La Tomba di Shakespear

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Lorenzo Pignotti

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LA TOMBA

DI

SHAKESPEAR

POEMETTO

DI

LORENZO PIGNOTTI


Le tacit’ombre della cupa notte
Già diradava il mattutino albore,
Che dal lucido albergo ond’esce il sole
Languido e fioco ancor, candide tracce
Traea d’incerto lume, e di natura
Coloria lentamente il dubbio aspetto.
Era sorta sul balzo d’oriente
Da i freddi amplessi del marito annoso
Colle chiome dorate all’aura sparse,
Avvolta in roseo manto, che risplende
Di biancheggianti perle, ond’è trapunto,
Del rinascente dì la messaggiera.
Già il vapor grave di profondo sonno,
Che in un tranquillo obblio sepolta l’alma
Acea tenuta, incominciava appena

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Lentamente a disciorsi, e l’interrotto
Commercio usato in fra lo spirto, e i sensi
Era ně aperto ben, nè affatto chiuso:
Rinascevan le idee, ma sopra l’ali
Leggerissime errando, e dall’impero
Sciolte della ragione in nuova, e strana
Lega male accoppiate ad ogni istante
Volteggiando fra lor con isfrenati
Rapidi salti, ivan cangiando aspetto.
Così talora al soffio impetuoso
D’Austro, e di Coro miri in cento guise
Le lievi paglie errar, l’aride frondi,
E le minute arene insiem confuse
Mescolandosi ognor per l’aer voto.
È questo il dolce tempo, in cui si schiude
La cristallina, ovver l’eburnea porta,
Onde la lusinghiera agile turba
De’ sogni spiega le scherzose penne.
     Mentre ondeggiando in un dubbioso oblio
Giva il vago pensiero immaginoso,
Volar mi parve sulle ricche sponde
Del guerriero Tamigi: ivi mirai
Quella, che un dì sulla temuta rupe
Del Tarpeo glorioso ebbe la stanza
La libertà latina in torva fronte,
Severa il volto d’Albione i figli
Chiamar con voce minacciosa all’armi:

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All’armi, all’armi in spaventoso tuono
Replicar d’Albion le cupe valli,
Già l’ondeggianti prore, armare il fianco
Dei fulmini di guerra, ornate il dosso
Di pieghevoli industri, ed agil’ali
Che sanno imprigionar, che render fanno
Facili, e al moto loro obbedienti
L’aure ritrose, in minaccioso corso
Aprendo gian di Teti il glauco grembo:
Gemevan rotti in biancheggiante spuma
I salsi flutti, e il nautico clamore,
De’ cavi bronzi il ripercosso suono,
Le grida de’ guerrieri impazienti,
Del popol folto i geminati applausi
Sparger parean sulle fuggenti arene
Di futura vittoria alte speranze.
     Ma da i gridi di guerra, e dal tumulto,
Ingrati oggetti alle tranquille Muse,
Il volubil pensier le rapid’ali
Altrove torse; e fra i pomposi, e tristi
Freddi alberghi di morte, ove, onorando
Le ceneri de i Re più, che da quelle
Onorata non è, sorge la Tomba,
Che la Beltà, l’Amor, le Grazie alzaro
Al Sofocle Britanno, il vol rattenne,
Stava sul sacro marmo in lieta fronte
Del gran cantor la venerabil ombra

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In bianche spoglie avvolta, e la rugosa
Fronte cingeva il sempre verde alloro;
Pendea sospesa al sasso la divina
Cetra de’ cor signora: ad esso accanto
Scarmigliata le chiome, in negra veste,
Atteggiata di pianto, e di dolore,
Melpomene sedeva, il ferro intriso
D’atro sangue stringea, copria la faccia
Trasfigurata un livido pallore,
E disperate lacrime versava
Da i torbidi e sanguigni occhi, ove pinta
Era la smania, e il nero orror di morte.
Stava dall’altro lato a lui dappresso
L’alata fantasia, vaga donzella
Scherzosamente adorna: il crin disciolto
Ondeggia sopra il petto, e sulle spalle;
Azzurro manto le vezzose membra
Copre, che fluttuando ora lo snello
Fianco disvela, ora l’anfante petto,
E nelle pieghe mobili ogn’istante
Nuovi color dispiega, come suole
Cangiarsi in faccia al sol della colomba
Il collo, o del Pavon l’occhiuta coda;
L’instabile inquieto ed agil piede
Non si ferma un momento, or quinci or quindi
Senza legge e misura ei si raggira:
Robuste infatigabili veloci

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Ali, che il fulminante augel di Giove
Vincon nel volo, a lei coprono il tergo:
Nelle vermiglie gote e ne’ vivaci
Occhi focosi, che con spessi giri
Muovono rapidissimi, traspare
Il bel capriccio e la gentil follia,
Stringe la destra sua magica verga,
Al cui poter, quando la scote, oh quali
Portenti, oh quanto nuove e inaspettate
Sorgon sembianze! or fralle nude arene
Della Siberia, e le deserte cupi
D’eterno gel coperte, al di lei cenno
Spunta vago giardino, ove scotendo
Aura gentile le straniere penne,
D’insoliti colori il verde smalto
Dipinge, e intanto l’infeconda piaggia
Le nuove frondi verdeggiare ammira
E le poma non fue: or ti trasporta
Di Tenariffa sull’eccelsa cima,
E già sotto i tuoi piedi errar le nubi
Miri, i lampi strisciar, scoppiare il tuono;
Or d’Atene, or di Roma il popol folto
Ti vedi innanzi, e fulminar da’ rostri
Tullio, e a suo senno trar del mobil volgo
Il pieghevole cor, l’animo incerto.
     Stupido e muto alla grand’urna innanzi
Mi prostro, e adoro colla fronte bassa

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Del sublime cantor l’ombra onorata.
L’alata Dea mi riconobbe, e un vivo
Sguardo penetrator vibrommi, e tosto
Si volse a me con salutevol cenno.
Per man mi prese, e disse, o tu che fei
Caro alle Muse, tu cui sè natura
Di sensibili fibre atte a destarsi
Al mio possente tocco, io t’insegnai
Per le scoscese rupi di Parnasso
A stampar con piè franco orme animose;
Gli attici sali cd i canori scherzi
Io ti dettai, con cui tu l’eleganti
Splendide inezie del galante mondo
Ricopristi di riso; ah! lascia adesso
Gli scherzevoli motti, e lascia in pace
Dormir nell’ozio e fra i pomposi nienti
La ridicola turba del bel mondo.
Nuovi pensier, nuov’ordine di cose,
Novelle forme a te finora ignote
A svelar mi preparo, e i maestosi
Quadri che Apollo istesso ammira, e i sacri
Muri n’adorna del suo chiaro tempio,
Pennelleggiati dalla mano ardita
Del gran pittor, che qui mi siede accanto,
Fien scoperti a’ tuoi sguardi, e delle Muse
Le più ricche aprirò splendide stanze,
Disse: e l’aurata onnipotente verga

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Mi stese in fronte, al di cui tocco, quale
Se talor cade piccola favilla
Sopra salnitro, e depurato zolfo,
Che il carbon polveroso in negri avvolse
Minutissimi grani, arde, e balena
Subita fiamma, e con orrendo scoppio
Introna l’aria intorno, e crolla il suolo:
Tal scuotermi allor sento da improvviso
Moto inusato: un freddo gel per l’ossa
Rapido corre, indi il calor succede:
L’intime fibre un fremito soave
Ricerca dolcemente, irta diventa
L’irrigidita chioma, e la presenza
D’un Nume agitator sento nel petto.
Ove son io? non è quello, che scorgo
Torreggiar maestoso, il Campidoglio
Di barbari, e di Regi alto spavento
Di Corintie colonne, e di sublimi
Portici cinto, e d’ondeggiante turba
Ripieno, non è quello il Roman foro?
Di parii marmi, e di spiranti, e vive
Immagini adornato ecco là surge
Di Pompeo il teatro. Oimè che miro!
Fermati, o Bruto, il furioso acciaro
A chi d’immerger tenti, oh Dio! nel seno?
Cesare non è questi? e non è questi
L’Eroe più grande, che formò natura?

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Sì; ma grande lo fer così gli Dei
Per punire i Romani; al mondo, a Roma,
Ed alla libertà vittima cada.
Già l’alte grida, e il popolar tumulto
Mi richiamano al foro. Oh qual ti miro
Del maggior de’ mortali esangue spoglia
Immobile gelata! jeri un tuo cenno
Facea tremare il mondo: oggi ti giaci
Inonorata, e sola! ecco, o Romani,
Il lacerato, e sanguinoso manto
Del vostro padre: il dispietato Cassio
Qui lo stracciò con improvviso colpo.
Là Cimbro, e Casca, e quà ficcò l’acciaro
Bruto inumano, e quando indi il ritrasse,
Mirate, oh Dio, qual rubiconda riga
Segnollo! Ma già destasi l’insana
Popolar furia, già volano i dardi,
Le faci, i sassi, e dall’avare sponde
Sen fugge già la libertà sdegnata.
     La scena si cangiò, Roma disparve.
Queste di Cipro son le infauste arene.
Rimira il fiero Otello, a cui nell’alma
Il freddo immedicabile veleno
Versò la gelosia: s’agita e freme,
E tra la rabbia, e tra l’amore ondeggia.
Vedilo tra le cupe ombre notturne
Che all’incerto chiaror di fioco lume

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Tito le chiome, di pallor dipinto,
E terribili sguardi dai sanguigni
Occhi lanciando, alle fatali piume
Del nuzial mal augurato letto
Vacillando s’accosta, ove in tranquillo
Obblio composta, e del suo fato ignara
L’innocente cagion de’ suoi furori
Dorme sicura, ecco la destra inalza
Al fatal colpo: ma il gentile aspetto
Di lei che tenne del suo cor le chiavi,
Ma l’angelico volto, ov’apre il sonno
Novelle grazie, il palpitante seno,
Par che nel cor feroce una scintilla
Destino di pietà. Sopra la guancia
E sulla bocca, onde con lento moto
Esce spinto dal sonno alternamente
Il respiro soave, il fiero amante
Colle tremanti sue livide labbia
Imprime incerti baci: ecco gl’inonda
Involontario e disperato pianto
Le furibonde luci: ecco di nuovo
Il cor gli stringe e serra con gelata
Mano la gelosia, gli offusca i lumi,
Gli occupa i sensi... il fatal colpo è fatto.
     Ma qual di larve piena e mete voci
Di Nottole, e di Strigi, al feral canto
Del querulo Bubone orrida notte

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Di tenebre funeste ammanta il cielo?
Del tempestoso Baltico le sponde
Mi s’offrono allo sguardo, e tra l’incerto
Albor che cade pallido e languente
Dalle tremule stelle, io già discerno
Aguzzando le ciglia, la Danese
Di mostri, e di prodigj infame terra.
S’apron di morte le funebri stanze;
Non vedi uscir dalla dischiusa tomba
Di nere e rugginose armi guernita,
Pallida in volto; e d’atro sangue lorda
Del Dano regnator l’ombra sdegnata?
Vedi che scuote la terribil asta!
Vedi che freme! e al caro figlio intorno
Anelante s’aggira! O voi celesti
Genj, di grazia o placidi Ministri
Difendeteci voi! Fermati, o vana
Acrea forma, e se di voce alcuno
Uso tu serbi, parla, e perchè mai
Entro il silenzio della notte amica
Vieni a turbar de’ miseri mortali
I tranquili riposi? e che mai chiedi?
Da noi che brami? o Prence sventurato,
Vedi l’ombra, che geme, e che ti mostra
L’esteniate membra, che l’occulto
Mortifero velen segnò di sozze
Livide macchie, del crudel misfatto

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L’ordine t’apre, a te con guardo bieco
Chiede vendetta, e colla man t’accenna
L’infame reggia, e l’infedel conforte.
     L’ombra disparve, e nuove a me davante
Muovono alate portentose forme,
Che scevre d’atto, e di sembianza umana,
Intrecciando fra lor rapidi voli,
Le vane membra di leggiera, e vota
Aura formate, e le tessute penne
Della lieve sostanza, onde colora
Iride il curvo rugiadoso grembo,
Scuotono a me con spessi giri intorno:
Come, quando impregnata de’ soavi
Freschi aliti de’ fior l’auta di Maggio
Col sol nascente muovesi, ed olezza,
Alle ceree pareti in nuvol folto
Volano intorno le ronzanti pecchie.
O fantastiche forme, e chi vi trasse
Da i cheti campi, che la pigra, e bruna
Onda di Lete bagna, e dagli oscuri
Muti regni del nulla, e del silenzio?
Voi, che del dì fuggendo il chiaro lume,
Sol vi destate allorchè il grave suono
Da lungi udite della rauca squilla,
Che sembra il giorno pianger, che si muore;
E che del nero bosco entro gli orrori,
Fra il tremulo chiaror d’incerta luna,

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Al villan pauroso vi mostrate,
Chi vi guidò fu queste amene sponde?
Ma dall’alata schiera ecco si spicca
Lucido spettro, che si slancia in alto,
E, le membra ingrossando in un momento,
Si fa gigante, il capo egli nasconde
Già fra le nubi, e il piè gli azzurri campi
Calca dell’oceano; ad un suo cenno,
Rotte le ferree, ed orride catene,
Dall’infernal caliginosa stanza
Escon fremendo il turbo, e la tempesta;
Di ferrugineo velo il sol si copre;
Fra l’ombre inusitate il dì s’asconde
D’intempestiva notte; e già dell’aria
Fra i tenebrosi campi in fiera lotta
Con fremiti confusi urtansi i venti.
Rapide strisce di sanguigna luce
Squarcian le nere nubi, e in mezzo al cupo
Romoreggiar della cadente, e spessa
Grandine ruinosa orrendo scoppia
Con fragor rotto, e ripercosso il tuono.
Sferzan dell’ocean l’onde sconvolte
Fischiando furibondi Africo e Noto,
E sul pendio d’una montagna acquosa
Collo sdruscito fianco, e le squarciate
Vele ondeggiar senza governo un legno,
E ruinar precipitoso al basso

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Nello spumante vortice rimiro
Al breve lume che lampeggia, e fere
Nella pallida faccia ai naviganti,
Che le tremanti braccia ergono al cielo.
Mugghia la selva, e in vorticosi giri
Dal turbine ruotati alto stridendo
Schiantansi i forti cerri, e si dibarba
La robusta di Giove arbore annosa,
Dall’imo suol traendo e sterpi e sassi
E polverosa nube; i rauchi gridi
Delle belve, il mugito de torrenti,
De’ venti il fischio, il fremito dell’onde,
De’ massi avvolti, e fracassati rami
Il rumor cupo, gli ululi, le strida
Forman confuso e misto suon, che fere
L’orecchie di spavento, e che rimbomba
Sul core orribilmente. Ma si placa
L’aereo spettro, la primiera forma
Riveste, e sopra il mar placido scuote
Le azzorre piume, e colla destra amica
Fuga le nubi, e rasserena il cielo:
Cadono l’onde allor, tacciono i venti,
E il liquido seren solo trascorre
Un zefiretto, che il ceruleo piano
Increspa leggiermente, e l’umid’ali
Fra le tremule frondi batte, e scherza
Con susurro soave, a cui risponde

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Con allegra armonia musico coro
Di lieti augei; che sciolto il procelloso
Nembo che gli disperse or si rallegra
Fra i verdi rami, e a riveder ritorna
L’alata famigliuola sbigottita.
     O qual mi s’offre al guardo ora ridente
Dilettoso terren! Fiorite sponde,
Apriche collinette, ombrose valli,
Verdeggianti pianure, ameni prati
Io veggo, e dove più e più s’intrica
Il solitario bosco, i folti rami
Curvansi insieme avviticchiati, e sopra
L’erbetta verde, e i fior di color mille
Formano arco frondoso, e verde tetto.
Sciolgono liete danze entro quest’ombre
Le scherzevoli Fate, e sotto il lieve
Aereo piè vedi piegarsi appena
Le molli cime della fresca erbetta.
Ovunque il coro amabile e festante
Saltellando s’aggira, il crin frondoso
Scoton le piante, e versano sul suolo
De’ più leggiadri fior pioggia odorosa.
Dal sacro orror di queste ombrose stanze
Pastorella gentil, cui punse amore,
Semplice villanel ch’ardi per lei
Torcete il piè, che di quei fiori in grembo
È un licor di segreto venen misto,

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” Che muta in odio l’amorosa cura.
Ma da si lieta stanza ah! chi mi tragge
All’armi, allo spavento, al pianto, al sangue?
Stan d’Albione i forsennati figli
In due squadre divisi, il bianco fiore
Questa dispiega, ed il purpureo quella;
La discordia fatale agita, e scuote
La sanguinosa face, e quinci, e quindi
Scorre, e con piede egual calca superba
Le regie teste, e le vulgari insieme
Confuse, ignote in fra la polve, e il sangue,
E neglette ugualmente: il suol Britanno
Già di sangue civil tepido fuma,
E la Severna è colorata in rosso,
Fra tanti orridi oggetti, o tu, che sei
L’orrore istesso, che i più fanti dritti
Di Natura calpesti, e che spezzando
D’amico, di fratel, di sposo i dolci
E teneri legami, al prezzo infame
Di cotanti delitti ami comprarti
Un detestato regno, e come mai,
Dimmi, può lusingare il regio scettro
Tinto del sangue de’ più cari? e tanto
Può la sete di regno? al trono ascendi,
E il real manto dalla man tessuto
Dell’Eumenidi vesti; il giusto colpo
Lungi non è; con ferrea mano il Fato

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Agita già l’urna ferale, e pronta
Sta per uscir per te sull’ali nere
Dalla nebbia d’Averno l’ora estrema.
Ti guarda già con sospettoso ciglio
La pallida Congiura, il ferro impugna,
E muove dietro a te taciti i passi.
Irta le chiome, spaventosa i lumi,
Impetuosa, e rapida trascorre
Urlando a te davanti, e ti disfida
L’ardita ribellion. Non odi il suono
Della tromba fatale, onde gli oppressi
Popoli desta alla vendetta? Trema
Tiranno, è questa la funerea voce
Che ti chiama a morir. Tu dormi? ah guarda
Co’ serpi in mano a te girare intorno
Le ultrici Furie; dall’infausta torre,
Tragica scena a i Re Britanni, uscire
Mira le invendicate Ombre, che, tinte
Di sangue, colla man ruotan d’Averno
La negra face: con sdegnosi lumi
Ti guardano, ed a te l’atroci colpe
Van rinfacciando! ascolta il rumoroso
Fremito di Bellona! aste con aste,
Scudi con scudi, elmi con elmi urtando
Suonano orribilmente. Il ferro alzato
Già ti fischia sul capo: i tuoi delitti
Rammenta, o crudo Re, dispera, e muori.

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In cotal guisa la feconda Madre
Delle divine imagini sublimi
Dell’umano Teatro i varj eventi
Che sull’Aonie tele un di ritrasse,
Quegli ch’ebbe a suo senno in man le chiavi
Della pietade, del terror, del dolce
E simpatico pianto a me facea
Scorrer rapidamente agli occhi avante.
Tal fra le pompe di notturna scena
Muovon le pinte imitatrici tele,
E su i lubrici solchi sdrucciolando,
Ognor cambiano aspetto; ora verdeggia
Antica selva, ove i spumanti flutti
Ondeggiavan del mare, or la dorata
Stanza regal si cangia in carcer nero.
Mentre cost la Dea con picciol cenno
Volgea ’l mio core in questa parte, e in quella,
Udir mi parve di percosse cetre
E di canore voci un misto suono.
Rividi allor la Tomba, in cui feria
Un’aurea luce, che indorava il volto
Al sublime Cantore, e ognor più viva
Crescendo entro del liquido sereno
Giorno a giorno pareva essere aggiunto.
Donde il raggio venia rivolsi il guardo,
E muover vidi ver la sacra Tomba
Lucido cocchio, che di gemme e d’oro

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Folgorando da lungi iva ruotando
Su’ cerchi luminosi d’adamante;
E nel girarsi le minute e spesse
Facce ineguali delle scabre ruote
Parean di bianca e tremolante luce
Da ogni lato gettar vive faville.
Quattro destrier vieppiù che fiamma rossi
Per l’aeree sentiero impazienti
Traggon l’aurea quadriga: il piè focoso
Stampa nell’aria fiammeggianti tracce;
Lucido solco le ferventi ruote
Si lascian dietro, come face suole
Versata in giro. In mezzo al cocchio affiso
Stavasi Apollo: il riconobbi al biondo
Intonso capo, alla diletta fronda
Che gli velava il crine, ed all’eburnea
Cetra che al divin collo era sospesa.
Sedeangli appresso, e gli facean corona
Le Vergini sorelle, e al carro intorno
Portati sulle piume della santa
Aura, che spira dal Castalio fonte,
Spiegavan l’ali i più sublimi Cigni,
Che sul Tamigi un dì sciolsero il canto.
Venerabile in volto, e la canuta
Chioma cinto d’alloro al cielo ergea
I ciechi lumi quei che sovra l’ali
Serafiche poggiò fino alle stelle,

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E l’arbore vietata, onde si colse
Dal primo genitor sì amaro frutto,
Coll’eroica cantò divina tromba.
Vedeasi accanto a lui della Tebana
Lira l’Erede, che spirar dal Gange
Al domator colla flessibil voce
Di Timoteo potè sì varj affetti.
E quei, che il furto della chioma bionda
Seppe cantare in sì soavi tempre.
Seguia colui, che il sanguinoso scempio
De’ figli di Parnaso alto piangendo
Contro il tiranno del canuto Vate
Di fulminante armò suono di morte
La profetica voce. Audace ingegno,
Che della gloria al faticoso monte
Due corsieri guidò fuoco spiranti
Dalle fervide nari, il collo cinti
Della fiamma, onde il folgor si disserra,
Che muovon strepitosi, e da lontano
Romoreggianti passi. Appresso folta
Schiera di lieti spirti iva cantando
Inni di lode al cenere sacrato.
Venia fra questi ancor, calzato il piede
Del tragico coturno, Ombra novella
L’Inglese Roscio, che, qual suol la molle
Cera docil vestir le varie forme
Sculte ne’ solchi della dura selce,

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Tal sopra il palco i portamenti, il volto
Atteggiando, ora al duolo, ora al terrore,
Ora alla gioja, ed ai ridenti scherzi
Seppe volgere i cori ove a lui piacque,
E a cui fin dagli Elisi con soave
Fremito di piacer spesso fer plauso
Quei, che per lui tornavano i felici
Raggi a mirar del dì, spiriti ignudi.
     Fermossi avanti all’onorata Tomba
Il cocchio, e tosto dal marmoreo seggio
Messe il canoro Spirto, e al Nume augusto
Padre de’ carmi riverente in atto
Piegò la fronte. Il biondo Dio si volse
Tosto ver lui col lume d’un sorriso,
E l’invitò del deiforme carro
Allo splendido seggio. Allor l’alata
Fantasia stese a lui la destra amica,
Ed a salire alla gemmata fede
Gli porse aita. O tu fra’ miei più cari,
Stringendoselo al seno, Apollo disse,
O ben amato Figlio, in questo giorno
Sacro al tuo dì natale, e in Pindo sempre
Licto e sempre onorato, il sai, son uso
Visitar la tua Tomba, e de’ più scelti
Fior di Permesso a te recare in dono
Non caduche ghirlande. O quale, o Figlio,
Splendido dono oggi ti reco! dono

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Onde i tuoi carmi, onde il femineo Sesso,
Onde la Patria tua sarà più bella
Di gloriosa luce, e qui distesa
La man divina d’appellare in atto;
Vieni soggiunse, illustre Donna, onore
Del debol Sesso, invidia del più forte,
E lo scritto immortal, per cui superbo
Sen va il Tamigi, al tuo diletto Vate
Offri in tributo, Allor muovere io vidi
Venerabile in vista eccelsa Donna;
L’aria del volto, il portamento, e gli atti
Spiravan maestà, senno, dolcezza;
E quell’aura divina che la parte
Miglior di noi suole animar, ch’è madre
Dell’arti belle, trasparìa nel volto:
Aureo volume in man tenea, che in atto
Modesto e riverente, alla grand’Ombra
Offrì col capo, e col ginocchio chino.
     Questa, Febo riprese, i più ridenti
Fior di Elicona intrecciar seppe a quella,
Che sul Portico un dì d’Atene ai dotti
Figli velò la venerabil fronte
Pacifica, e al Saper sacrata fronda;
E di Filosofia l’inculto, e rozzo
Manto adornò de’ più galanti fregi,
Mentre le Grazie la maestra mano
Le guidavano a gara; ella di Pindo

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Ne’ prati errando, il più bel fior ne colse
Sotto la scorta del severo Vecchio,
Che Stagira onorò: di quel, che posta
Lalage in bando al fin, si fe’ maestro
Della sacra del Ciel dolce favella;
E di quel grande ancor, che di Palmira
Alla Reina sventurata seppe
Più sventurato Precettor le belle
Arti insegnare, e sopra l’arse arene
Della deserta Arabia in tuon sublime
Pensier spiegò degni d’Atene, e Roma,
Questa gran Donna i più secreti, e veri
Fonti, onde sorge il bello, onde i colori
S’attingon per ritrar della natura
Il vario, il grande, il maestoso aspetto
Rintracciò diligente, e fatto poi
Di tai lumi tesoro a te si volse
Felice spirto, e i tuoi sublimi carmi
Ornò così, che parvero più belli:
Come più vago appar drappo, qualora
Serpeggianti v’intesse aurate liste
L’amabile Licori, e al facil moto
Della vezzosa man l’obbediente
Ago pingendo va la rubiconda
Fragoletta nascente, o intreccia i verdi
Serici rami coll’argentee foglie.
Con scudo di settemplice adamante,

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Che ragione apprestò te pur difese
Dal pallido livor, che tenta invano
Col dente sparso di viperea spuma
Morder le tue grand’opre, e indarno grida
Con importuna voce, che dell’arte
Non conoscendo tu nè fren, nè legge,
Ove il folle capriccio, ove il bizzarro
Immaginar ti trasse, impetuoso
Con passo incerto, e irregolar corresti.
Miseri umani ingegni, ove vi guida
„ L’error de’ ciechi, che si fanno duci!
Questi fu grande appunto, perchè il freno
Servil dell’arte non legò giammai
A lui le infaticabili, e ritrose
Impazienti penne, Arte infelice
Quando a Natura contrastare ardisce,
E imprigionarla tenta, e farla serva!
Guarda, che possa l’arte, e che Natura,
Mira di bianche mura intorno cinto
Quell’augusto giardin, che in dritte file,
Che la squadra guidò, tagliano eguali
Le strade erbose; ogni arbore, che sorge
Da un lato, ha pur dall’altro il suo compagno
Che a lui risponde: è nel suo centro angusta
Marmorea conca u’ guizzan pesci aurati,
E d’onde con sottil breve zampillo
Spiccia l’onda costretta; in pinti vasi

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Distanti a spazio egual tenere piante,
Che temon l’aer freddo, e che mal ponno
A ricercare i nutritivi umori
Stendere nella scarsa arida zolla
L’assetate radici, ergono appena
Gli estenuati rami, altre recise
Dalla tagliente Forsice, ed in globo
Or ritondate, or aguzzate in alta
Piramide, mostrar vedi la chioma
E sfrondata, ed abietta. Opra è dell’arte
L’ordin, la simmetria, che qui rimiri,
Ella a natura d’obbedire impose;
La natura obbedì; ma vedi, come
Guaste son l’opre sue! vedi le foglie
Impallidite, scoloriti i fiori,
E le languide piante l’odiate
Mura, che all’aer grave, e vaporoso
Niegano il corso libero, non pare
Che abborrano, e la man male officiosa,
Che in terreno non suo qua trasportolle?
Volgiti adesso al monte, e di Natura
L’opre contempla. Vedi l’erta cima,
Che tra le nubi perdesi! Torreggiano
Spaventosi dirupi, informi massi,
Che arruotati dagli anni, ruinosi
Pendono, e all’occhio pingono un sublime
Spettacol rozzamente maestoso.

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Sulle sassose spalle ergersi mira
Annoso bosco, che tant’aria ingombra,
Sorgono da più lati a lui d’intorno,
E scendon degradando inverso il piano
Apriche collinette, ove i virgulti,
E le spinose siepi, e i cespi, e i fiori
Ha la Natura in bel disordin sparsi.
Guarda che vivo verde, amena veste
Del giovin anno, in cui spazia tranquille
L’occhio, e il pensiero, e con piacer si posa
Vedi cader dalle pietrose balze
Curve, e pendenti l’onde cristalline,
Che fere il solar raggio, e varj, e vaghi
Colori pinge nello spruzzo acquoso,
E le cime indorando ti discopre
L’antica torre, il pastorale albergo;
Mentre fra l’ombre, e gl’intricati rami
Intravedi gli armenti, ed i pastori,
Or mostrarsi, or sparir: del monte al piede
Limpido lago in spazio ampio si stende.
Dolce è mirar sopra l’ondoso piano
Pingersi il bosco, e la squarciata rupe,
E allo spirar dell’aura insiem confusi
Gli animali ondeggiar, le piante, i sassi.
     In rozze sì, ma ricche, e maestose
Spoglie dispiega la sublime faccia,
E le maschie bellezze, e il vero e il grande

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Spettacol, che sorprende, e occupa i sensi
La natura anche incolta, e si trionfa
Dell’arte, che imitarla invan si sforza,
E indarno il debol suo vigor con vani
Ingegnosi ornamenti, e lo studiato
Ordine, e simmetria nasconder tenta.
     Dunque invan contra te, Spirto felice,
Il maligno furor de’ bassi ingegni
Latrando va, che a te sicura, e salda
La gran donna approntò nobil difesa;
Nè di ciò paga, i tuoi nativi pregi,
Che disadorni, e in semplice talora
Amabile rozzezza involti, e i fiori
Aonii fior dal troppo vigoroso
Lussureggiar de’ rami, e delle foglie
Sovente ascosi, ai dolci rai del giorno
Trasse, e alle corte viste ancor l’espose:
Onde l’incerto curioso sguardo
Erra maravigliando a te d’intorno,
E se riprende, e se di tardo accusa,
Che sotto man sì esperta egli rimira
Crescere ognor, moltiplicarsi, e nuove
Bellezze aprirsi a lui finora ignote.
Così talor se bruna forosetta,
Bella de’ pregi ignudi di Natura,
Ad abitar nella città sen viene,
Esperta mano a lei torce l’incolta

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Indocil chioma in non usate anella:
Del grosso panno, e ruvido la spoglia,
Ed in lucida seta i membri avvolge;
Si fa gentile il portamento, il fianco
Rilevato, tondeggiano le braccia,
Drizzasi il curvo tergo, il sottil collo
Par, che s’inalzi; e intanto il rigoglioso
Turgido seno imprime entro il cedente
Drappo al cupido sguardo orma soave:
E sotto il nuovo culto, e l’occhio nero,
Ed i candidi denti, e la nativa
Porpora delle guance, che la pesca
Tinta dal Sole estivo emula e vinte
Si rabbellisce e nuove grazie acquista,
     Febo si tacque, e il dotto aureo volume
Porse alla Dea, che colla chiara tromba
„ L’uomo trae dal sepolcro, e in vita il serba.
Ella battendo le sonore penne,
Dell’immortalità recollo al Tempio;
E Apollo intanto dell’eterno alloro,
Che ombreggia il sacro marmo, un ramo svelse,
E all’onorate tempia intorno intorno
Della gran Donna di sua man l’avvolse,
Fra l’armonia dell’agitate corde,
Fra i lieti applausi, ed i festosi viva
Montagù tosto risuonar s’udio:
Montagù replicaro i sacri spechi,

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Di Pindo i colli, e le vocali selve.
     Intanto il dì risorto, il mattutino
Canto di Progne, che alla mia finestra
Importuna garrisce, e che m’invita
Il Sol nascente a salutar, le grida
Del cacciator, che i veltri anima, e spinge,
Del robusto arator le alpestri note,
Feriro i sensi miei sì, ch’io mi scossi;
E come suol per acqua cupa un grave
Corpo affondarsi, e disparir, la bella
Vision da’ miei sguardi allor svanio.