
Trema il cor come fronda: e tutto omai
Fuor di ghiaccio rassembra, e dentro bolle.
Vorria stender la man, vorría rapire;
288Ma un segreto terror smorza l’ardire.
XXXVI.
Alfin con voce tremula risponde:
Sorella mia, reina mia, dea mia,
Andrò nel foco, andrò per mezzo all’onde,
292E nel centro per voi, s’al centro è via.
Lo scettro di mio padre in queste sponde,
Con libero voler, tutto ho in balía:
Disponetene voi come v’aggrada;
296Che vostro è questo core e questa spada.
XXXVII.
Così dicendo, apre le braccia, e crede
Strigner della sorella il vago petto:
Ma l’amorosa Dea che ’l rischio vede,
300Subito si ritira, e cangia aspetto.
Nella forma immortal sua prima riede;
E alzandosi nell’aria, al giovinetto
Versa, al partir, dal bel purpureo grembo
304Sopra di rose e d’altri fiori un nembo.
XXXVIII.
O bellezza del Ciel viva immortale,
Dove fuggi da me? perchè mi lassi?
Nè mi concedi almen, che in tanto male
308Io possa in te sbramar quest’occhi lassi?
Così parlava il giovane reale;
E intanto rivolgea gli afflitti passi
All’onda giù, dove l’attende il legno,
312Disegnando d’armar tutto quel regno.
XXXIX.
Ma il Conte di Culagna avendo intanto
Vista Renoppia uscir del padiglione;
Rassettato il collar, la barba e ’l manto,
316E tiratosi in fronte un pennacchione,
L’era gita a incontrar da un altro canto,
Salutandola quasi in ginocchione.
Ond’ella instrutta di sue degne imprese,
320L’avea chiamato a se tutta cortese:
XL.
E avendo il suo valor molto esaltato,
La dispostezza, e ’l fior dell’intelletto,
Giurato avea di non aver trovato
324Chi più paresse a lei degno suggetto
Dell’amor suo, quand’ei non fosse stato
In nodo marital congiunto e stretto.
Onde il burlar della Donzella avia
328Posto il meschino in strana frenesia.
XLI.
Trovollo Titta in un solingo piano,
Ch’ei passeggiava all’ombra d’una noce,
E gía fra se colla corona in mano
332Parlando, a passo or lento, ora veloce.
Come egli vide il cavalier romano,
Gli si fece all’orecchia, e a mezza voce:
Frate, gli disse, per uscir di doglie,
336Io son forzato avvelenar mia moglie.
XLII.
A me certo ne spiace in infinito;
Ma così porta la crudel mia stella.
Quindi gli narra quanto era seguito,
340E quel che detto gli ha Renoppia bella.
Mostra di rimaner Titta stupito,
E lo chiama felice in sua favella:
Conte, tu se’ nu papa, e t’ajo detto
344Che no’ ce che te pozza stare a petto.
XLIII.
Gli va poscia di bocca ogni pensiero
Cacciando a poco a poco, e lo millanta:
Ed ei, com’è di cor pronto e leggiero,
348Si ringalluzza e si dimena e canta.
Gli scopre dell’interno il falso e ’l vero,
E del disegno rio si gloria e vanta.
Nota Titta ogni cosa, e lo conforta
352Ch’alcun non saprà mai chi l’abbia morta.
XLIV.
Era Titta per sorte innamorato
Della Moglie del Conte; e mentre fue
Nella città, con atti a lei mostrato
356L’avea, e con voci alle serventi sue.
Or che si vede il modo apparecchiato
Di far che resti il malaccorto un bue,
Scrive il tutto alla Donna, e in che maniera
360Il pazzo rio d’attossicarla spera.
XLV.
Lo ringrazia la Donna, e cauta osserva
Gli andamenti del Conte in ogni parte;
E informa del periglio ogni sua serva,
364Perchè sieno a guardarla anch’esse a parte.
Il Conte fisso già nella proterva
Sua voglia, tratto avea solo in disparte
Il medico Sigonio; e in pagamento
368Offertogli in buon dato oro ed argento,
XLVI.
Se gli prepara un tossico provato,
Cui rimedio non sia d’alcuna sorte;
Dicendo che di fresco avea trovato
372La Moglie che gli fea le fusa torte;
E ch’avea risoluto e terminato
Di darle di sua man condegna morte.
Lungamente pregar si fe’ il Sigonio,
376E alfin gli diè una presa d’antimonio.
XLVII.
Per tossico sel piglia il Conte, e passa
A Modana improvviso una mattina.
Saluta la Moglier che non si lassa
380Conoscer sospettosa e gli s’inchina
Va scorrendo la casa, e alfin s’abbassa,
Per dispensare il tossico, in cucina;
Ma la trova guardata in tal maniera,
384Che non sa come fare, e si dispera.
XLVIII.
Torna a salir su per l’istessa scala,
Tutto affannato, e conturbato in volto;
E aspetta fin che sian portati in sala
388I cibi, e sulla mensa il pranzo accolto.
Allora corre, e la minestra sala
Della Moglier col cartoccin disciolto,
Fingendo che sia pepe; e a un tempo stesso
392Scuote la pepaiola ch’avea appresso.
XLIX.
La cauta Moglie e sospettosa, viene;
E mentre ch’ei le man si lava e netta,
Gli s’oppone co’ fianchi e colle rene,
396E la minestra sua gli cambia in fretta.
Mostra che s’è lavata, e siede, e tiene
L’occhio pronto pertutto, e non s’affretta
A mettersi vivanda alcuna in bocca,
400Che non abbia il Marito in prima tocca.
L.
Il Conte in fretta mangia, e si diparte,
Che non vorría veder la Moglie morta.
Vassene in piazza ov’eran genti sparte
404Chi qua, chi là, come ventura porta.
Tutti, come fu visto, in quella parte
Trassero per udir ciò ch’egli apporta.
Egli cinto d’un largo e folto cerchio,
408Narra fandonie fuor d’ogni superchio:
LI.
E tanto s’infervora e si dibatte
In quelle ciance sue piene di vento,
Ch’eccoti l’antimonio lo combatte,
412E gli rivolta il cibo in un momento.
Rimangono le genti stupefatte;
Ed egli vomitando, e mezzo spento
Di paura, e chiamando il confessore,
416Dice ad ognun ch’avvelenato more.
LII.
Il Coltra e ’l Galìano, ambi speziali,
Correan con mitridate6 e bolarmeno;
E i medici correan cogli orinali,
420Per veder di che sorte era il veleno.
Cento barbieri, e i preti coi messali
Gli erano intorno, e gli scioglieano il seno,
Esortandolo tutti a non temere,
424E a dir devotamente il miserere .
LIII.
Chi gli ficcava olio o triaca in gola,
E chi butirro o liquefatto grasso.
Avea quasi perduta la parola,
428E per tanti rimedi era già lasso;
Quand’ecco un’improvvisa cacarola
Che con tanto furor proruppe abbasso,
Che l’ambra scoppiò fuor per gli calzoni,
432E scorse per le gambe in sui talloni.
LIV.
Oh possanza del Ciel! che cosa è questa,
Disse un barbier quando sentì l’odore?
Questo è un velen mortifero ch’appesta;
436Io non sentii giammai puzza maggiore.
Portatel via, che s’egli in piazza resta,
Appesterà questa città in poche ore.
Così dicea; ma tanta era la calca,
440Ch’ebbe a perirvi il medico Cavalca.7
LV.
Come a Montecavallo i cortigiani
Vanno per la Lumaca a concistoro,
Respinti e scossi dagl’incontti strani,
444E aprendosi la via co’ petti loro;
Così i medici quivi e i cappellani
Non trovando da uscir strada nè foro,
Urtavano respinti, e senza metro
448Facean tre passi innanzi e quattro indietro.
LVI.
Ma poichè l’ambracane uscì del vaso,
E ’l suo tristo vapor diffuse e sparse;
Cominciò in fretta ognun co’ guanti al naso
452A scostarsi dal cerchio e a ritirarse:
E abbandonato il Conte era rimaso;
Se non che un prete allor quivi comparse,
Ch’avea perduto il naso in un incendio,
456Nè sentia odore; e ’l confessò in compendio.
LVII.
Confessato che fu, sopra una scala
Da piuoli assai lunga egli fu posto;
E facendo a quel puzzo il popol ala,
460Il portar due facchini a casa tosto.
Quivi il posaro in mezzo della sala:
Chiamaro i servi; e ognun s’era nascosto,
Fuor ch’una vecchia che v’accorse in fretta
464Con un zoccolo in piede e una scarpetta.
LVIII.
Già pria la nuova in casa era venuta,
Che ’l Conte si moriva avvelenato:
Onde la Moglie accorta e provveduta,
468Aveva in fretta il suo destrier sellato;
E in abito virile e sconosciuta,
Con un cappello in testa da soldato,
Tacitamente già s’era partita,
472E a trovar Titta al campo era fuggita:
LIX.
A cui fatto saper con lieto avviso,
Che l’attendea del Conte un paggio in sella
Per cosa di suo gusto, all’improvviso
476L’avea fatto venir dove stav’ ella.
Com’egli alzò le luci al vago viso,
Tosto conobbe la sua donna bella:
Onde s’avventa, e dell’arcion la prende,
480E la si porta in braccio alle sue tende;
LX.
E baciandola in bocca avidamente,
Or la strigne, or la morde, or la rimira:
Ed ella in lui, fra cupida e dolente,
484Le belle luci sue languida gira.
Parve l’atto ad alcun poco decente;
Che l’ebbero per maschio a prima mira:
Nè distinguendo ben dal pesco il fico,
488Dicevano di lui quel ch’io non dico.
LXI.
Stette tutto quel giorno il Conte in letto,
Tutta la notte, e la seguente ancora,
Sempre con gran timor, sempre in sospetto
492Di doversi morire ad ora ad ora:
Ond’ebbero gli amanti agio a diletto
Di star anch’essi e l’una e l’altra aurora
Giunti, a goder delle sciocchezze sue,
496Discorrendo fra lor com’ella fue.
LXII.
Già Titta dal Sigonio intesa avea
La beffa del veleno; e l’avea detta
Alla Donna gentil che ne ridea,
500E godeva fra se della vendetta,
Disegnando di star, s’ella potea,
Col nuovo amante, e non mutar più detta,
Poichè questa le par tanto sicura,
504Che sarebbe pazzia cangiar ventura.
LXIII.
Ma il Conte poi che fu certificato
Dal collegio de’ medici, ch’egli era
Fuor di periglio, alla campagna armato
508Uscì per ritrovar la sua mogliera.
Al campo venne, e quivi indizio dato
Gli fu del suo caval dalla sua schiera,
Cui sopra un giovinetto era venuto,
512Nè l’un nè l’altro più s’era veduto.
LXIV.
Il Conte di trovarlo entra in pensiero,
E vuol saper chi ’l giovinetto sia;
E promette gran premio a chi primiero
516Indizio gli ne porta o gli ne invia.
La mattina seguente uno scudiero
Gli dice che ’l caval veduto avia
Nelle tende di Titta, e ’l premio chiede:
520Ma il Conte ride, e ’l suo parlar non crede;
LXV.
E manda un uomo suo ch’a Titta dica
Quel che gli fa saper l’accusatore.
Giura Titta che questa è una nemica
524Fraude per sciorre un sì leale amore:
Ma frattanto si studia e s’affatica
Di far tignere il pel del corridore
Con un color di sandali alterato;
528E, di leardo, il fa sauro bruciato.
LXVI.
Poi chiama il Conte, e fa vedergli in prova
Tutti i cavalli suoi così al barlume.
Il Conte che ’l candor del suo non trova,
532E che di Titta ciò mai non presume,
Si scusa che non gli era cosa nova
Della sua limpidezza il chiaro lume,
Ma tace che da lui fuggita sia
536La Donna che trovar cerca e desia:
LXVII.
E gli giura ch’un paggio gli ha rubato
Il suo caval, nè sa dove sia gito;
Ma se può ritrovarlo in alcun lato,
540Che ’l tristo ladroncel farà pentito.
Titta che già si vede assicurato,
Comincia a ruminar nuovo partito
Di ritenersi ancor la Donna appresso,
544Senza che ne sospetti il Conte stesso.
LXVIII.
Con lei s’accorda; e trova acqua stillata
Da scorza fresca di matura noce,
E ’l bel collo e la faccia dilicata
548Della Donna e le man bagna veloce.
Si disperde il candore; e sembra nata
In Mauritania, là dove il sol cuoce.
D’un leonato scuro ella diviene;
552Ma grazia in quel colore anco ritiene.
LXIX.
Come panno di grana in bigio tinto
Ritiene ancor della beltà primiera,
E nel morto color d’un nero estinto
556Purpureggiar si vede in vista altera;
Così di quella faccia il color finto
Ritiene ancor della bellezza vera,
Splende nel fosco; e de’ begli occhi il lume
560Folgoreggia anco al solito costume.
LXX.
D’una giubba azzurrina ornata d’oro
Quindi ei la veste, e le ricopre il seno;
E tutta d’un leggiadro abito moro
564L’adorna sì, che non gli piace meno.
Indi la mostra al Conte, e dice: I’ moro
Per questa ingrata schiava, e spasmo e peno;
E a lei di me non cal; nè so che farmi.
568Pregala, Conte mio, che voglia amarmi.
LXXI.
Il Conte la saluta in Candìotto,
Ed ella gli risponde in Calabrese.
Bella Mora ei dicea, deh fate motto
572Al signor vostro, e siategli cortese.
Ella volgendo a Titta un guardo ghiotto,
Sporge la bocca; ed ei con voglie accese
Que’ baci incontra, e da’ bei labbri sugge
576L’alma di lei, che sospirando fugge.
LXXII.
Teneva il Conte, immoto e stupefatto,
Agli amorosi baci i lumi intenti;
E gli parea che Titta fosse matto
580A sentir per colei pene e tormenti.
Durava quella beffa lungo tratto;
Se non che della giovane i parenti
Seppero il tutto, e fer saperlo al Potta;
584E subito la tresca fu interotta.
LXXIII.
Il Potta fe’ condur segretamente
La donna fuor del campo: e perchè Titta
Percosse in quella mena un insolente
588Birro, e gli fu grave querela scritta;
Fe’ pigliarlo anche lui subitamente,
E in carcere condur per la via dritta
Alla città, per metterlo in palazzo;
592Quand’egli cominciò fiero schiamazzo,
LXXIV.
Ch’era pariente de gliu Papa, e ch’era
Baron romano, e gir bolea en castello.
Ma il buon fiscal Sudenti e ’l Barbanera
596Giudice criminale, e Andrea bargello
Gli mostrar con destrissima maniera,
Che l’albergo in palazzo era più bello,
E che l’avrian parato e ben fornito;
600Onde alla fin d’andar prese partito.
Note
- ↑ [p. 278 modifica]Esprime elegantemente, che più da un’ora era passata a Modena la mezzanotte; essendo questa città quindici gradi all’incirca distante da quel cerchio (dagli Astronomi Orario chiamato) il quale da Settentrione a Mezzogiorno parte per mezzo la Spagna, e parte d’Africa divide; e appunto secondo gli Astronomi il Sole, e in conseguenza la notte fan quindici gradi per ora, che sono la ventesimaquarta parte di que’ trecento sessanta gradi, in cui dividono il mondo. . . . Barotti.
- ↑ [p. 278 modifica]Città della Sirena, Napoli, chiamata anticamente Partenope dal nome d’una Sirena ivi sepolta. V. Strabone nel primo e secondo libro, Plinio nel terzo, c. 5. e Solino nel capit. ottavo.
- ↑ [p. 278 modifica]Il nostro Poeta in una sua postilla al vecchio Vocabolario della Crusca, scrisse: Sirocco non è Austro, nè Euro, ma tra l’Austro e l’Euro, e chiamasi Sirocco, perchè in Italia [p. 279 modifica]vien di verso Soria. Dalle quali parole si rende assai chiaro il senso di quest’ottava.
- ↑ [p. 279 modifica]Nettuno, piccola ma vaga città ed assai popolata nella Campagna di Roma. Quanto alla foggia del vestire di sue donne, il Barotti reca una lettera del P. D. Agostino Maria Sonsis Somasco, dalla quale risulta, ch’esse si vestono di rosso più che di qualunque altro colore, e di tale forma, che in Roma dicesi, che vestono alla Turchesca. Le più benestanti portano il lembo della gonna trinato d’oro a più di un giro. Il Turbante poi, di cui qui parla il Tassoni, altro non è che una fascia di pannolino, che portano intorno alla testa alla foggia de’ Turchi.
- ↑ [p. 279 modifica]Manfredi principe di Taranto, e poi re di Napoli, fu veramente innamorato della contessa di Caserta sua sorella. Veggansi le istorie di Napoli, ed una breve narrazione di tale amore scritta da Monsig. Paolo Emilio Santorio stampata fra le lettere di Paolo Manuzio. . . . . Salviani.
- ↑ [p. 279 modifica]Mitridate, o Mitridato, sorta di teriaca, che serve d’antidoto o di preservativo contra i veleni. Bolarmeno, terra medicinale di facultà disseccativa, di colore rossigno scuro. Alberti, Vocab.
- ↑ [p. 279 modifica]Del medico Cavalca parla il Tassoni nel libro X. c. 6. de’ suoi Pensieri. Era questi suo amico; ed erano pure de’ tempi suoi e di quella professione, che loro attribuisce, il medico Sigonio, gli speziali Coltra e Galiano, e più abbasso il Fiscale Sudenti, il Giudice criminale Barbanera, e il bargello Andrea.