La Sovrana del Campo d'Oro/XIII

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XIII - Verso il «Gran Cañon»

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XII XIV
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CAPITOLO XIII


Verso il Gran Cañon


A mezzodì il treno si arrestava alla stazione di Kingman per fare la solita provvista d’acqua e di carbone, e per lasciare il passo a quello speciale, che aveva il diritto della precedenza.

Kingman non era allora che una minuscola stazione come tutte le altre della linea dell’Arizona, costruita alla meglio e circondata da una quarantina di casupole; cominciava però a diventare un centro importante, grazie alla scoperta recente di ricchi depositi di petrolio. Gran parte dei minatori che occupavano il treno erano appunto diretti a quella località, perchè v’era molta scarsità di braccia.

In una vicina pianura sabbiosa, su cui non cresceva nemmeno un filo d’erba, s’alzava già una dozzina di piramidi fatte di pali, alte una quindicina di metri, con un’asta di ferro nel mezzo.

Intorno alcuni uomini tiravano delle funi, che poi mollavano d’un colpo solo, lasciando cadere l’asta, che s’alzava e si abbassava violentemente, con cupo fragore.

Dovendo il treno arrestarsi un paio d’ore, Harris, Blunt e Annie ne avevano approfittato per visitare il campo petrolifero, dove già si trovavano vasti serbatoi, pieni di nafta che esalava una puzza insopportabile.

— Ecco una fortuna da raccogliere, che io vorrei avere nelle mie tasche, — disse Harris. — Chissà quanto petrolio si nasconde sotto il suolo. L’uomo che ha acquistato questi terreni diverrà indubbiamente milionario.

— Signor Harris, — disse Blunt, — a che cosa servono questi castelli di legno? Io non ho mai veduto una miniera di petrolio.

— Servono a forare il terreno, — rispose l’ingegnere. — Senza quei derriks (si chiamano così quelle leggere costruzioni), occorrerebbe troppo tempo prima di trovare il petrolio e poi i minatori si esporrebbero a gravi pericoli.

— E perchè?

— Perchè il petrolio, appena trova un foro, irrompe violentemente lanciando fuori prima la sabbia che lo ricopre, poi l’acqua salata che ordinariamente lo riveste e anche gaz nocivi.

— La sbarra che quegli uomini alzano, è vuota internamente? [p. 94 modifica]

— Sì, — rispose l’ingegnere. — Appena il trapano raggiunge le cavità dove il petrolio si cela, il gaz, la sabbia e l’acqua salata irrompono violentemente attraverso il foro, poi sale la nafta, che, depurata, diverrà petrolio.

— Esce in grande quantità?

— Talvolta sì, talvolta no. Vi sono, per esempio, dei pozzi, specialmente in Pensilvania, che danno perfino mille e cinquecento litri di nafta al giorno. Vi sono stati dei casi in cui il petrolio uscì in così prodigiosa quantità, da produrre vere inondazioni, costringendo i lavoranti ad innalzare le dighe per non perderlo. Qui la produzione non è ancora abbondante, ma può diventarlo da un momento all’altro, ed assicurare al proprietario di questi terreni dei bei milioni.

— Ed è solamente da poco che sfruttano simili risorse? — disse Annie.

— La prima miniera di petrolio non fu aperta che nel 1859, dalla Società di Pensilvania, e si ottennero subito, coll’impiego del derrik, risultati meravigliosi, poichè il primo getto diede più di centocinquanta barili di nafta al giorno. Fortune immense furono fatte in quell’epoca, che i proprietari divorarono con altrettanta rapidità.

Io ho conosciuto uno di quei re del petrolio ridotto a vivere di carità, dopo aver sprecato milioni e milioni...

— Di petrolio, — disse Blunt, ridendo.

— E di dollari insieme, — aggiunse l’ingegnere. — Il derrik ha fatto la fortuna di molte persone.

— Non si estraeva così prima? — chiese Annie.

— No, s’impiegava un processo molto strano, che dava risultati assolutamente inadeguati. Immaginatevi che scavavano dei semplici pozzi e, per levare la nafta, usavano delle coperte di lana.

— E che cosa ne facevano di quelle coperte? — chiese lo scrivano.

— Le lasciavano inzuppare di petrolio e poi le torcevano, raccogliendo quello che sgocciolava.

— Non dovevano certo adoperarlo per l’illuminazione.

— No, gl’indiani lo usavano per guarire talune malattie e per mantenere il fuoco eterno nella tenda dedicata al Grande Spirito.

— Allora gl’indiani conoscevano il petrolio prima degli yankee?

— E molti e molti anni prima che i pensilvani pensassero a usufruire di quegli incalcolabili tesori nascosti nelle viscere della terra.

Annie, odo il fischio del nostro treno. Torniamo alla stazione e riprendiamo i nostri posti.

— Signor Harris, — disse Blunt. — Quando lasceremo la ferrovia?

— Domani, nel pomeriggio, giungeremo a Peach-Springs e [p. 95 modifica]prenderemo la corriera che va al Gran Cañon. Speriamo che la via sia libera.

— Perchè dite questo, signor Harris? — chiese Blunt.

— Sovente è tagliata dalle improvvise scorrerie degli Apaches o dei Navajoes. Quei demoni sono padroni del territorio e sfidano i volontari americani con un’audacia incredibile, razziando il paese.

— Ed il governo non ci mette rimedio?

— Sì, cerca di quando in quando di ridurli al dovere, e perde uomini senza alcun successo definitivo. Quando gli Apaches ed i loro alleati si trovano alle strette, scendono nel Gran Cañon e si rifugiano nelle caverne degli antichi indii, da cui è impossibile snidarli. Conoscerete meglio quello squarcio immenso aperto dal Rio Colorado, quando vi saremo giunti.

— Ed il miserabile che fece prigioniero il padre di miss Annie, si nasconde là?

— Sembra, — rispose Harris.

— Lo uccideremo, è vero, signor Harris?

— Faremo il possibile per piantargli una palla nel cranio.

Erano allora giunti alla stazione ed il treno aveva già lanciato il suo terzo fischio.

La Sovrana del Campo d’Oro, l’ingegnere e lo scrivano salirono nel loro scompartimento, e poco dopo il treno riprendeva la sua corsa verso Hualapai che era la prossima stazione.

L’ingegnere aveva osservato che sull’ultimo vagone e anche sulla macchina e sul tender erano saliti parecchi volontari delle frontiere, uomini destinati a guerreggiare con gli eterni violatori delle riserve: gl’indiani indipendenti.

Per non impressionare miss Annie, si era ben guardato dall’avvisarla. La ragazza se n’era tuttavia accorta.

— Signor Harris, — gli disse, quando si furono accomodati nel carrozzone. — Sembra che vi siamo delle brutte novità.

— Perchè, Annie? — chiese l’ingegnere.

— Abbiamo dei soldati sul treno.

— Cambieranno guarnigione.

— Uhm!... — fece la fanciulla, scuotendo il capo. — Sono troppo abili cavalieri per servirsi delle ferrovie. Conosco le loro abitudini, poichè sono nata in queste regioni. Se ci accompagnano, vuol dire che la linea è minacciata.

— Forse v’ingannate, Annie.

— Ne dubito.

In quel momento, uno degli impiegati del treno si era presentato sul terrazzino chiedendo il permesso di entrare, e Blunt si era affrettato ad aprire.

— Signori, — disse, — avete armi? [p. 96 modifica]

— Non manchiamo nè di carbone nè di rivoltelle, — rispose lo scrivano, — e siamo uomini da saperle adoperare.

— L’amministrazione ne mette a vostra disposizione.

— Che cosa c’è dunque? — chiese Annie.

— Gli Apaches ed i Navajoes si sono messi sul sentiero della guerra e scorrazzano per le praterie che fiancheggiano la linea. Il capo Victoria è deciso a sterminare tutti gli uomini bianchi che abitano la regione.

— Victoria ha dissotterrata l’ascia di guerra! — esclamò Harris.

— Ed è sceso nel Gran Cañon alla testa di seicento guerrieri.

— Allora la linea non può essere minacciata, — disse Annie.

— Ci sono i Navajoes che battono la prateria, signora, — rispose l’impiegato. — Ieri, per poco non hanno catturato il treno che veniva da Prescott, e hanno ucciso il macchinista con una fucilata nella testa. Signori, state in guardia, — aggiunse, uscendo.

— Victoria in armi! — disse Harris quando furono soli. — Ecco una notizia che non m’aspettavo e che renderà estremamente difficile la nostra missione, mia cara Annie. E’ vero però che il Gran Cañon è vastissimo, e non è facile incontrarsi.

— E mio padre? — disse Annie, con un sospiro. — Se cadesse nelle mani degli indiani?

— I banditi che lo tengono prigioniero non saranno così sciocchi da lasciarsi prendere. Non temete per lui, Annie.

I rifugi non mancano nel Gran Cañon, dove si trovano anzi caverne immense, veri villaggi sotterranei, quasi inaccessibili, abitati da indiani trogloditi.

— Riusciremo a trovare quei briganti? — chiese lo scrivano.

— Will Rook non sarà sconosciuto nel Gran Cañon e sapremo facilmente dai minatori dove ha il suo rifugio, — rispose Harris.

— Se ci cade fra le mani non lo risparmieremo, è vero ingegnere?

— Lo fucileremo come un cane idrofobo. Per ora teniamo gli occhi aperti sui Navajoes, che possono da un momento all’altro mostrarsi.

— Mi metto di sentinella sulla piattaforma, con la mia carabina, — disse Blunt, uscendo. — Il primo selvaggio che vedo comparire, lo saluto con una palla.

Il treno correva nel mezzo d’una vasta pianura erbosa che era, di tratto in tratto, interrotta da boschetti di salvie, da qualche lauro o da qualche albero del cotone che crescevano isolati. Ranchos non ve n’erano più, non fidandosi i grandi proprietari a costruirne in quei luoghi, a causa delle frequenti scorrerie degl’indiani e della eccessiva lontananza dei forti.

Il bestiame invece non mancava. Di quando in quando immense [p. 97 modifica]mandre di cavalli e di buoi apparivano, scortate da vaqueros e da cow-boys armati fino ai denti, dirigendosi verso le regioni del sud. Certo quegli animali provenivano dalle praterie intorno al Gran Cañon e venivano condotti nelle borgate od ai forti, perchè non cadessero nelle mani delle Pelli Rosse.

Alla sera il treno che aveva sempre proceduto lentamente, poichè i macchinisti temevano che gl’indiani avessero levato in qualche punto le rotaie, giungeva a Truscton, una borgatuccia perduta su quella immensa linea.

La piccola stazione era guardata da mezza compagnia di volontari delle frontiere, giunti la sera prima da Peach Springs, per metterla al sicuro da un colpo di mano da parte dei Navajoes, che si erano mostrati abbastanza vicini alla linea e parevano disposti a dare addosso ai treni.

— Signori, — disse uno degl’impiegati entrando nello scompartimento di Harris. — Non si prosegue per questa notte.

— Ci fermiamo qui dunque? — chiese l’ingegnere.

— Fino a domani mattina. La linea non è più sicura.

— Sono comparsi i Navajoes? — chiese Annie.

— I loro esploratori si sono veduti a quindici miglia da qui e si teme che abbian guastata la linea.

— Troveremo a Peach Springs la corriera che va al Gran Cañon? — chiese Harris.

— Non ne sono certo, signore, — rispose l’impiegato. — So che quella che è partita l’altro giorno ha dovuto ritornare in gran fretta a Peach Springs, perchè era stata attaccata.

— La faccenda diventa seria, — disse Blunt. — Come faremo a recarci al Gran Cañon se le corriere non fanno più servizio?

— Sapete cavalcare? — gli chiese Annie.

— Come un cow-boy, miss, — rispose Blunt. — Quando riuscivo a risparmiare qualche dollaro sulla mia misera paga, m’affrettavo a noleggiare un cavallo per andarmene fino a S. Bruno.

— Ebbene, signor Blunt, se le corriere non andranno, galopperanno i nostri cavalli. A Peach ne troveremo centinaia e di quelli buonissimi, è vero, signor Harris?

— Non avremo che da scegliere, — disse l’ingegnere, guardandola con profonda ammirazione. — Andiamo a cercare un albergo per passare la notte, giacchè siamo immobilizzati.

Lasciarono il treno, e non riuscì loro difficile trovare una posada, di aspetto abbastanza decente, dove ebbero due stanze.

Alle sei del giorno dopo il treno riprendeva la corsa con soli quattro carrozzoni, uno dei quali occupato da una quindicina di soldati, perchè nella notte gl’impiegati avevano appreso che altri cavalieri indiani si erano mostrati lungo la linea. [p. 98 modifica]

La macchina, come il giorno innanzi, procedeva con velocità moderata, sempre pel timore che gl’indiani avessero tolto in qualche luogo le rotaie.

I viaggiatori avevano già lasciata la stazione da qualche ora, quando, da una macchia di piante di romice, furono veduti sbucare, a briglia sciolta, alcuni cavalieri con la testa adorna di piume.

Erano esploratori Navajoes, gli alleati degli Apaches, ma non erano in numero tale da costituire un vero pericolo.

Ed infatti ai primi colpi di fucile sparati dai soldati che occupavano l’ultimo carrozzone, fecero un fulmineo dietro fronte e si rifugiarono nuovamente in mezzo alla macchia.

— Non credevo che fossero così vicini, — disse Harris allo scrivano, che aveva salutati i rossi guerrieri con un colpo di carabina, senza cogliere nessuno. — Dubito molto che le corriere del Gran Cañon funzionino ancora.

— Acquisteremo quindi dei cavalli? — chiese Blunt.

— Sì, ma non vi nascondo le mie preoccupazioni. Siamo troppo pochi per affrontare simili pericoli e saremo costretti ad assoldare una banda di uomini risoluti, perchè la nostra spedizione non finisca male fin dal principio.

— Ne troveremo?

— Conosco un vecchio colonnello che mi aiuterà a formare una piccola scorta. Chissà anche che possa ottenere un manipolo di soldati ed una corriera. La preferirei ai cavalli, per non esporre Annie ai tiri degl’indiani. Oggi, anche gli Apaches ed i Navajoes hanno delle armi da fuoco, e non se ne servono troppo male.

— Quando giungeremo a Peach Springs?

— Fra un paio d’ore.

— Continua la linea?

— Sì, prosegue verso il Nuovo Messico.

A mezzodì meno un quarto, il treno che aveva un po’ accelerata la marcia, giungeva senz’altri incidenti dinanzi alla stazione di Peach Springs, da cui si diramava la via che conduce al Gran Cañon. Regnava una viva animazione nella borgata. Enormi branchi di cavalli, di buoi e di montoni pascolavano nelle vicine praterie, ed un gran numero di furgoni ingombrava le vie e le piazze.

Molta gente doveva essere giunta dalle regioni del Gran Cañon, per non cadere sotto le lance e le scuri di guerra delle Pelli Rosse. Harris fece scaricare i suoi bagagli e si fece condurre in un albergo, per far riposare Annie qualche giorno prima di intraprendere il pericoloso viaggio.

Le notizie ricevute dall’albergatore non erano troppo liete. Da due giorni le corriere non partivano più, il treno partito la mattina era stato preso a fucilate nei pressi di Yampai; il Gran Cañon era in [p. 99 modifica]fiamme e quasi tutti i minatori erano fuggiti dinanzi alle scorrerie degli Apaches. Perfino il fortino di Ashera era stato assalito da un’orda di Navajoes, e per poco la guarnigione non era stata massacrata da quei feroci guerrieri.

Il gran capo Victoria era ormai padrone del Gran Cañon e le sue bande occupavano le due rive del Colorando, spingendo esploratori perfino nel Marble Cañon.

— Che cosa faremo, signor Harris? — chiese Annie, guardando con ansietà il giovane che pareva assai preoccupato per quelle nuove, tutt’altro che liete. — Volete che aspettiamo qui che gl’indiani si ritirino nei loro deserti?

— Quando l’indiano si mette sul sentiero della guerra non si ritira finchè non viene cacciato da un nemico più forte di lui, — rispose Harris. — Il governo dell’Unione prenderà certo dei provvedimenti e manderà qui delle truppe per scacciare quei predoni, ma quando giungeranno i rinforzi? Passeranno molte settimane ed intanto che cosa potrà accadere di vostro padre? No, Annie, noi dobbiamo partire.

— E senza perdere tempo, — aggiunse Blunt con vivacità. — Non siamo persone paurose noi, diamine!...

— Grazie, miei valorosi amici, — disse Annie, con voce commossa, tendendo loro le mani.

— Facciamo colazione, poi io e Blunt andremo a trovare il mio amico colonnello, il quale, forse, deciderà il corriere ad accompagnarci fino al Cañon.

— Chi è? — chiese Annie.

— Il signor Pelton.

— La cui moglie fu per tanti anni prigioniera degli Apaches? — chiese Annie.

— Lo conoscete?

— Ne ho udito parlare sovente e conosco la sua dolorosa storia.

— Ma non io, — disse Blunt.

— Ve la narrerò durante la via, eterno curioso, — disse Harris, ridendo.