La Vita ai Tempi Eroici di Persia/La Vita ai Tempi Eroici di Persia

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LA VITA AI TEMPI EROICI DI PERSIA.1


Si può dire, senza tema di trovar contradditori, che una delle più care occupazioni di ogni mente eletta che ai nostri giorni si consacra agli studi, si è quella delle ricerche storiche. Anche i nobili studi che s’intraprendono ansiosamente e con tanta pertinacia da giovani ingegni, si vogliono ora condotti con metodo storico, e più fortunato è colui che dopo accurate e minute ricerche può recare innanzi più abbondante messe di fatti. Egli è perciò che da ogni parte si ricercano i documenti delle età passate, se ne fa rivivere la memoria più lontana, si vanno decifrando i monumenti che ne rimangono, e di tutto si fa tesoro, pur di illustrar la vita di intere genti troppo da noi lontane di luogo e di tempo. Ma non di tutte le età ci rimangono monumenti chiari e certi. Molte volte, specialmente per le età più antiche e per quelle che diconsi preistoriche, la ricerca dei fatti procede incerta e lenta, e talvolta è ben necessario che l’acuto e indefesso ricercatore trovi o il fatto o la traccia di esso nel mito e nella leggenda perchè certi usi e costumi e riti tramandati di età in età ci facciano vedere inaspettatamente l’intera vita di remotissime generazioni. Così anche vi furono tempi, là sui primordi della civiltà, tempi ancora della forza, di cui non ci è pervenuto nessun documento storico nel senso più rigoroso di questa parola, ma di cui, in compenso, parlano col loro linguaggio immaginoso i canti ispirali di tanti poeti, intesi a narrare meravigliose imprese e fatti straordinari di Dei e di eroi. In questi canti si deve certamente dar molta parte alla immaginazione fervida e ardente del poeta, ma non è men vero però che vi si trova ancor viva e parlante l’immagine di antichissime età di cui null’altro ci resta; e se il più delle volte, anzi quasi sempre, l’esattezza e la precisione quali lo storico rigoroso domanda, fanno difetto, vi si trova in compenso evidenza tale di rappresentazione da potersi dire di tutti quei poeti quello stesso che fu detto di Omero, che essi cioè furono i primi pittori delle memorie antiche. Essi [p. 2 modifica]infatti ci trasportano veramente in quelle età che descrivono con tanta maestria e in esse ci fanno vivere, e chi legge quei loro canti, sente che ne spira un aura vitale che l’invade e l’accende, mentre bene spesso le ricerche aride e minute di uno storico lasciano freddo il cuore e l’animo, come avviene a chi si aggira per le vaste e fredde e silenziose sale di un museo di antichità laddove tutto tace ed è immobile, perchè tutto è morto.

Quello però su cui può cader dubbio nei canti epici, è sempre il fatto narrato, poiché in tutto quell’insieme di leggende eroiche che ci hanno tramandate le antiche età, anche se molta parte può esser vera, vi si è però aggiunta tanta parte di meraviglioso e d’inverisimile e di soprannaturale, da non esser facile il discernere quella da questa anche con approssimativa precisione. Così potrà ben riguardarsi come in gran parte vera la guerra di Troia, e vero si potrà ritenere il fatto della strage dei re Borgognoni narrato nel poema dei Nibelungen, ma con quante restrizioni e dentro a quali limiti possa essere accettata la verità di questi fatti, è ben facile a intendersi da chi solo per un poco vi pensi. Levando tutto quell’intervento di Dei, tutta quella parte di mitico che adorna e fa risplendenti le figure degli eroi, levando ancor tutto ciò che l’esuberante fantasia di mille rapsodi vi può avere aggiunto in tante generazioni, in verità che ci resta beh poco di vero e di solido su cui potere insistere e fermarci.

Ma quello di cui non si può dubitare in alcuna maniera, prescindendo sempre da alcune casuali e accessorie aggiunte o mutazioni, è tutta quella parte che riguarda i riti e i costumi degli eroi, ciò ch’essi fanno in pubblico e in privato, in guerra e in pace, nei campi di battaglia e accanto al focolare domestico, nell’assemblea degli eroi, alla presenza del loro principe e signore. Tutti questi costumi che per una inclinazione speciale a tutte quante le epopee d’India, di Persia, di Grecia e di paesi teutonici, sono sempre minutamente descritti, sono anche un prezioso monumento, autentico, dico, e indubitabile, di quelle remote età, un ricordo genuino, un documento che io non dubito chiamare veramente storico. Anche infatti, ammettendo, come è vero, che in molti punti il poeta si sia lasciato andare alla fantasia descrivendo i costumi de’ suoi eroi, pur tuttavia la maggior parte di quei costumi primitivi, innocenti e ingenui, ferini talvolta ed egoistici, dev’esser vera. E quell’arte alata, come dice Pindaro, del poeta che li descrive, bellamente e tacitamente, senza violenza alcuna, ci fa rivivere dinanzi quelle scene di una vita tanto lontana dalla nostra, e però tanto differente e ricca [p. 3 modifica]d’interesse per noi. Nè credo che vi sia alcuno, sull’animo del quale non abbia fatta una profonda impressione, anche come cosa storica e tale che dovette essere veramente così, quell’omerica descrizione dei costumi semplici e innocenti dei Feaci, e quella scena del divino Eumeo, pastore di sì strana greggia, e quella dei Proci raccolti intorno alla casta Penelope e la caccia di Ulisse sul monte Parnaso allorquando Autolico gli guarì con incanti la ferita del cinghiale. Per questa parte dei costumi, l’Odissea di Omero assai più vale dell’Iliade, e più d’assai essa è preziosa per chi studia i costumi di famiglia dell’età eroica dei Greci, e per questa parte ogni libro che ci introduce nella vita intima di genti antiche e remote, non fa che svolgerci dinanzi agli occhi una bella pagina di storia che in altri libri d’altra natura è tralasciata e va sottintesa.

Ritenendo adunque per vero che i canti epici sono il documento più genuino che ci faccia testimonianza della vita pubblica e famigliare dei tempi eroici, ognun vede quanto ampio e vasto veramente sia il campo che si apre allo studioso. I poemi omerici, e più specialmente l’Odissea, come or ora si diceva, sono una meravigliosa pittura dei costumi greci al nono e decimo secolo avanti l’Era volgare, e i due poemi eroici dell’India, con evidenza mirabile e primitiva, ci fanno rivivere dinanzi agli occhi quel grande spettacolo affaccendato e irrequieto di eroi e di penitenti, di Dei e di Ninfe celesti, di amori e di battaglie, di nascite e di funerali. Più scarse veramente saranno le notizie che ci potranno fornire l’Edda e i Nibelungen intorno alla vita germanica dei tempi eroici, ma i cenni rapidi e fuggitivi che ne fa l’Edda, sono bastanti per gettare una vivida luce sulla vita de’ suoi inflessibili eroi, mentre nei Nibelungen, sotto la veste cristiana che l’antica leggenda epica vi ha assunto, non è difficile tuttavia trovar le tracce chiare e patenti ancora dell’antico e primitivo costume. Singolarissimo poi sovra tutti è il Kalevala dei Finni e come tale anche importantissimo, poichè nessun altro poema come quello dipinse con tanta ricchezza di particolari la vita de’ suoi eroi, forse anche per la singolare circostanza che grandissima parte dell’azione di esso si svolge tra le pareti domestiche. Ma, quantunque così vasto sia il campo e così abbondante se ne possa prevedere le messe, noi non potremo nè percorrerlo tutto nè raccogliere tutto quanto esso ci può offrire; e se ora abbiano ricordate le più insigni epopee che ci abbia tramandato e l’Oriente e l’Occidente e non abbiam tuttavia ricordata la persiana non inferiore a nessun’altra nel valore e nell’importanza e quanto ad [p. 4 modifica]ampiezza la più grande certamente che si conosca, diremo che non a caso abbiam fatto ciò. Abbiam fatto ciò solo perchè di essa appunto ci vogliamo ora occupare, nè ce ne occupiamo soltanto perchè essa è l’oggetto da lungo tempo per noi di studi particolari, ma anche perchè, a parte i poemi omerici, essa è quell’epopea che più di tutte crediamo possa servire al nostro scopo. La vita, infatti, dell’eroe indiano è troppo involta in quell’aura sacerdotale che è il genuino segno di tutto ciò che ci viene dall’India antica, e l’eroe dell’Edda risente troppo del mitico e perciò dell’incerto e del nebuloso, o ha costumi troppo ferini e sanguinari per poter esser messo avanti come il vero modello dell’eroe, e l’eroe del Kalevala è troppo casalingo e troppo schiavo delle sue arti magiche ch’egli mette in opera ad ogni momento, per essere chiamato un vero e bello eroe, e l’eroe greco è litigioso, e per essere litigioso perde di vista il vero fine per cui egli cinge le armi, come quando Achille e Agamennone per poco non si accapigliano nel consesso dei Greci e per poco non mandano a male tutta quanta l’impresa di Troia. L’eroe, invece, dell’epopea persiana, quale abbraccia un periodo di storia leggendaria di circa duemil’anni, sa sacrificare sè stesso e sa far tacere l’amor proprio per la causa comune, come quando Zâl, Hustem e Tûs in diverse occasioni, seppero rinunziare al regno al quale erano stati chiamati, per dar luogo all’eletto del cielo a seder sul trono del re dei re; l’eroe dell’epopea persiana combatte con le armi e col valore e non con la magia, sa colpire e spegnere l’avversario, ma sa anche perdonare e non ama le carneficine degli eroi dell’Edda e dei Nibelungen, sa esser devoto a Dio, senza essere investito di un’aura sacerdotale come gli eroi dell’India e sa domare e signoreggiare le forze repugnanti della natura senza esserne egli stesso alla sua volta signoreggiato, come piccola parte assorbita nel gran moto della vita universale.

Ci sia adunque permesso di tratteggiar qui brevemente la vita degli eroi di Persia e mostrarla qual’è, quale dovette essere anche con tutto ciò che vi potè aggiungere la fantasia dei poeti. Che se, anche per brevi cenni, potremo noi farci un’idea lontana di quello che veramente era cotesta vita, oltre al valore storico di ciò che troveremo, e ciò si dica nel senso che di sopra abbiamo dichiarato, avremo anche il non lieve vantaggio di aver come vissuto per alcun tempo in quelle età primitive e poetiche tanto differenti da questa nostra, molto prosaica in verità.

Ma, per le nostre ricerche, non abbiamo che una fonte sola a cui attingere, e questa sì è la grande raccolta di leggende epiche [p. 5 modifica]persiane che va sotto il nome di Libro dei Re, quali Firdusi, nel mille dell’Era Volgare, vestì di una splendida e immortal veste poetica. Che se la fonte è una sola, essa è copiosa e ricca in verità, tanto da dover esser difficile la scelta fra tante notizie egualmente importanti. Grande poi e patriottico è lo spirito che anima tutta quell’opera immortale, ed è chiara ed evidente la compiacenza del gran poeta allorquando col magico suo canto egli c’introduce in quella meravigliosa reggia del re dei re, di quel potente signore che governava tutte le genti che dall’Indo si stendono all’Eufrate, dall’Osso all’Egitto e all’Etiopia e dall’alto del trono amministrava la sua giustizia. Si cerchi adunque che ci sa dire dell’età de’ suoi eroi questo poeta, e vediamo come egli ne descriva la vita, dalla nascita alla morte, e ne segua passo passo le opere luminose e nella pace e nella guerra.

La nascita di un figlio in una famiglia di eroi era il più grande avvenimento che essa potesse desiderare. Prima ancora della sua nascita, il capo della famiglia ne attendeva ansiosamente il giorno fortunato, e appena che l’infante era venuto alla luce del mondo, correvano a lui le donne della casa a dargliene l’annunzio benauguroso. Le nutrici intanto e le ancelle, fasciato il pargoletto e postolo sopra un guanciale, lo presentavano alla madre con liete voci, mentre entrava da lei il padre fortunato per riconoscer la sua novella prole. E in prima egli lo sollevava tra le sue braccia e lo baciava e rendeva grazie a Dio, se il pargoletto era bello e fiorente e recava con sè manifesti i segni dell’inclita stirpe a cui egli apparteneva. Ma se il fanciullo mostrava qualche difetto e recava qualche infausto segno, il padre poteva ripudiarlo siccome non genuino figlio e non riconoscerlo. Così quando a Sàm, principe del Nimrûz, nacque un figlio che aveva i capelli bianchi, egli sospettò che quel segno infausto fosse un segno di Ahrimane, del genio cioè che è autore d’ogni male, e però lo fece esporre sul monte Alburz perchè le fiere lo divorassero. Egli però fu nutrito miracolosamente da un favoloso augello che abitava su quelle montagne e che poi lo restituì al padre, fatto già grande. Ma quando l’infante non recava alcun segno sospettoso, il padre, come già si diceva, s’affrettava a riconoscere la prole sospirata per la quale aveva fatto tanti voti a Dio, e tosto l’affidava alle nutrici perchè l’allevassero con cura ed amore. Narrasi che per Rustem, che fu poi il più grande eroe dell’epica persiana, occorressero dieci nutrici per sostentarlo del loro latte e che egli però non era mai sazio; ma quello fu caso straordinario ed eccezionale. Se non chè il fausto avvenimento doveva essere [p. 6 modifica]notificato anche ai lontani, e per tal fine si usavano maniere straordinarie e nuove, ben differenti in verità da quelle che da poco sono invalse fra i moderni. Si chiamavano artefici da tutte le parti, ed essi fabbricavano in tutta fretta un fantoccino, pieno di pelo di zibellino e di martora, tutto somigliante al bambino nato allora allora, ne dipingevano le guance e lo vestivano di seta e di raso, e poi, come segno del suo futuro e immancabile valore, gli si sospendeva al fianco una spada, gli si poneva una clava tra le mani e un elmo in fronte. Posta sopra un cavallo, non è ben detto se vero o di legno, la gioconda immagine era spedita ai parenti lontani, i quali, nel vederla strabiliavano di meraviglia, e giuravano che quella immagine era proprio somigliante al padre del bambino, e che perciò il bambino doveva somigliare a lui. Il fortunato portatore di essa riceveva poi un ampio dono di monete che lo facevano d’un tratto ricco e beato. Altra volta, invece, si usava un modo più semplice, ma non meno grazioso. Dalla madre o dal padre si scriveva una lettera (e si noti l’anacronismo del porre la scrittura a quei tempi) con cui si annunziava ai lontani congiunti quella nascita, e perchè essi pure avessero un visibile segno del nuovo parente, gli tingevano di zafferano la manina, l’applicavano poi bellamente sul foglio, in modo da lasciarvi l’impronta, perchè i lontani la vedessero e l’ammirassero.

Nè aveva minore importanza l’imposizione del nome. Cercavasi sopra tutto che il nome fosse di lieto e fausto augurio e più ancora si voleva che esso corrispondesse a certe qualità di animo e di corpo. Qualche rara volta era la stessa madre che imponeva il nome, come appunto fece Rûdàbeh, la fortunata madre del più grande eroe di Persia. Quando, dopo l’infinita doglia del parto, dopo che rinvenne da un lungo svenimento, ella potè vedere il suo infante che le ancelle le presentavano sopra un guanciale e che pareva, secondo la viva espressione del poeta, un cumulo di fresche rose, allora ella disse con flebile voce: Oh! rustem! - Rustem, in persiano, significa: Io sono libera da ogni travaglio, e Rustem fu il nome che fu imposto all’infante e che lo rese celebre per la sua terra. Ma, nei casi più comuni, il padre soleva attendere che il tempo o qualche occasione improvvisa disvelasse il carattere e l’ingegno del figlio suo per trovargli poi un nome che vi avesse qualche attinenza. Raccontasi pertanto che il re Frêdûn aveva tre figli ai quali egli non volle imporre alcun nome prima che l’indole di ciascuno non gli fosse chiaramente svelata e che però dovette attendere fino al tempo che essi, giunti a pubertà, già si cercavano una sposa. Andati essi da Serv re del Yemen in Arabia, essi ne sposarono le tre leggiadre [p. 7 modifica]figlie e nel ritornare con le novelle spose essi trovarono sulla via un orribile serpente. Il primo dei garzoni fuggì, il secondo apprestò l’arco, ma non trasse, e il terzo s’avanzò imperterrito e coraggioso e il serpe disparve. Quel serpe era il padre stesso dei giovinetti, così trasformato per forza d’incanti. Il nobile signore, ripresa la sua forma primitiva, accoglieva allora i figli suoi nella reggia e imponeva loro tre nomi: Salm, Tûr ed Erag’, per denotare la viltà del primo, l’inconsideratezza del secondo e l’egregio valore del terzo. Ciò fatto, egli divise fra loro il regno che allora comprendeva tutta quanta la terra.

Ma quando il fanciullo non aveva più bisogno delle cure della nutrice, si pensava alla sua educazione, e si cercava perciò di mandarlo al castello di qualche gran principe o eroe, chiaro per guerresche imprese, acciocchè egli vi ricevesse educazione conveniente al suo grado e alla sua nascita. Così anche praticavasi da noi nel Medio Evo, allorquando il giovinetto era mandato come paggio al castello di un possente barone che gl’insegnava con l’esempio ad essere valoroso e grande, mentre le dame gentili lo venivano istruendo negli atti cortesi e nelle cose di religione. Ma, in Persia, all’età degli eroi, era soltanto un vecchio e nobile guerriero quegli che riceveva nel suo letto ospitale il giovinetto egli veniva poi apprendendo ogni bella cosa a sapersi. Il vecchio Rustem, quando ricevette nel suo castello del Nimruz il giovane Siyàvish figlio del re Kàvus, gl’insegnò a vestir corazza e a cinger spada, a trattar la clava ed a scagliar il laccio, a guidar carri e a domar focosi destrieri, a tender l’arco e ad avventar frecce pennute, a sedere a banchetto e a dare udienza sedendo in trono; gl’insegnò il come e il perchè, dice il poeta, delle cose di quaggiù e gli mostrò in qual maniera devesi adorare Iddio. Lo stesso Rustem fu educato dal padre suo Zàl in un giardino, e le lezioni erano accompagnate da copiose libazioni di vino al modo stesso degli eroi di Omero. Accadeva talvolta che qualche figlio di re, per tristo voler di qualcuno, era mandato in luoghi lontani e alpestri, fra pastori e montanari, perchè ignorasse l’alta sua nascita e ricevesse una vile educazione. Ma la nobile natura si rivelava ben tosto in lui, e re Khusrev quand’era educato fra i pastori del monte Kalv, si fabbricava una spada di legno e un arco e frecce e assumeva costume di comando, mentre i suoi compagni e i più vecchi pastori stavano ad osservarlo meravigliati e senza intendere ciò che egli si facesse.

Finita l’educazione, il giovinetto, fatto ormai perfetto nei modi gentili, era condotto e presentato alla corte, laddove il re dei re [p. 8 modifica]benignamente se lo faceva venir dinanzi al trono, lo colmava di lodi e di benedizioni e chiamavane fortunato il padre. Ma perchè, anche nella presenza reale, doveva quegli dar chiara prova del valor suo, così discendeva il re, seguito da tutti i suoi principi, nella palestra, e là il giovinetto lanciava globi con la mazza, scagliava dardi al bersaglio, mentre cavalcava un focoso destriero. Finite le prove, il re imbandiva solenne convito e licenziava poi il nobile garzone e il padre suo, ambedue colmi di ricchissimi doni. Che se invece era un figlio di re che ritornava dal castello di qualche eroe, terminata la sua educazione, il suo ritorno alla paterna reggia si faceva con tutta pompa e solennità. Lo stesso eroe che l’aveva educato, ora lo ritornava alla sua casa, ma prima di accomiatarlo soleva dargli ogni cosa più preziosa che trovavasi nella sua casa, e per compiere e far più grande quel dono, soleva bene spesso far una scorreria nei paesi vicini e procurar con la rapina ciò ch’egli non poteva dare del suo. Così almeno fece Rustem allorquando restituì a re Kàvus il giovane Siyàvish che egli aveva educato con lungo studio e cura. Radunavasi intanto un’ampia comitiva di principi e di guerrieri con palafreni, con cammelli ed elefanti, con tutta la sequenza dei ricchissimi doni, indi, al suono di trombe e di timballi, di crotali d’india e di sonagli, si lasciava il castello. Tutta la via era ingombra di fiori e di fragranze, secondo l’espressione del poeta, e tappeti erano appesi dovunque, mentre la gente si accalcava acclamando sul passaggio. Venutone l’annunzio alla reggia, si spedivano in tutta fretta principi e guerrieri, sacerdoti e savi, incontro alla nobile comitiva, la quale, appena giunta al luogo, veniva ricevuta da strepiti di fanfare, da fragor di timballi, da liete voci, in mezzo ad un agitar di turiboli, ad uno spargere di monete e di gemme dall’alto dei terrazzi e tra la folla, sotto a una strana pioggia di muschio e di zafferano, e talvolta anche di vino e di zucchero. Il nobile giovinetto accompagnato dal suo educatore si avanzava direttamente fino al trono del padre che l’attendeva con la corona in capo, circondato da’suoi grandi e in tutta la pompa e maestà di re dei re, e là egli si prostrava riverente fino al suolo. Ma il padre si levava dal trono ed era sollecito a sollevare quel figlio suo, baciavalo negli occhi e nella fronte, e piangendo commosso nella piena dell’affetto suo, vedendolo bello e aitante della persona e gentile nei modi, se lo faceva seder d’accanto sul trono e poi, levando gli occhi e le palme al cielo, ringraziava Iddio benefattore per tanta grazia. I principi e i sacerdoti e tutta la corte assistevano commossi e plaudenti. Allora, a un cenno del re, s’imbandivano le [p. 9 modifica]mense e il convito durava solitamente per sette giorni, finchè poi l’educatore del giovane principe ritornava al suo castello colmo di doni reali e al giovinetto si dava il governo di qualche provincia, con quasi regia potestà, con tutte le insegne reali, eccettuati però la corona e il trono. Senonchè, preparandosi ormai il giovane eroe alla sua carriera militare, egli doveva tosto provvedersi d’armi e di destriero. Il padre allora soleva aprir le porte de’ suoi tesori e trarne elmi dorati fabbricati in terra di Grecia, corazze e maglie di finissimo lavoro, schinieri e scudi del Ghilan, spade temprate in India, archi e frecce di Shuster, lancie e pugnali e clave nodose, per farne un nobile presente al figlio suo. Talvolta queste armi si tramandavano di padre in figlio, come lo scettro di Agamennone o l’armi di Egeo che Teseo ereditò, secondo la leggenda greca; e sappiamo che Siyavish portava in guerra quella lancia che già trattava il padre suo Kavus nella guerra contro il Màzenderàn, che Rustem ereditò la clava dal capo di giovenca, effigiato in fulgido metallo, che già apparteneva all’avo suo Sam, temuto sterminatore di demoni, di mostri e di nemici. Ma la cerimonia del procurarsi un palafreno era cosa ben nuova e diversa. Venuto il fausto giorno, per ordine del padre o della madre i guardiani delle mandre dei cavalli, disperse a pascolare per monti e piani, raccoglievano in un luogo assegnato tutti i più giovani e focosi puledri. Scendeva in quel piano il novello cavaliere e si faceva passar dinanzi ad uno ad uno i cavalli per scegliersi il proprio destriero, il futuro compagno delle sue glorie ambite e delle sue imprese designate, e per provarne la forza e il vigore soleva prenderlo avventando un laccio e tirarlo a sè con forza. Gli poneva allora la mano sul collo e premeva fortemente, e se il nobile animale sosteneva il poderoso colpo di mano, il giovane eroe gli poneva la sella e con un salto leggero gli balzava sul dorso. Dice la leggenda, esagerando la forza e il vigore de’ suoi eroi, che alcuni d’essi fiaccarono così la cervice a molti palafreni prima di poter rinvenire quello che poteva sostenerli; così fecero e Rustem e Sohrab. Ma quando ogni prova pareva inutile e il giovane cavaliere non poteva trovar cavalcatura degna di lui, il guardiano delle mandre gli veniva dicendo bellamente e con tutt’arte che egli aveva con sè un nobile puledro, ma che però nessuno aveva potuto imporgli e freno e sella, tanto egli era fiero e selvaggio. S’intende che il cavaliere se ne invogliava rapidamente e seguito dal mandriano si aggirava per i pascoli fino ad incontrarsi con l’indomito puledro. Così, almeno, fece Rustem, il quale dinanzi al suo futuro destriero, selvaggio ancora e ancora [p. 10 modifica]non separato dalla madre sua, non si smarrì d’animo, ma con un colpo di mano allontanò e rovesciò la madre che voleva difendere il figlio, prese alla cervice il riottoso puledro e gli balzò rapidamente sul dorso. Quel destriero era tutto agile e snello, vagamente pomellato, ed ebbe da Rustem il nome di Rakhsh che significa splendente. La leggenda persiana non ha esempi veramente di quell’intima e arcana amicizia che lega il cavaliere al suo cavallo, come si trova nelle leggende arabe; pure sappiamo che Rustem e il suo Rakhsh nei campi di battaglia, nei boschi solitari, nei lunghi viaggi, s’intendevano fra loro a meraviglia e che Rustem parlava al suo destriero, come Achille a’ suoi sotto le mura di Troia; e Bihzàd, il fedel palafreno di Siyàvish, prima che il suo nobile e infelice signore morisse, ebbe il comando da lui di non lasciarsi cavalcare che dal figlio suo Khusrev, e Bihzàd intese e mantenne la parola. I cavalli degli eroi persiani piangono il fato dei loro padroni, come quelli d’Achille secondo Omero, e quelli di Ràma, secondo i poemi indiani, piangevano di quel pianto che Plinio ha cercato di descriverci e di spiegarci con poetica evidenza. Grande poi era la cura che se ne aveva; e i famigli di Rustem solevano ardere tutte le notti, sopra la porta della stalla di Rakhsh, un’erba creduta portentosa, della ruta montana, per allontanarne ogni opera di malefizio e di stregoneria.

Ma, dopo la scelta delle armi e del destriero, uno dei momenti più importanti della vita di un nobile giovinetto si era quello della scelta della sposa. Molte volte erano i genitori stessi che si occupavano di questa faccenda, e ai giovinetti, in tal caso, altro non restava che di obbedire alla loro superiore volontà, e l’obbedirvi era tenuto come pregio e virtù ed atto solenne di deferenza verso gli autori della propria vita. Intanto i genitori si davano ogni cura per cercare attorno un partito conveniente per i loro figli, e si legge di re Frédùn che dopo molto meditare e dopo maturo consiglio si appigliò ad uno spediente tutto nuovo. Aveva egli in sua casa un vecchio servo di nome Gendel, fedele, accorto e di mente acuta e penetrante. Confidatogli il suo segreto, re Fredùn lo mandò attorno con l’incarico di cercare per i suoi tre giovani figli ai quali egli non aveva ancora imposto il nome, tre sorelle figlie di re alle quali pure il padre non avesse ancora imposto un nome. Gendel andò e finalmente ritrovò che Serv, re del Yemen nell’Arabia, aveva tre bellissime figlie quali appunto richiedeva il suo principe e signore. Le figlie, non senza qualche opposizione, come or or si vedrà, furono concesse dal geloso e sospettoso padre, e i tre figli del re [p. 11 modifica]Fredûn si tolsero beati e contenti, e senza muover verbo, le tre giovinette. Talvolta i matrimoni erano imposti per ragione politica, e allora, o volentieri o malvolentieri, la sposa e lo sposo dovevano chinar il capo e acconciarsi alla volontà di chi più comandava. Così Siyàvish sposava la figlia di re Afràsyàb, la bella Ferenghis che egli poi amò sì teneramente, e Ferenghis, morto Siyàvish, dovette contro sua volontà sposare il giovane e valoroso Feriburz che per tal via s’impegnava a vendicar la morte del primo sposo di lei. Ma in generale, quando i genitori avevano ed esercitavano piena autorità in questa faccenda e quando i principi e i re disponevano ogni cosa per il meglio e i giovani sposi altro non avevano che da acconsentire con tacita obbedienza, è facile intendere che le cose dovevano andar molto piane, senza turbamenti e senza contrasti. La cosa invece era ben diversa quando i due giovanetti si promettevano scambievole amore all’insaputa dei genitori e del principe. Già i libri sacri degl’Irani dichiaravano che un matrimonio così concluso, senza che v’intervenisse la volontà del padre e della madre, era il peggior di tutti, ed è ben naturale che l’autorità religiosa così giudicasse d’un fatto che s’era compiuto senza il beneplacito d’un’altra autorità, forse non meno grande, quale era quella del padre. Ma per i giovani sposi e per la leggenda epica la quale, si badi bene, è tutta popolare e come tale è bene spesso in opposizione con ogni autorità, questa specie di matrimonio, prima contrastato e cagione d’infinite ire, finiva poi coll’esser fausto e felice negli effetti suoi. La cosa, del resto, non è nuova e presso di noi formò più volte il soggetto di tanti drammi e di tanti romanzi, come nella leggenda epica persiana i più belli episodi sono quelli certamente che raccontano le vicende di tali amori, le durissime prove a cui erano sottoposti gli amanti, le rabbie, i rabbuffi e i rimproveri, e finalmente l’esito felice a cui menano pur sempre la costanza e la fede. Più gravi ancora erano le condizioni per i giovani amanti allorquando essi appartenevano rispettivamente a due famiglie o a due genti nemiche e in guerra fra loro; e si badi che anche qui il soggetto è vecchio, trattato poi in tante e diverse maniere nella letteratura antica e moderna, con esiti diversi, ora felici ora infelici, con finali tragici per lo più a conseguimento di effetto maggiore. Nella leggenda persiana, invece, non si ha esempio che alcuno di questi amori di giovinetti di genti o di famiglie nemiche e rivali abbia poi tristo fine; ma qui tutto, secondo l’epopea che per l’indole sua ama aver gli esiti lieti, ogni cosa termina felicemente e i giovani amanti veggono finalmente coronati i loro voti più caldi. [p. 12 modifica]Così il giovinetto Bìzhen che si era perdutamente invaghito della bella Menizbeh figlia del re Àfrasyab signore dei Turani ed eterno nemico degl’Irani, e Bizhen appunto era iranio, fu fatto rinchiudere dal genitore della fanciulla in un’orrida caverna già abitata dai demoni, finchè poi Rustem lo liberò ed egli potè sposare la fedele e amorosa fanciulla che per sostentarlo in vita, mentr’egli era rinchiuso nella caverna, andava limosinando. Così il giovane Zal si era invaghito della bella Rudabeh figlia di genitori idolatri e di stirpe non iranica; e il re d’Irania Minocihr, quando ne ebbe sentore, vietò assolutamente il proposto matrimonio. Le cose poi andaron tanto innanzi che il padre della giovinetta minacciò di ucciderla e il re Minócihr comandò al padre stesso di Zal di andare e di devastare il paese del Kabub dove abitava la fanciulla, di arderne il castello e di sterminarne la famiglia intera. Allora furon pianti disperati e terribili proponimenti dei due infelici che si erano giurata la fede, ire e disdegni dei genitori, finchè un caso inaspettato mutò rapidamente la cose. Gl’indovini consultati all’uopo dichiararono solennemente che dall’unione delle due famiglie rivali, per mezzo del connubio di Zal e di Rùdabeh, doveva nascere la felicità del paese dell'Iran. Frutto di tal connubio doveva essere un grande eroe che sarebbe stato l’onore della patria terra, tale che avrebbe sgominati i nemici tutti, e di tal maestà che le nubi del cielo non avrebbero osato passargli sul capo e che i leoni avrebbero baciata la polvere dinanzi a’suoi piedi. Quel grande eroe, ognun l’intende, era Rustem. Alla solenne dichiarazione dei maghi e degl’indovini, caddero le ire da tutte le parti e il re Minócihr diede l’assenso alle bramate nozze. Ma perchè in cosa tanto delicata dovevasi procedere con ogni circospezione e cautela, così il giustissimo re volle tentare un altra prova, non meno decisiva di quella profezia.

La vaghissima fanciulla che Zal doveva impalmare, era figlia di genitori idolatri, e perciò era ben da dubitare che il giovane sposo, addotto una volta a far vita comune con lei, facilmente vacillasse nella fede. Re Minócihr pertanto tenne secreta la mirabile profezia degl’indovini, e poi, invitato alla corte il giovane Zal, radunata una solenne assemblea di sacerdoti, di seniori, di savi e di principi, lo sottopose ad un rigoroso esame. Ciascun savio o sacerdote propose un enigma da sciogliere per rendersi conto della sapienza del giovinetto, che dopo un istante di riflessione li sciolse tutti ed ebbe vittoria. E qui ricordiamoci che l’uso di proporre enigmi al cui scioglimento è proposto come premio una sposa, è antichissimo e comune nelle leggende, che la mano di Giocasta a Tebe [p. 13 modifica]doveva esser premio di colui che avesse saputo scioglier l’enigma della Sfinge e che nel Medio Evo la mano d’una nobile donzella era data qualche volta in premio a colui che sapeva sciogliere certi indovinelli. Da quest’uso il Giacosa nostro trasse uno de’suoi più belli e applauditi lavori. Ma gl’indovinelli che il giovane Zal doveva sciogliere alla corte di Minócihr, erano ben semplici e puerili e consentanei perciò a quell’antichissima età alla quale la leggenda si riferisce. Basti il dire che uno degl’indovinelli era questo: che sono quei due cavalli, uno bianco, nero l’altro, veloci al corso, che rapidi s’inseguono e non si raggiungon mai? - E l’altro era: Che sono quei dodici alberi tutti in fila che hanno trenta rami per ciascheduno? - Ma perchè il giovane Zal prontamente indovinò che i due cavalli erano il giorno e la notte, e che i dodici alberi dai trenta rami erano i dodici mesi dell’anno coi loro trenta giorni, e seppe interpretare un’altra diecina d’indovinelli simili a questi, tutti quanti i savi della nobile assemblea si guardarono in viso l’un l’altro stupiti e meravigliati e stringendo le labbra, mentre dall’alto del trono il re Minócihr che presiedeva a quell’esame, levò le braccia al cielo e commosso e piangente benedisse il Signor del cielo e della terra perchè nel suo regno era sorto un giovane principe così sapiente e istruito in ogni bella cosa a sapersi. All’esame tenne dietro un lautissimo convito, e al giorno dopo il giovane Zal fu rimandato ai domini paterni con una lettera del re, che lo dichiarava assolutamente in grado di contrarre le bramate nozze.

Ma qualche volta era il padre stesso della sposa quello che metteva alla prova il suo futuro genero sia per conoscerne l’indole e i talenti, sia con la speranza di vederlo fallire e di ritenersi con tal pretesto la propria figlia. Il re del Yemen, Serv, propose anche egli una specie d’indovinello, ma in maniera alquanto diversa. Quando infatti i tre figli del re Frédùn si recarono da lui dietro suo invito e dietro desiderio che aveva di conoscerne l’indole, egli li pose tutti a tavola in mezzo ad una radunanza di principi e di sacerdoti, indi fece entrar le tre figlie sue; ma pensando di trar nell’inganno i giovani principi, pose a sedere accanto al maggiore la figlia minore, accanto la minore la maggiore, e accanto a quel di mezzo quella che per età veniva in mezzo alle altre. Ciò fatto, disse: Queste sono le figlie mie; ditemi ora qual’è d’esse la maggiore, quale quella di mezzo e quale la minore. — Ma i giovani figli di Frédùn, già da lui ammaestrati accortamente, indovinarono l’ordine delle fanciulle e dissero: Siede la maggiore accanto al minore di noi, la minore siede accanto al maggiore, e quella di mezzo sedendo [p. 14 modifica]accanto a quello di noi che è il medio per l’età, si siede al suo giusto luogo. - Non è a dire qual meraviglia e stupore suscitò nei circostanti l’arguta risposta; tutti proruppero in applausi e il vecchio re del Yemen dovette confessarsi vinto. Non si smarrì d’animo però, ma, calata la notte, mentre tutti si ritornavano ebbri dal suo regal convito, egli pose a dormire i tre garzoni in un bel padiglione, eretto in un giardino, sull’orlo d’un laghetto. Quando tutto taceva all’intorno, egli entrò in quel giardino e là con orribili scongiuri e con arti d’incantesimo suscitò un intensissimo freddo. Il monte e il piano, al mormorar delle sacrileghe parole, si ricoprirono a un tratto di ghiaccio, caddero le foglie degli alberi, perirono gli animali della campagna e precipitarono dall’alto intirizziti i volatori della foresta. Sperava il vecchio re che in quell’orribile freddo sarebbero periti i suoi tre ospiti non troppo graditi veramente; ma i tre giovinetti, destati dall’improvviso freddo, balzarono spaventati dai loro giacigli, e conosciuto essere tutta quella un’opera d’incanto, dietro suggerimento già avuto dal loro vecchio e savio genitore, pronunciarono il nome di Dio. A quel santo nome, le potenze infernali caddero infrante, il cielo si rasserenò, l’aria tornò tiepida e dolce, e al mattino che susseguì con uno splendido sole, il vecchio re del Yemen che ormai non poteva più nè resistere nè ricusarsi, consegnò solennemente le figlie sue ai giovinetti. Che anzi la leggenda racconta aver egli osservato in quell’istante che l’uomo che non ha figlie in casa, è misero e gramo, ma che più misero e gramo è colui che si allevò presso di sè le sue dolci figlie e dovette poi darle in braccio ad uno straniero per un’altra terra e per un’altra casa.

Ma, qualunque fosse il modo con cui si concludeva un matrimonio, sormontato finalmente ogni ostacolo, non si pensava che a celebrarlo con tutta pompa e solennità. La cerimonia consisteva veramente in quell’uso al tutto primitivo di condur la sposa alla casa dello sposo, uso che è originario indo-europeo, trovandosi che la medesima radice vad che significa semplicemente condurre, è venuta poi a significare l’atto di condur la sposa alla casa dello sposo, come ne fa fede lo zendo upavaédhayémi che vuol dire: io conduco in matrimonio, l’afghano vádah matrimonio, e il lituano védu, e l’inglese wedding, nozze. Ma intorno a questa cerimonia del condurre che è l’essenziale veramente fra tutte le altre, si raggrupparono molte altre cerimonie e usi particolari riguardo specialmente alla pompa che si spiegava in simili occasioni, ben lontana dalla primitiva semplicità, allorquando le offerte fatte agli [p. 15 modifica]sposi consistevano soltanto in un poco di riso condito. Quando, pertanto, era stato stabilito e convenuto da ambe le parti il fausto e sospirato giorno delle nozze, lo sposo e il padre suo con un seguito di guerrieri e di sacerdoti, con cammelli ed elefanti carichi di eletti e ricchissimi doni, si partivano dalla loro dimora e si avviavano al castello della fanciulla. Tutto il viaggio era un trionfo; ma, a mezzo della via, il genitore della fanciulla soleva venir loro incontro accompagnato da non dissimile corteggio, e al primo suo incontrarsi col futuro genero, mentre tutti discendevano dai loro cavalli, egli s’affrettava a porgli in capo una corona tutta adorna di gemme, indi, dopo le oneste accoglienze e le parole benaugurose di circostanza, l’invitava a proseguir seco la via. Sulla soglia del castello si mostrava la madre della fanciulla, seguita da ancelle che cantavano le lodi dello sposo, fra uno strepito di tamburi e uno squillar di trombe, e reggevano in pugno fulgidi nappi d’oro, tutti pieni di gemme, di monete, di muschio e di zafferano che esse spargevano tra la folla e a piedi dello sposo e del padre di lui. Il padre intanto discendeva di sella e inchinandosi alla madre della sposa, le veniva chiedendo in qual parte mai della casa ella si celasse la vaga e leggiadra figlia sua, il fiore del suo giardino, la gemma fulgida della sua famiglia. Quella lo invitava ad entrare, e allora padre e sposo e tutta la lor comitiva erano introdotti nella maggior sala del castello, laddove, nel bel mezzo e sopra un trono dorato, sedeva, ornata in tutta la magnificenza orientale, la giovinetta. Il padre dello sposo, al rimirar la nuora sua, si volgeva al figlio e lo chiamava fortunato e felice perchè gli era dato d’impalmare così avvenente fanciulla; ma il padre di lei intanto, assistito dai domestici sacerdoti, alla presenza di tutti gl’invitati, dichiarava solennemente congiunti i due giovani amanti e nella tenerezza del cuor suo raccomandava la figlia sua al nobile garzone perch’egli mai non l’offendesse, ma sì le facesse lieta compagnia e l’amasse ancora quanto un uomo può amar la propria anima. Lo sposo allora andava a sedersi accanto alla sposa su quel trono medesimo, e gli astanti prorompevano in grida di giubilo, e gettavano a’piedi degli sposi, rubini, smeraldi e diamanti, muschio odoroso, canfora, zafferano, ambra gialla ritenuta allora come cosa preziosa, dichiarando apertamente che ormai il sole era congiunto alla luna, che il cielo si era disposato alla fulgida stella che splende al tramonto. Recavasi allora la carta su chi erano notati i donativi che il padre faceva alla figlia sua. Erano gemme e monete, giovani schiave e ancelle, monili e oggetti d’oro, nobile appannaggio alla nobile fanciulla che usciva dalla casa [p. 16 modifica]paterna. Ciò fatto, si celebrava solenne convito, che ripetevasi poi per sette giorni e sette ancora, e talvolta anche per tutto un mese, con mirabile profusione di cibi e di vini, quanta ne poteva dare e sopportare l’età eroica e quanta ne poteva immaginare l’accesa fantasia di un poeta. Ma intanto i giovani sposi erano accolti ad albergare in una parte separata del castello, nè là era loro concesso di riposarsi dalle feste clamorose e prolungate, poichè ad ogni sera una eletta compagnia di musici e di cantori, circondava il castello, e per tutta la notte assordava l’aria con una musica festosa. Che anzi la leggenda, nel descriver le nozze di Zàl e di Rudàbeh, figlia del re di Kabul, aggiunge ancora che per quelle notti, al fiero strepito della barbarica musica, non solo non poterono chiudere gli occhi al sonno gli abitanti di quella terra, ma le fiere ancora e i volatori della foresta non riposarono e fuggirono spaventati dai loro luoghi conosciuti. Terminate le feste, lo sposo prendeva licenza dai genitori della sposa, e accompagnato da mille auguri e benedizioni conduceva su di un palanchino splendidamente ornato a festa la sua nuova compagna alla paterna casa.

Costume eroico fin dai più antichi tempi era la caccia, e la Bibbia ci dice che uno dei più fieri e temuti personaggi delle prime età del genere umano era anche cacciatore, Nembrod il terribile cacciatore nel cospetto di Dio. Ora, la leggenda persiana ricorda un solo eroe fra i tanti di cui narra le imprese, che fosse anche cacciatore; e questi era Rustem, figlio di Zàl. Gli altri eroi persiani hanno tutti qualche cosa di più eletto e di più elegante nei loro costumi, poiché sono avvezzi a vivere in corte; ma in Rustem trovasi qualche cosa di ruvido e di selvaggio e perciò appunto egli è anche cacciatore, mentre gli altri tutti non sono. E si noti qui che anche altre leggende epiche di altri popoli fanno una profonda distinzione tra carattere e carattere di eroi, e conseguentemente anche tra i loro costumi. Si confrontino perciò i caratteri di Teseo, di Aiace e di Achille col carattere di Ercole e si confrontino tra loro i costumi alti e nobili dei primi e quelli ruvidi e selvaggi del secondo; si pongano accanto gli eroi leggiadri e nobili e i giganti fieri e indomiti dell’Edda e si veda quanta differenza corra tra gli uni e tra gli altri. Ora questa stessa differenza trovasi tra il figlio di Zal e gli altri eroi dell’epopea persiana; Rustem infatti non sta come gli altri alla corte, ma vive solitario nel suo castello donde si parte nei momenti soltanto che un gran pericolo il richiama al cospetto del re; il modo suo di vivere rifugge dalle mollezze e dalle delizie dei cortigiani; i pasti suoi sono carni abbrustolite sul [p. 17 modifica]fuoco, all’aria aperta, e la sua corazza militare è la spoglia irsuta di un leopardo che gli ricopre la schiena e la nuca e poi sale a ricoprirgli il capo, serbando ancora il muso e gli occhi spenti dell’uccisa belva, cagione di alto spavento a tutti i suoi nemici. In tal rozzezza di costumi, egli ama appassionatamente la caccia; e l’epopea ci descrive come egli bene spesso si parta dal castello paterno, al primo albore, per aggirarsi fino a sera e talvolta anche fino al termine di parecchi giorni per lontane e inospitali foreste, onde avveniva che talvolta se giungeva a richiamarlo in corte qualche messaggero del re, egli dovesse aspettarlo finché l’eroe ritornasse dalla sua prediletta caccia. Rustem, adunque, usciva al mattino, al primo apparir dell’alba in oriente, montato sul suo fedel destriero, e s’internava per boschi e per deserti. Quivi ei s’incontrava facilmente in una torma di onagri; allora egli avventava il laccio suo che giungeva a sessanta cubiti, e qualcuno dei selvaggi animal cadeva a’ suoi piedi impigliato in que’ nodi. L’eroe discendeva di sella, scioglieva al pascolo pel prato il suo Rakhsh, indi scuoiava l’atterrata belva. Destata poi con la spada da una selce una scintilla, egli raccoglieva quella scintilla in aride foglie e vilucchi, indi con secchi rami suscitava un gran fuoco. Su quel fuoco egli faceva arrostire, infissa in uno spiedo di legno, la sua preda ancor palpitante, indi, levatala di sopra ai carboni ardenti, acconciamente la spartiva e a poco a poco piacevolmente se la mangiava. A lui, formidabile divoratore, non restavano che le ossa, che egli però rompeva per estrarne il midollo di cui era ghiottissimo, mentre una vicina fontana spegnevagli la sete e gl’innaffiava l’abbondante cibo. Saziata la fame, egli s’addormentava sul prato per ritornarsi poi, al cessar del profondo sonno, tranquillamente al suo castello.

Ma laddove un eroe mostravasi veramente tale, dispiegando tutto il valor del suo braccio e la generosità del suo cuore, si era la guerra. Essendo cresciuto fra gli esercizi cavallereschi, fatto adulto, egli poteva ormai offrir l’aiuto possente del suo braccio alla patria terra e difenderla dagli assalti nemici. Perciò, quando si annunziava dalle frontiere che il re dei Turani, il feroce e ambizioso Afràsyàb, aveva violato improvvisamente i confini, il re degli Irani, mandava attorno suoi messaggeri ad invitare alla corte tutti i prodi che accorrevano volenterosi. Non obbedire all’autorevole richiamo del principe e l’indugiarsi prima di obbedire, era colpa gravissima che quegli soleva punire severamente. Ma i nobili figli di Irania, accorrevano volenterosi e pronti, poiché la guerra coi nemici aveva per loro un alto significato religioso, simboleggiando in [p. 18 modifica]terra la grande ed eterna battaglia tra Ahura Mazda e Anra Mainyu, la lotta tra il bene e il male. S’intende di qui che gli uomini tutti e più ancora quelli che il cielo aveva dotati di forza e di valor militare, dovevano parteggiar per quello, e combattere contro questo fin che loro era dato. Adunavansi adunque in folla, alla porta del re, tutti gli eroi chiamati da lui, cinti delle loro armi rilucenti ereditate dai loro padri, e i più nobili e più famosi erano anche ammessi alla real presenza, nella sala del trono. Il re allora, dopo un'allocuzione appropriata alla solenne circostanza, facevasi recare innanzi diversi doni, ricchissimi e degni di lui, proponendo di darli in premio a quello de’ suoi prodi, che compisse la tale o tal altra impresa. Balzavano allora in piedi i generosi, e questi prometteva di recar dinanzi al trono reale la testa recisa del nemico, quello di prendere il tale castello, e quello di aprire un varco tra le montagne più scoscese, abitate da Dévi o da Maghi, finchè tutti i doni del re erano assegnati a questo e a quello. Allora, accompagnato dalla benedizione del re e dei sacerdoti, in un giorno propizio quale gli astrologi solevano determinare dietro i loro computi e le osservazioni del cielo, preceduto dal vessillo nazionale di Kaveh, tra lo strepito dei timballi e delle trombe, lo stuolo dei baldi e giovani guerrieri si avviava al campo.

Ma, come accade nei canti omerici, e in generale in tutti i racconti epici antichi, anche nelle descrizioni che leggiamo di battaglie nell'epopea persiana, il poeta, descritto per un poco il tumulto del primo incontrarsi delle schiere avverse, si riduce a descrivere con compiacenza maggiore i colpi tremendi e poderosi de’ suoi eroi, ch’egli sembra seguire passo passo nel più folto della mischia. Così, tra tutta la gente del basso esercito che disperatamente si accapiglia, mostrasi alto e cospicuo il giovane eroe a cui l’ingenito valore e l’alto nascimento danno animo e ardire. Egli invita ogni più forte e gagliardo della nemica schiera a singolar tenzone, e allorchè l’altro gli corrisponda, la tenzone è a morte. I primi colpi con dell’aste, infrante le quali senza che l’uno o l’altro sia sbalzato di sella, i cavalieri ricorrono alle spade, poi alle clave che lor pendono dall’arcione, e finalmente alla lotta a corpo a corpo discesi prima dai loro cavalli. Quegli che soggiaceva, nè sperava nè domandava pietà, poichè l’altro gli troncava la testa, e quella testa egli lanciava tra le schiere del vinto, in segno di ludibrio e di scherno. Talvolta invece egli la conficcava sulla punta di una lancia e qualche volta l’appendeva alla sella per inviarla poi al suo principe e signore, come segno e prova delle opere del valor suo. [p. 19 modifica] Ma, anche con tutto ciò, tutti gli eroi dell’epopea persiana, che erano pur molti (e sola la famiglia di Gùderz ne contava settantadue, senza rammentar quelli della casa di Nevdher e di altre case), raramente si trovan soli in qualche grande impresa, anzi quasi mai non si trovano, essendo tutti impegnati, e insieme, in quella gran guerra secolare tra Irani e Turani, che forma il soggetto principale dell’epopea. L’eroe invece di cui si raccontano mille avventure, tutte fra loro indipendenti, come si legge dei paladini del poema dell’Ariosto, è veramente il gran figlio di Zal, Rustem; onde avviene che la figura bella e simpatica di questo grande guerriero spicca mirabilmente fra tutte le altre, come una figura solitaria in un grande quadro. Come tale che ama la caccia e la vita semplice del suo paterno castello, egli non prende parte come gli altri eroi alla lunga guerra tra Irani e Turani, ma solo si riserba di recarvi un possente e insperato aiuto quando le cose precipitano a male. Del resto, quando un grave pericolo sovrasta, il re degl’Irani suol mandare a lui un suo fido messaggero con la preghiera di accorrer tosto, perchè la sua terra natia ha bisogno dell’aiuto del suo braccio. Allora, il nobile guerriero, chiesta licenza dalla madre sua che l’abbraccia piangendo, dai castelli del Nimruz, discende al palazzo reale laddove l’attende il suo re. I principi e i sacerdoti; avuto l’annunzio del suo arrivo, gli muovono festosi incontro, e l’accompagnano alla presenza del re seduto in trono. Alla regal presenza egli bacia la terra e pronuncia auguri e benedizioni al suo principe che gli stende le mani e l’abbraccia, e lo fa sedere al suo fianco. Un lauto convito vien tosto a festeggiar la venuta dell’eroe, ed a ristorarne le forze, mentre, al mattino che segue, egli si pone in via per la nuova e rischiosa impresa a cui il cielo e il suo re l’hanno chiamato. Così, come leggesi, egli potè vincere i Dévi del Màzenderàn, e strappare il cuore e il fegato al Dévo Bianco che abitava in una tenebrosa caverna per guarirne col sangue la cecità del re Kàvus; così egli potè liberar l’esercito degl’Irani assediato dai nemici sul monte Hamàven e spaventar tutti i Turani con una sua freccia con cui egli uccise Eshkebùs e che quelli credettero nel loro stupore una lancia; così egli potè prendere la così detta città dell’Ingiustizia e uccidere Kàlùr empio e perverso che imbandiva le sue mense di carni di fanciulli; così egli potè uccidere il Dévo Akvàn che disperdeva le mandre dei cavalli reali, e penetrar nel Turan vestito da mercante e rovesciar la pietra incantata che chiudeva l’orrido speco in cui il giovane Bizhen era prigioniero, e vincere il re d’Hàmaveràn e sconfiggere Afràsyàb e togliergli dal capo [p. 20 modifica]la corona e uccidergli il figlio Surkheh e appenderlo a un tristo legno e vendicar la morte di Siyàvish che Afràsyab aveva ucciso a tradimento.

Ottenuta vittoria, egli ritornava alla reggia, laddove il re soleva riceverlo con parole benaugurose e con meritate lodi, cinto di tutta la pompa del suo alto grado. Rustem rispondeva a quelle lodi affermando che se l’impresa sua aveva avuto un lieto fine, ciò dovevasi attribuire alla grazia di Dio che dà forza ai suoi campioni, e alla maestà di sì gran re. Celebravasi allora un lauto banchetto, e Rustem sedeva accanto al suo signore, mentre i principi all’intorno andavano a gara nel fargli onore, e giovinetti e giovinette dinanzi a lui intrecciavano vaghe danze e, lui presente, cantavano le sue geste meravigliose. Erano danze mimiche e figurative, e il canto, cosa degna d’esser notata, facevasi in metro eroico, mentre l’accompagnavano armoniosi accordi di flauti e di ribebe. Alla fine del convito, l’eroe ebbro tra gli altri ebbri, con tutta pompa era accompagnato ad un’apposita stanza; ma il convito ripetevasi per sette giorni ancora e poi per altri sette, finchè l’eroe chiedeva licenza di partire.

Il re dei re doveva allora degnamente ricompensare il suo nobile campione, e il poeta suol fermarsi con compiacenza ad ogni occasione per enumerare i ricchissimi doni che quel prode riceveva dal suo signore. Erano corone ingemmate, monili, collane e braccialetti, elmi cristati, spade con guaina d’oro, corazze greche, targhe del Ghilàn, nappi d’oro pieni di turchesi, di rubini del Badakhhan, di smeraldi, di muschio, di agalloco, di essenza di rose, di profumi di fiengreco, e poi troni d’avorio, selle, gualdrappe irte di fiocchi, sportelle di monete, palafreni arabi, giovinetti schiavi, fanciulle di Tiràz e finalmente una veste imperiale ricamata a gemme ed oro e un regio editto con cui gli si dava l’investitura di nuovi feudi e di nuove terre. Rustem allora, baciato il suolo a piè del trono, mentre qualche volta il re soleva accompagnarlo per un certo tratto di via, coi ricchissimi doni ritornava alla sua terra del Nimrùz, tra le braccia de’suoi vecchi genitori.

Senonchè contro il tempo e contro la morte non hanno alcun potere il valore del braccio e la costanza della virtù. Il fato, dice il poeta, è un astuto giocoliere, ma tristo è il giuoco che esso ti fa, nè alcuno quaggiù vi si può sottrarre. Perciò, quando giunge il tempo designato, anche il re dei re doveva discendere dall’altezza del suo trono, e il nobile guerriero che aveva combattuto per il suo re e per la sua terra, doveva abbandonar per sempre il giuoco [p. 21 modifica]dell’armi e i solazzi sereni e tranquilli del suo castello. Quasi tutti i re della leggenda persiana muoiono sazi di vita, come dei Patriarchi dice la Bibbia, e dopo avere ottenuto in terra quanto essi avevano desiderato più ardentemente. Così moriva il re Frèdùn, poichè aveva rivendicato il trono de’ suoi padri e punita la morte crudele del suo più giovane figlio, l’innocente e nobile Erag’; così moriva il re Minócihr, poichè ebbe ridotta sotto il suo comando tutta la terra, l’Oriente e l’Occidente; così moriva il re Kàvus, poiché ebbe vendicata la morte del figlio suo Siyàvish, e re Khusrev, per i suoi meriti singolari, era fatto degno di salire al cielo. Ma prima che giungesse quel dì fatale, gli astrologi e i sacerdoti che l’avevano già da gran tempo preveduto, entravano solennemente dal re e gli annunziavano con parole compunte e riverenti la sua prossima fine. Il gran signore, uniformandosi ai voleri del cielo, con tutta la regia pompa si sedeva allora sul trono e si poneva in capo la corona reale; indi, fatti entrare tutti i suoi principi e i grandi del regno, alla presenza dei sacerdoti, consegnava quella corona al figlio suo, ovvero a quel principe che aveva maggior diritto al trono, e l’ammoniva a serbarla intatta e gloriosa, a non insuperbirsi per essa, poichè la gloria dei re passa come un aura lieve, ad accrescerne lo splendore con opere egregie, di cui soltanto rimane eterna la ricordanza. Ciò detto, egli accomiatava tutti per attendere nella pace e nella solitudine l’estremo giorno del viver suo. Gli eroi, invece, della leggenda persiana trovano quasi tutti la morte in campo fra lo strepito dell’armi, allorquando qualcun dei nemici scaglia su loro quel colpo fatale che è designato dal cielo a troncare i loro giorni.

Ma, qualunque fosse il genere di morte che incoglieva quell’uomo grande e illustre che regnando o combattendo aveva ben meritato della sua terra, le cerimonie funebri erano pur sempre semplici e grandiose. Elevavasi prima di lutto il mausoleo, che era un piccolo edilizio quadrato, posto sopra un’ampia base a gradini, con un letto acuminato e una piccola stanza nell’interno a cui dava accesso una porta angusta e bassa. Allora, si volgeva il pensiero al cadavere; e tosto i famigli intenti, fra il pianto e i sospiri, sotto la sorveglianza del figlio o del più prossimo parente dell’estinto, lavavano con acqua di rose il corpo, ne ravviavano la barba e i capelli con un pettine dorato e n’empivano il cranio di muschio, di canfora e talvolta anche di vischio. L’avvolgevano allora in abiti pomposi di tessuto cinese, gli cingevano le sue armi guerriere e gli ponevano sul capo una corona. Ciò fatto, ponevano quel cadavere a sedere sopra un trono di quercia con ornamenti di avorio e [p. 22 modifica]collocavano quel trono nel mausoleo, come se l’eroe o il principe vi sedesse ancor vivo, in atto pacifico e tranquillo. Tutti allora i parenti e gli amici si affollavano sulla soglia del mausoleo per dare un estremo addio alla cara persona estinta, poi ne chiudevano per sempre la porta.

Questa gente antica credeva ancora che il prezioso dono della vita fatto da Dio all’uomo, non gli poteva esser tolto che temporaneamente e però aveva certezza che un giorno, alla fine dei secoli, esso gli sarebbe integralmente restituito, quando i morti sarebbero risorti. Ma poichè visibile simbolo della futura risurrezione della vita era il sole, che sembra morire ogni sera e risorgere ogni mattina, così la morta spoglia che si soleva collocare a seder sopra un trono, era anche posta col viso verso oriente come in atto di attendere l’apparir del sole e col suo rinnovarsi il rinnovarsi della propria vita. L’uso antichissimo è sparso per tutto il mondo antico e trovasi che anche nelle vaste necropoli di Menfi in Egitto e in quelle preistoriche l’estinto è sempre volto ad oriente, e, come dice l’Alighieri,

Con ardente affetto il sole aspetta,
Fiso guardando, pur che l’alba nasca.


Così l’ultima e più bella speranza, quella del ritornare alla dolce vita che l’uomo sempre abbandona con dolore, allietava l’eroe morente e confortava i suoi cari superstiti, fatti certi per essa di rivederlo ancora in un giorno e più bello e più sereno.


Note

  1. Lettura fatta al Circolo Filologico di Firenze la sera del 26 Gennaio 1885.