La Stella Polare ed il suo viaggio avventuroso/Parte terza/11. Verso il polo

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Parte terza - 10. L'inverno polare Parte terza - 12. Il ritorno

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Capitolo XI

Verso il polo


Il triste inverno polare è finalmente passato.

Verso la metà di gennaio già un barlume di luce era apparso sull’orizzonte, in direzione della Terra Carlo Alessandro, luce scialba scialba, appena spuntata e già scomparsa. Era un buon segno: il sole s’avvicinava e la lunga notte polare era al termine.

Nei giorni seguenti la luce cominciò ad aumentare. A mezzodì appariva e si manteneva sempre più sull’orizzonte, diffondendosi pel cielo.

Con quanta ansietà la spiavano tutti!… Freddo e neve, nessuna cosa li tratteneva sotto la tenda all’ora in cui compariva, tutti si precipitavano fuori per contemplarla.

Quella luce era la vita: era la fine di quella tetra notte, durata tante settimane.

Era il momento di fare i preparativi per la marcia verso il polo.

Già i primi uccelli erano giunti e pareva che volassero tutti incontro al sole, mentre le foche e le morse facevano la loro comparsa godendosi quel po’ di luce pallida e priva di calore.

Nel campo si lavora febbrilmente per allestire la prima spedizione. Si preparano le slitte e si rinforzano, onde possano resistere meglio agli urti; si scelgono con gran cura i viveri, le armi, le munizioni, le vesti per poter sfidare i rigori intensi del freddo, le lampade a spirito, non potendo caricare le stufe sui leggeri veicoli, e si esaminano attentamente i kajah, quei piccoli canotti usati dagli esquimesi, formati di pelli montate su uno scheletro leggerissimo e che possono essere necessari per attraversare i canali.

Il Duca sorveglia tutto, esamina tutto e dà consigli a tutti, quantunque sia molto sofferente per le amputazioni subìte. È però molto crucciato di non essere in caso di prendere parte alla spedizione in causa delle non ancor rimarginate ferite, che gli impediscono di affrontare il freddo esterno sotto la minaccia di vederle incancrenire.

Il 20 febbraio tutto è pronto per la partenza. La carovana, al [p. 300 modifica]comando di Cagni, si compone di dodici persone. Querini, Cavalli, le quattro guide, Cardenti, Canepa e tre norvegesi.

Tutti sono di buon umore e risoluti a spingersi verso il polo con una marcia rapida. I cani latrano giocondamente.

Gli addii sono commoventi. S. A. R. stringe vigorosamente la mano a tutti, rammentando loro che si tratta dell’onore italiano ed incitandoli a fare il loro dovere ed essere obbedienti al capo della spedizione.

Passa in rivista gli uomini, i cani e le slitte e dà, con voce commossa, il segnale della partenza.

Le fruste scoppiettano, i cani abbaiano e la carovana si mette in marcia fra gli urrà dei norvegesi che rimangono a guardia del campo e della Stella Polare.

Quel primo tentativo non doveva avere felice successo. Forse era ancora troppo rigido il clima per poterlo sfidare e per poter dormire sotto piccole tende appena riscaldate da lampade.

La spedizione non è ancora giunta all’altezza del Capo Germania che scoppia un furioso uragano di neve. È una tormenta formidabile che non si può sfidare impunemente e che accieca e soffoca uomini e cani.

I termografi a minimo segnavano sui palks –52°, il che non provava che quella fosse la temperatura più bassa, poichè gli apparecchi non potevano indicare di più. Come resistere a simili temperature?…

Per maggior disgrazia i cani, che non sanno più trovare i passaggi migliori fra quel turbinìo di neve, spezzano le slitte contro le asperità dei ghiacci.

Il disastro è completo e la spedizione, impotente a reggere a quei freddi terribili, non ostante la sua energia ed il suo buon volere, si vede costretta, due giorni dopo la sua partenza, a ritornare all’accampamento da cui era partita così piena di speranze.

Quella decisione fu certamente saggia e probabilmente salvò la spedizione da una morte certa, poichè le burrasche di neve dopo quell’epoca si successero costantemente e con tanta furia da mettere in serio pericolo perfino gli accampati.

Vi fu anzi un giorno che la neve cadde in tanta copia da [p. 301 modifica]seppellire completamente le tende, costringendo gli accampati a rimanere prigionieri per ventiquattro ore. Attorno si era formata una tale barriera di ghiaccio da non poterla superare nemmeno con le funi.

La buona stagione però, quantunque lentamente, s’avanzava. Le nebbie si sfollavano rapidamente, gli uragani di neve diventavano meno frequenti, il freddo scemava ed i ghiacci non subivano più pericolose pressioni. Anche il sole si manteneva ormai sopra l’orizzonte, bassissimo anche a mezzodì vero (+4°), ma la luce crepuscolare durava anche a mezzanotte, essendo l’arco di depressione dell’astro -12°.

Intanto i preparativi per la seconda spedizione venivano spinti alacremente innanzi, sotto la direzione del Duca e del capitano Cagni. L’equipaggiamento era stato scelto con cura estrema e così pure erano stati scelti i viveri.

La nuova spedizione doveva essere un po’ più numerosa della prima e anche meglio organizzata.

L’11 marzo tutto era pronto per la partenza.

La carovana si componeva di tredici slitte, di tredici uomini e di cento e quattro cani. Tutti gli italiani, eccettuati il Duca, che si trovava ancora in condizioni tutt’altro che buone in causa dell’amputazione delle dita, ed il cuoco, vi prendevano parte, unitamente al capitano Evensen, il primo macchinista, il signor Stökken, che si era offerto volontariamente di prendervi parte, ed a due marinai.

La carovana doveva spingersi più innanzi che era possibile, poi rimandare gradatamente dei drappelli, per mantenere agli ultimi e più resistenti, i viveri necessarii per marciare alla conquista del polo.

L’11 marzo adunque la carovana lasciava l’accampamento, conducendo con sè gran copia di viveri, diretta verso il Capo Germania prima, poi verso il Capo Fligely, per poi raggiungere la terra di Osborne, ammesso che fosse veramente un’isola.

I ghiacci erano cattivi, tanto che i cani penavano assai ad avanzare. Dappertutto sorgevano punte aguzze, o vi erano spaccature, strati di neve non ancora rassodata dove le slitte sprofondavano facilmente, minacciando di cadere entro i canali d’acqua marina.

Tutti, le guide specialmente, avevano un gran da fare ad aprire [p. 302 modifica]una via fra tanti ostacoli. Ora erano costretti ad abbattere a colpi di piccone, una punta che impediva il passaggio alle slitte, più oltre dovevano spianare la via, più innanzi costruire ponti di ghiaccio.

Ad ogni istante le slitte si rovesciano, le corde si spezzano, casse e cassette cadono e bisogna rifare il carico, oppure i cani, poco obbedienti per natura, fanno corse improvvise sulla pista d’una volpe e capitombolano in qualche crepaccio, imbrogliando le corde e guastando i veicoli.

Anche le cadute degli uomini sono frequenti. Ora è il ghiaccio che frana improvvisamente sotto i loro piedi, ora è la neve che si sprofonda. La rifrazione, così comune in quelle regioni, giuoca di frequente dei brutti tiri, ingannando l’occhio.

Talvolta gli esploratori credono di varcare un piccolo crepaccio e saltano.... cadendo invece in fondo ad un canale largo parecchi metri. La rifrazione aveva ingannato la misura, facendola apparire breve mentre era molto più larga. Talvolta invece è il vento del nord, freddissimo, che rende penosa la marcia. Solleva nembi di nevischio che avvolgono la carovana, acciecandola, e che screpola dolorosamente le carni del viso quantunque protetto dal cappuccio abbassato.

Malgrado tanti ostacoli e tante fatiche, la carovana si avanza animosamente, seguendo le coste della Terra Principe Rodolfo.

Alle sei si rizzano le tende e s’accampa in mezzo ai ghiacci.

Gli uomini divorano avidamente il pasto preparato in fretta, cucinato sulle lampade, poi si cacciano nei sacconi di pelle d’orso, stringendosi gli uni addosso agli altri per conservare maggiormente il calore.

Le vesti sono incrostate di ghiacciuoli, gli stivali sono diventati così duri da non poterli levare bisognerebbe farli a pezzi. Nessuno osa levarsi i grossi guanti di pelle: facendolo sanno bene di correre il pericolo di aver le mani gelate e di dover subire l’amputazione.

Al mattino la carovana si rimette animosamente in marcia, dopo di aver sgelati gli occhi che durante la notte si sono coperti di un velo di ghiaccio.

La via è orribile. Giganteschi ice-bergs e piramidi e cupole innumerevoli sbarrano la via alle slitte. [p. 303 modifica]

Passaggi non ve ne sono, eppure nessuno vuole ritornare. Attaccano gli enormi massi con le piccozze, li demoliscono pezzo a pezzo, aprono un passaggio, una galleria, un sentiero e vanno innanzi. Ma quali fatiche richiedono quelle poche miglia guadagnate in ventiquattro ore!... È un lavoro da titani che snerva rapidamente ed esaurisce l’energia ed il vigore di tutti.

Ad ogni momento è necessario scaricare le slitte per superare quei passaggi aperti con tanta fatica o staccare i cani da alcune per attaccarli alle altre, causando una perdita di tempo prezioso.

E gli ostacoli, lungi dallo scemare, aumentano invece a tal punto che certi giorni la carovana, dopo un lavoro schiacciante, non riesce a percorrere più di cinquecento metri!... Si sarebbe detto che il polo moltiplicava dinanzi a quegli audaci le barriere di ghiaccio onde non fosse dato loro di accostarlo.

Il capitano Cagni, non ostante le immense fatiche che doveva sfidare, durante le fermate non obliava le osservazioni astronomiche, prendendo doppie altezze del sole coll’orizzonte artificiale, meridiane ed extra-meridiane e determinando le longitudini coi cronometri Pongines, i quali serbavano incolume il tempo di Greenwick.

Non dimenticava pure di fare osservazioni di pressione e di temperatura.

Il freddo intanto si manteneva crudissimo, rendendo difficili gli accampamenti. Quaranta, quarantadue, quarantacinque gradi sotto lo zero! Altro che Alpi!... Anche le guide si lamentavano, quantunque abituate ai geli delle loro alte montagne. E nondimeno per nove giorni quell’ardito drappello lotta tenacemente, sfidando fatiche, freddi, uragani di neve, ice-bergs, spinto da un solo desiderio: quello di guadagnare via, di andare innanzi.

Il 13 marzo il primo drappello composto del capitano Evensen e di due marinai norvegesi torna alla baia di Teplitz.

Il 20 marzo quando la carovana distava circa settanta chilometri dalla baia, il capitano Cagni, che vedeva diminuire i viveri, decide di rimandare al campo un secondo drappello, composto del tenente Querini, del macchinista Stökken e della guida Ollier e di una slitta tirata da dieci cani. [p. 304 modifica]

Furono dati loro i viveri per dieci giorni, gl’istrumenti necessarii per fare il punto, onde non si smarrissero in mezzo a quei ghiacci sconfinati. Essendo il tempo buono era da presumersi che il drappello potesse giungere felicemente all’accampamento in otto od al massimo in dieci giorni.

Gli addii di Querini e dei suoi compagni furono commoventi. Si sarebbe detto che tutti presentivano di non dover più rivedere quei bravi camerati che avevano diviso con loro, fino a quel giorno, le fatiche e le privazioni.

Tutti seguirono con lo sguardo un po’ triste quel drappello finchè lo videro scomparire in mezzo agli ice-bergs che coprivano i campi di ghiaccio.

Ahimè!... Non dovevano più rivederli a Teplitzbay!... Il polo voleva delle vittime anche dalla spedizione italiana e se le prese.

Il grosso della carovana intanto, guidato da Cagni, muoveva verso il nord, avanzando faticosamente.

Aveva ormai lasciato da qualche tempo le coste settentrionali della Terra del Principe Rodolfo e s’avanzava attraverso i banchi di ghiaccio, lottando tenacemente contro i continui ostacoli.

La via diventa sempre più aspra, le fatiche aumentano ed il freddo anzichè diminuire, incrudelisce. Non importa!... Avanti, avanti ancora, avanti sempre!...

Cagni ne dà l’esempio incoraggiando tutti con la voce e coi fatti e rammentando a tutti che vi è molta gloria da raccogliere.

Ma il 21 marzo dei dubbi cominciano ad assalire il capo della spedizione. Potranno i viveri bastare per raggiungere il polo?... Questo pensiero lo decide a dividere ancora la carovana ed a rimandare un altro drappello alla baia di Teplitz.

Avevano allora raggiunto l’83° di latitudine settentrionale e molta strada vi era ancora da fare per raggiungere l’estremo punto del mondo.

Cagni affida al dottor Cavalli l’incarico di ricondurre indietro il terzo drappello non tenendo con sè che il marinaio Canepa e le due guide Fenoillet e Petigaux.

Si danno alcune slitte, viveri per venticinque giorni e la comitiva prende la via del ritorno a marce forzate per non rimanere senza provviste prima di giungere alla baia. [p. 305 modifica]La Stella Polare di ritorno dal suo viaggio. [p. 307 modifica]

Il capitano Cagni, coi suoi valorosi compagni, sei slitte e quarantacinque cani, riprende la marcia verso il nord, deciso a spiegare la bandiera italiana più innanzi che gli sarà possibile.

Eccoli in mezzo ai campi di ghiaccio dell’oceano Polare. Non più terre in vista, non più isole. Ghiacci, poi ancora ghiacci e quindi ghiacci di nuovo, poi nebbioni, poi uragani di neve, poi ostacoli di ogni specie.

La marcia diventa terribile; non importa, avanti ancora, avanti sempre fino all’esaurimento completo dei viveri e delle forze.

Essi sono come smarriti in mezzo a quel caos del gelo: avanti!... I banchi trepidano sotto i loro piedi, quei banchi mai calpestati prima da alcun essere umano: avanti!... Le nebbie avvolgono la piccola carovana come se volessero soffocarla: avanti ancora!... Nessuno ostacolo può arrestare quei quattro audaci perduti ai confini del mondo!...

La marcia invece di rallentare diventa più rapida. Il vento del settentrione che soffia costantemente ha gelato il mare, ed i ghiacci non sono più cattivi come nei primi giorni.

Quanti pericoli però!... I banchi talvolta sussultano, muggiscono, detonano, si spaccano sotto lo sforzo poderoso delle pressioni, minacciando ad ogni istante di inghiottire uomini, cani e slitte.

Un giorno il ghiaccio cede improvvisamente sotto i piedi del capitano e di Petigaux ed i due arditi esploratori cadono in acqua. Si sarebbero probabilmente annegati come Bellot, lo sfortunato esploratore francese, se i loro compagni non fossero subito accorsi a trarli sul pak, bagnati fino alla midolla delle ossa, ma più vivi di prima.

Incredibile a dirsi!... Quel bagno con 40° sotto zero non ebbe alcun effetto disastroso.

L’indomani il capitano e Petigaux erano ancora in marcia!...

Di passo in passo che si avanzano verso il polo il tempo è pessimo. Venti freddissimi soffiano costantemente, screpolando le carni agli esploratori, e nevi e nebbie calano sul pak. Il polo aumenta gli ostacoli dinanzi a quei prodi che vogliono squarciare il velo che lo nasconde.

Pure l’animoso drappello non si arresta ancora. Marcia con accanimento, guadagnando faticosamente metro per metro. Ancora uno [p. 308 modifica]sforzo!... Ancora delle miglia!... Un altro è guadagnato, un altro ancora!... Non mancano che duecentoquaranta miglia... L’86° è superato!... Nansen sta per essere vinto!... Avanti l’Italia!...

Anche il punto toccato dal fortunato esploratore norvegese è oltrepassato. Sono giunti più innanzi di tutti!... Stanno finalmente per calcare col piede quel punto ricercato per quattro secoli da tanti audaci e che ha costato tante vittime.

Ma no!... Un pericolo tremendo minaccia la spedizione: la fame!...

I viveri sono quasi consumati e non si vedono nè animali, nè volatili su quei campi di ghiaccio. Cosa fare? Andare innanzi ancora? Il ritorno poi sarebbe la morte di tutti.

Bisogna cedere.

A 86° 33’ ed a 65° di longitudine Greenwick, la spedizione, sfinita, esausta e già alle prese con la fame, s’arresta. È impossibile andare più innanzi. Il polo è la morte.

È il giorno di San Marco, patrono di Venezia.

Spiegano la bandiera italiana al gelido vento polare, più innanzi di tutti quelli che si sono avanzati in quelle regioni dei ghiacci eterni e s’accampano per solennizzare meglio che possono il felice avvenimento.

Il tempo, rimessosi al bello, permette al capitano Cagni di prendere, per due volte, la latitudine e la longitudine, poi quei valorosi si allestiscono un modesto pranzetto, che divorano ai confini del mondo, a sole duecentosette miglia dal polo.

Allo champagne – ne avevano conservato religiosamente una bottiglia – Cagni, dopo un breve discorso, brinda al Re, a S. M. la Regina, al Duca, all’Italia. I ghiacci del polo ripetono di eco in eco gli urrà dei valorosi e per la prima volta il nome d’Italia si propaga rimbombante fra quegli ice-bergs che forse contano secoli e secoli di esistenza.

Ma bisogna affrettarsi a ritornare. Ogni ora che passa può essere un giorno di fame: è necessario ritornare alla baia di Teplitz senza indugio.

Seppelliscono nei fianchi d’un ice-berg due bottiglie di ferro smaltato contenenti tre copie di una breve relazione del viaggio, poi il 26 aprile riprendono animosamente la via del sud. [p. 309 modifica]

Non è un ritorno: è una vera fuga precipitosa. I viveri diminuiscono a vista d’occhio e la fame sta per sorprenderli in mezzo ai campi di ghiaccio, così lontani dai loro compagni.

La fuga diventa rapida, affannosa. Dormono appena, poi riprendono la corsa fra le nevi, le bufere, le nebbie, i venti gelati. La fame li sospinge.

I viveri vengono finalmente meno e sono ancora così lontani dalla Terra del Principe Rodolfo. Per maggior sventura i ghiacci che vanno alla deriva verso l’ovest li allontanano sempre più.

I cani cadono, uno ad uno, sotto i colpi degli esploratori e servono di cibo. Possono chiamarsi fortunati quei poveri uomini quando hanno il tempo di cucinare quella carne nauseante che puzza fortemente di selvatico. Certi giorni si vedono costretti a mangiarla cruda, ancora gocciolante di sangue caldo.

E camminano, camminano, passando di banco in banco. Nessuna terra allieta la loro vista; nessun essere vivente si mostra. Dove sono? In mezzo al deserto di ghiaccio.

Verso la metà di maggio il capitano Cagni, che ha potuto fare il punto, s’accorge di essere trascinato all’ovest della Terra del Principe Rodolfo.

I banchi di ghiaccio avevano derivato in quella direzione, trascinandoli con loro, minacciando di allontanarli sempre più dalla baia di Teplitz.

Quella scoperta li sgomenta. Cosa sarà di loro se la deriva gli spinge nel mare di Vittoria?... Potranno prender terra alle isole che circondano le terre settentrionali del Principe Giorgio, o di Alfredo Harmsworth o all’isola Arthur o a quella più lontana di Albert Edward?

È qui che comincia la lotta contro la deriva. Marciano con accanimento spingendosi verso l’est per raggiungere la baia di Teplitz, la loro salvezza.

Il disgelo viene ad accrescere l’orrore della loro situazione. I ghiacci si sciolgono, i banchi si assottigliano e non reggono più il peso delle slitte e degli uomini.

Da un momento all’altro possono trovarsi senza sostegno, in pieno mare, e sono così lontani dalla baia!... [p. 310 modifica]

L’angoscia comincia ad impadronirsi di loro e per un momento Cagni ha intenzione di spingersi risolutamente verso il sud, di attraversare la Terra del Principe Giorgio e quella d’Alessandro e di raggiungere il deposito di viveri del Capo Flora.

Ma la lunghezza del viaggio e la mancanza dei viveri lo spaventano e decide, con felice pensiero, di tentare ancora uno sforzo supremo per condurre i suoi compagni alla baia di Teplitz.

L’isola di Giorgio Harley appare ben presto ai loro sguardi e dopo d’aver corso venti volte il pericolo di annegare, riescono, passando di banco in banco, a raggiungere le sue coste occidentali.

Da questa passano sull’isola Ommaney, la quale si trova di fronte al capo Hugh Mill, all’ovest della Terra Carlo Alessandro.

Sono ancora molto lontani dalla Terra Principe Rodolfo e dalla baia di Teplitz, ma non disperano ancora.

Lottano in velocità coi ghiacci che derivano, marciando con accanimento disperato e ricorrono a tutti i mezzi per guadagnare via. Si servono perfino dei banchi di ghiaccio come di zattere per attraversare i canali.

La Terra Carlo Alessandro è sorpassata!... Avanti ancora, uno sforzo supremo e le coste meridionali della Terra Principe Rodolfo compariranno.

Vagano sulla punta estrema della Terra Carlo Alessandro, descrivendo giri capricciosi a seconda della direzione dei ghiacci, toccano finalmente il capo Brorok ed il 23 giugno, dopo un viaggio di centoquindici giorni rivedono la Stella Polare e cadono nelle braccia del Duca.

Erano esausti, sfiniti dalla fame e dalle immense fatiche sopportate e ritornavano con tre sole slitte e sette cani.

Tutti gli altri erano stati divorati durante quella precipitosa ritirata.