La Stella Polare ed il suo viaggio avventuroso/Parte prima/13. Addio Europa!

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Capitolo XIII

Addio Europa!


Nelle spedizioni polari i cani sono d’una utilità così immensa, che quasi tutti gli esploratori ne hanno sempre condotti con loro, per poter procedere rapidamente attraverso gli immensi campi di ghiaccio.

L’uomo, per quanto robusto, si è sempre trovato impotente a porre in opera la sua forza muscolare. Il freddo terribile, che scende talvolta al disotto dei cinquanta e più gradi, esercita un’influenza disastrosa sull’organismo umano.

Le forze se ne vanno, l’energia si spegne ed una specie di ebbrezza invade l’esploratore polare, rendendolo incapace a trascinare od a portare un carico anche leggiero.

Si è quindi ricorso ai cani per poter trascinare le slitte, sulle quali si carica tutto il necessario occorrente agli esploratori: tende, viveri, vesti, coperte ed armi.

Fino a pochi anni or sono, non si erano adoprati che cani esquimesi, ma non sempre avevano fatto buona prova, in causa della loro testardaggine e del loro carattere irrequieto e selvaggio.

Quelli di razza esquimese sono buoni corridori, quantunque non [p. 133 modifica]siano alti più di sessanta centimetri e tirano anche bene, essendo capaci di percorrere cinquanta chilometri al giorno portando, solamente in dieci, un carico di ben quattrocento chilogrammi. Si accontentano anche di poco, essendo abituati a cacciare per loro conto, però, come si disse, sono d’una obbedienza molto dubbia.

Essendo della razza dei lupi, e ne hanno anche le forme, non si affezionano mai ai padroni, anzi talvolta costituiscono un vero pericolo. Vanno, per paura della sferza, ma non sempre la temono e trascinano sovente le slitte attraverso a burroni e crepacci per correre dietro a qualche volpe, senza curarsi della vita delle persone che conducono.

Per di più vanno soggetti di frequente a una malattia contagiosa, ad una specie di cholera, che li distrugge completamente, lasciando l’esploratore nell’impossibilità di continuare la marcia o di ritornare alla nave.

Il luogotenente Payer della marina austro-ungarica, l’eroe della leggendaria spedizione del Tegetthoff e poi scopritore della Terra di Francesco Giuseppe, fu il primo a rinunciare ai cani esquimesi, sostituendoli coi danesi e con quelli di Terranuova, però i risultati non sembra che siano stati tali da incoraggiarlo.

Nansen ne volle seguire l’esempio, scegliendo invece quelli di razza siberiana, più atti a sfidare i grandi freddi della regione polare, e meglio addestrati al servizio delle slitte, e non ebbe a dolersene. Trontheim fu il fornitore, e quest’uomo, per consiglio del fortunato esploratore polare, doveva pur esser quello che doveva consegnare a S. A. R. il duca degli Abruzzi, i cani necessarii per la futura esplorazione.

Un tipo molto curioso quell’allevatore di cani, tale anzi da meritare qualche cenno.

Prima della famosa spedizione di Nansen, nessuno lo conosceva. Sepolto fra le nevi siberiane, non aveva nessuna notorietà, nè all’est nè all’ovest del grande impero russo.

Quando l’esploratore norvegese, convinto della grande utilità di possedere buoni cani, cercò di provvedersene, aveva avuto la buona idea di rivolgersi al barone Edoardo Foll, di Pietroburgo, già notissimo pei suoi viaggi in Siberia. [p. 134 modifica]

Il viaggiatore siberiano stava allora allestendo una spedizione scientifica in Siberia. Desideroso di agevolare il Nansen, parte per Tiumen e coll’aiuto di un commerciante inglese, il signor Wardrsppers decide un noto allevatore, Aleksander Iwan Trontheim a condurre un drappello di cani nello stretto di Jugor, dove attendevalo il Fram.

Il siberiano è uomo di parola. Attraversa i deserti territori della Siberia settentrionale ed un bel giorno comparisce dinanzi alla piccola stazione di Kabarova.

Sale in una barca e va a bordo del Fram, la nave di Nansen, conducendo con sè alcuni cani.

Era partito con quarantatrè, però durante il viaggio ne aveva perduti prima cinque, in causa di varii incidenti; uno era morto più tardi, sbranato dai lupi, e due altri erano morti strangolati nelle boscaglie che era stato costretto ad attraversare.

Il viaggio era stato dei più difficili e dei più pericolosi. Trontheim, per giungere in tempo all’appuntamento, aveva dovuto chiedere l’aiuto ad una tribù di samojedi e caricarsi di trecento pund di viveri pei cani, ossia di circa quattromila e ottocento chilogrammi di peso.

Impiegò tre lunghi mesi a percorrere, assieme alla tribù, composta anche di donne e di fanciulli, quelle deserte regioni della Siberia settentrionale. Il suo viaggio fu una vera peregrinazione da nomadi; nessuno andava diritto alla mèta; vagavano a capriccio, arrestandosi solamente là dove i licheni abbondavano. Avevano molte renne da mantenere, circa quattrocentocinquanta e bisognava, innanzi a tutto, pensare a non perderle.

Attraversati i monti Urali, Trontheim e la tribù giungono finalmente sul fiume Usna, dove si riposano due settimane presso una capanna abitata da un povero contadino, unica abitazione in un deserto di una estensione di oltre cento chilometri.

Tutti erano sfiniti, ma il bravo Trontheim non voleva mancare alla parola data al commerciante inglese. Si riposa due settimane, poi prosegue arditamente la marcia, incoraggiandosi con un po’ di acquavite comperata da uno zyriano.

Alla fine di giugno, vedendo avvicinarsi il termine entro cui si [p. 135 modifica]era assunto l’impegno di consegnare i cani, Trontheim decide di dividersi dalla tribù. Lascia indietro le donne, i fanciulli, le renne e s’avanza con alcuni uomini verso il mare, conducendo con sé dieci slitte.

Il 9 luglio, come aveva promesso, giungeva a Kabarova, nello stretto di Jugor, dove lo attendeva il Fram.

L’impressione riportata da Nansen, quando volle provare i cani, merita di venire riportata.

Appena ricevuto l’avviso insperato che Trontheim era giunto, Nansen si era affrettato a recarsi all’accampamento dei cani, situato a qualche distanza dall’abitato. Erano tutti legati in una lunga fila e facevano un baccano assordante.

Molti di essi avevano l’aspetto di cani di razza, pelo lungo e bianchissimo, orecchie diritte e muso aguzzo. Altri, dal pelo più corto, avevano l’aspetto più volpino; parecchi erano neri o macchiati. Ce n’erano, visibilmente, di diverse razze, ed alcuni tradivano, con le loro orecchie pendenti, una forte mescolanza di sangue europeo. Con grande voracità ingoiavano il pesce crudo (aringhe d’acqua dolce) non senza azzuffarsi fra i vicini.

Trontheim ne scelse dieci che attaccò a una slitta samojeda. Quando questa fu allestita e Nansen vi ebbe appena preso posto, la muta, scorto a poca distanza un infelice cane forestiero che si avvicinava, partì al galoppo contro la povera creatura. Ululando come lupi feroci, piombarono tutti dieci addosso a quell’uno, mordendolo e dilaniandolo. Il sangue scorreva in gran copia, e il disgraziato urlava pietosamente, mentre Trontheim, girando attorno come un ossesso, menava colpi a dritta e a sinistra. Riavutosi dalla sorpresa, Nansen si gettò alla sua volta sui più feroci combattenti e li afferrò per la gola, dando così un breve respiro alla vittima che poté ritirarsi.

La muta dei cani s’era talmente scompigliata durante la zuffa, che ci volle non poco per districarla. Finalmente, rimesso ogni cosa in ordine per la partenza, Trontheim fece schioccare la frusta, gridando prrr, prrr, e via a carriera sfrenata, su terreno erboso, su pietre, su argilla, e poco mancò non attraversassero anche la laguna. [p. 136 modifica]

«Io, – racconta Nansen, – m’appuntavo coi piedi e tiravo le redini quanto potevo, ma inutilmente, e non fu se non impiegando le nostre forze unite, che riuscimmo alfine a fermare, appunto quando si stava per entrar nell’acqua, e noi si continuava a gridare: sass! sass! tanto che rintronava tutto Kabarova. Facemmo prendere un’altra direzione ai cani, che partirono di nuovo con tale abbrivo, che stentavo a tenermi saldo. Era proprio un mezzo di trazione stupefacente; e noi imparammo ad apprezzare la forza dei cani, avendo visto come potevano trascinare un paio di uomini su quel cattivo, per non dir pessimo, terreno.»

Come aveva mantenuta la parola con Nansen, il bravo Trontheim non aveva voluto mancare a quella data a S. A. R. il duca degli Abruzzi, tanto più che v’era stato di mezzo l’ordine del governo russo.

Con la numerosissima muta attaccata a molte slitte cariche di viveri, aveva lasciato Tiumen, città della Siberia occidentale, situata sulla via che da Jecaterimburg va a Tobolsk, proprio sulla frontiera russo-siberiana, recandosi prima a Perm.

Di là aveva proseguito a gran tratti verso il nord, ora servendosi delle barche, che solcano i grandi fiumi della Russia centrale, ed ora delle sue slitte, giungendo ad Arcangelo parecchio tempo prima dell’arrivo della Stella Polare.

Durante quel lunghissimo viaggio non aveva perduto un solo dei suoi cani, anzi era riuscito a condurli tutti a destinazione in buonissimo stato.

Come quelli che aveva fornito a Nansen, non appartenevano tutti ad una medesima razza. Ve n’erano parecchi di razza incrociata, alcuni dal pelo lunghissimo e bianco, gli orecchi diritti, il muso appuntito e che rassomigliavano un po’ ai lupi; altri invece avevano l’aspetto del nostri volpini, con grandi code villose ed il pelame perfettamente bianco o macchiato.

Belle bestie però, che dovevano rendere preziosi servigi agli audaci esploratori, durante le loro corse attraverso i ghiacci polari.

Trontheim, un bel tipo di siberiano, di statura media e robusta, dalla fisonomia aperta e bonaria, con barba rossiccia, aveva voluto consegnarli personalmente a S. A. R. il duca degli Abruzzi, però [p. 137 modifica] Alla caccia delle foche. [p. 139 modifica]prima di farli condurre a bordo, aveva voluto farglieli provare sotto le slitte, anche per insegnargli il modo di servirsene. Le prove erano riuscite soddisfacenti, malgrado la irrequietezza indiavolata di quelle bestie, un po’ indocili e difficili a obbedire, sia alle briglie, sia alla frusta, sia alla voce dei padroni.

Intanto a bordo s’erano preparati i canili per ricevere quei numerosi ospiti a quattro gambe. La cosa non era stata facile però, e S. A. R. ed i suoi aiutanti avevano dovuto sudare non poco ad allogarli tutti.

Tuttavia l’alloggio fu disposto in modo conveniente, sulla coperta della Stella Polare, non essendovi la possibilità di collocarlo sotto, in causa dell’ingombro del carico.

Nei primi giorni regnò non poca confusione a bordo, con tanti animali. Quei poveri cani, non abituati a navigare, parevano spaventati di trovarsi su quella nave che subiva, anche in porto, delle ondulazioni, e si ribellavano ai marinai che volevano rinserrarli nei canili, scappando ora a prora ed ora a poppa.

Imbarcati i cani, la Stella Polare rinnovò le sue provviste di carbone, circa duecentocinquanta tonnellate e prese a bordo altre numerose casse, contenenti per lo più vesti di pelle di foca e un gran numero di scatole inviate da S. M. la Regina e che dovevano serbarsi per le grandi solennità. Inoltre furono imbarcate anche diverse casse di libri, pure inviate da S. M., la quale aveva avuto il gentile pensiero di donare allo Stato Maggiore una piccola Divina Commedia, ed ai marinai ed alle guide alpine dei libri di preghiere.

Gli ultimi preparativi venivano intanto spinti alacremente innanzi. A bordo tutti lavoravano febbrilmente, S. A. R. compreso, il quale non si faceva distinguere dagli altri, con grande stupore della popolazione.

La cosa pareva molto strana a quei buoni russi, abituati a vedere i loro principi a comandare e farsi obbedire, ma S. A. R. ne rideva di cuore ed a coloro che gli chiedevano come non si limitasse a ordinare, rispondeva bonariamente:

– Cosa volete?... Io non ho un segretario! –

S. A. R. durante quei dodici giorni, aveva però fatte anche [p. 140 modifica]frequenti gite a terra, per esperimentare le sue macchine fotografiche e per dare anche un po’ di svago ai membri della spedizione, prima di dare un addio alle terre civili.

Aveva dati e restituiti ricevimenti, e non aveva nemmeno rifiutata una partita di law-tennis offertagli da alcuni signori inglesi, ma si era mantenuto molto riservato intorno allo scopo della spedizione. S’era però limitato a far credere che il suo viaggio non era stato intrapreso per andare al Polo, bensì per esplorare le regioni settentrionali della Terra di Francesco Giuseppe non raggiunte da Jakson.

Interrogato sul suo ritorno, aveva risposto sorridendo:

– Ciò dipenderà interamente da quello che potremo fare. Se avremo buona fortuna e troveremo subito qualche cosa di buono, ci affretteremo a tornarcene a casa, se no... –

Egli si era arrestato su quel no sibillino, non volendo forse completare il suo pensiero, ma uno dei suoi compagni, come per dare soddisfazione a coloro che li interrogavano, aveva soggiunto:

– Se no, dovremo rimanere là a raccogliere qualche cosa! –

Gli ultimi giorni furono occupati in ricevimenti. Le autorità di Arcangelo, l’ambasciatore italiano a Pietroburgo, col suo attaché militare ed il suo segretario, alcuni ufficiali italiani, parecchi notabili russi, molti inglesi e francesi furono ricevuti a bordo.

Anche il granduca Wladimiro, ritornato allora dall’inaugurazione del porto di Katerina, andò a complimentare S. A. R. facendogli i suoi augurii per la riuscita del viaggio.

L’11 luglio, tutto era pronto per la partenza.

La macchina, fin dal mattino, era sotto pressione ed a poppa era stata nuovamente spiegata la bandiera italiana e sull’albero maestro la fiamma russa.

Una folla enorme s’era riversata sulle gettate, mentre i marinai delle numerose navi ancorate nel porto si erano disposti sui pennoni per gli urrà d’uso.

Tutti erano commossi; anche S. A. R. appariva un po’ nervoso.

Il comando è dato. Le àncore vengono ritirate a bordo, la macchina sbuffa e l’elica comincia a mordere le acque.

Il Duca degli Abruzzi, ritto sul ponte, saluta la folla agitando il berretto. Presso di lui stanno Cagni, Querini, il dottor [p. 141 modifica]Cavalli-Molinelli e, un po’ in disparte, il conte Oldofredi Tadini, gentiluomo di corte, il cav. Silvestri, il conte colonnello Nasalli-Rocca ed il conte Edoardo Rignon, capitano delle batterie a cavallo.

A poppa segue una lancia a vapore, messa a disposizione del conte Oldofredi e dei suoi compagni dal principe Gortchacoff, governatore di Arcangelo.

La Stella Polare scende maestosamente il fiume, lanciando di tratto in tratto dei sonori fischi.

A qualche ora da Arcangelo si arresta per dare l’ultimo addio agli italiani che hanno voluto, con gentile pensiero, scortare il Duca.

Si stringono affettuosamente le mani fra i più calorosi augurii, poi il conte Oldofredi scende nella scialuppa assieme al cav. Silvestri, al colonnello Nasalli ed al capitano Rignon.

S. A. R. il duca, ritto sul ponte di comando, in preda ad una commozione che non riesce a vincere, si leva il berretto e con voce vibrata grida:

– Viva il Re!... –

Tra il gorgoglìo delle acque rompentesi contro le rive ed i muggiti sordi del mare frangentesi contro la nave, quattro voci formidabili rispondono:

– Viva il Re!...

– Sì, viva e viva l’Italia!... – grida Cardenti, che è diventato pallido.

La Stella Polare corre già sul mare, mentre a bordo della scialuppa a vapore il gentiluomo di corte ed i suoi compagni agitano i fazzoletti in segno di saluto.

Addio Europa!... Addio terre civili!... I campi di ghiaccio del polo, i pesanti nebbioni, le tempeste tremende dell’oceano Artico, l’ignoto pauroso, attendono gli audaci esploratori.

Non importa!... Avanti Savoia!... Viva l’Italia!...

La Stella Polare è già in mezzo ai ghiacci del mar Bianco. Gli urrà si sono spenti, la scialuppa a vapore sta per scomparire. Ormai, non è più che un punto nero appena visibile sulle acque del fiume, eppure sembra che in aria, fra le gelide folate del vento nordico, una voce possente gridi ancora:

– Viva il Re!... — [p. 142 modifica]

La voce robusta di Cardenti risuona improvvisa fra il fragore dei flutti:

– Avanti, sempre avanti Savoia!... I ghiacci non ci fanno paura!... Saremo i lupi del polo!... —

Poco dopo la Stella Polare fendeva vigorosamente i primi lastroni di ghiaccio, diretta alla lontana Terra di Francesco Giuseppe.

fine della prima parte