La capitana del Yucatan/35. La lotta del Cristobal Colon

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35. La lotta del Cristobal Colon

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34. La ritirata di Cervera
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CAPITOLO XXXV.


La lotta del “Cristobal Colon„


Mentre le tre corazzate della squadra spagnuola, rotte, fracassate, sventrate, terminavano di affondare, il Cristobal Colon, il più piccolo, ma il più solido dei quattro incrociatori continuava da solo la tremenda lotta.

Invano la Yowa, il Texas, l’Oregon e l’Indiana, le più poderose corazzate della marina americana, tentavano, con furiose scariche, di demolirlo e di cacciarlo a fondo. Quella nave, parte dell’industria italiana, resisteva come uno scoglio.

Le granate cadevano fitte sulla sua coperta, detonando spaventosamente, lanciando a prora ed a poppa getti di fuoco e frantumi di acciaio ed i grossi proiettili battevano le sue corazze tentando di aprire delle brecce, ma invano. [p. 305 modifica]— Mi congratulo con voi, ammiraglio, voi avete combattuto valorosamente. [p. 307 modifica]

La rapida nave, colla sua bandiera inchiodata sull’asta di poppa, proseguiva la sua corsa colla speranza di prendere il largo e di sfuggire a quella muta arrabbiata che ingrossava di momento in momento, giacchè altre navi accorrevano per chiuderle il passo.

Era bella, era terribile, la lotta che sosteneva quella sola nave, ultima superstite di quella squadra che aveva costato alla povera Spagna tanti tesori, contro l’intera squadra del commodoro americano.

Quantunque colla coperta fiammeggiante per l’incessante scoppio delle granate nemiche, non s’arrestava e tuonava con crescente lena coi suoi grossi Hontoria ed i suoi trentotto pezzi a tiro rapido, tempestando e forando le navi nemiche.

Sotto le scariche formidabili che riceveva, trabbalzava sui flutti, ma le sue corazze non si aprivano all’acqua.

Diaz Moreu, il valoroso suo comandante, non era uomo da cedere così presto. Ritto nella torretta di comando, impartiva gli ordini con voce calma e squillante, come si fosse trovato non in mezzo ad una delle più feroci battaglie, bensì ad una rivista navale.

Disgraziatamente l’ultima ora doveva in breve suonare anche per l’ultima nave della squadra spagnuola uscita da Santiago.

Perseguitata dalle quattro corazzate e dal Brooklyn, il più potente incrociatore del mondo, non poteva ormai più sfuggire al cerchio di ferro che la rinserrava sempre più strettamente.

Pure per un’ora e mezza tiene coraggiosamente testa ai poderosi avversari, cercando di sfuggire ai loro attacchi; i suoi Hontoria sono ardenti per le incessanti scariche e la lena viene meno ai fuochisti che abbruciano dinanzi ai forni.

Diaz Moreu, disperato di non poter prendere il largo ed impotente a sbarazzarsi da tanti avversari, prende una decisione eroica. No, gli americani non avranno la sua nave.

Ammaina la bandiera e la caccia in mare, quella bandiera che gli era stata donata dalle donne italiche, fa staccare la targa d’argento, pure dono della Liguria e la seppellisce nei gorghi dell’oceano, poi lancia la sua nave, all’impazzata, verso la costa.

Le granate americane che hanno demolito e cacciato a fondo l’Infanta Maria Teresa, l’Almirante Oquendo, la Viscaya, il Pluton ed il Terror non hanno potuto sfondare la salda nave, ma lo faranno le scogliere.

Un promontorio sbarra la via ed al di là lo attendono la Yowa ed il Texas.

Diaz Moreu scaglia la sua nave addosso alla costa, a tutto vapore, onde si seppellisca fra le onde del mare.

Un urto tremendo avviene a prora. Il Cristobal Colon, spinto dalle sue eliche, balza sulle rocce come un cetaceo immane, con un fragore assordante, con un rombo metallico spaventevole, mentre una fiamma gigantesca s’alza per trecento metri in aria. [p. 308 modifica]

Ma no, le rocce non vincono la resistenza delle sue corazze, nè lo scoppio delle polveri aprono i suoi fianchi. La nave italiana resiste alle rupi ed al fuoco: è a prova di scoglio.

Una voce echeggia in mezzo ai vortici di fumo che sfuggono dalle batterie e dai boccaporti e fra le urla dei feriti e dei moribondi:

— Aprite le valvole e che la nave si sommerga!... —

E la nave, invasa dalle acque che irrompono attraverso le valvole aperte, cola a vista d’occhio nei flutti del mare dei Caraibi, mentre gli americani, stupiti, meravigliati, atterriti da tanto disastro, cessano il fuoco e lanciano in acqua le scialuppe per raccogliere gli ultimi superstiti della sfortunata squadra!

Diaz Moreu, circondato dai suoi marinai, piange. I prodi che egli ha cercato di condurre alla vittoria e che sono sfuggiti alle granate nemiche lo abbracciano colle lagrime agli occhi e gli fanno scudo come per impedirgli di lasciare la nave affondante.

Egli non pronuncia che poche parole con voce rotta, abbraccia i suoi ufficiali e scende nella scialuppa americana, mentre il Colon che nè le rocce, nè i cannoni della flotta nemica hanno saputo vincere, colava a picco in mezzo ad un vortice spumeggiante.


· · · · · · · · · · ·

Mentre la squadra spagnuola, dopo una lotta gloriosa, si inabissava coi suoi cadaveri nei gorghi del mare, l’Yucatan più fortunato, almeno pel momento, proseguiva rapido la sua corsa.

La sua estrema piccolezza e la sua poca elevazione sopra le onde, l’avevano pel momento protetto, poichè nessuna nave aveva fatto attenzione a quel guscio che aveva tutta l’apparenza d’un rottame abbandonato fra i flutti.

La marchesa, Cordoba e l’equipaggio avevano assistito impotenti e col cuore stretto da un’angoscia indescrivibile, all’ecatombe della flotta spagnuola.

Quando anche il Colon, vinto dall’enorme superiorità numerica dei suoi nemici, si gettò alla costa, un vero urlo di disperazione era uscito dalle labbra della Capitana.

— Cordoba!... — aveva gridato, con esaltazione. — Andiamo anche noi a morire assieme a quei valorosi!... —

Poi senza attendere la risposta del lupo di mare, fuori di sè per la disperazione e per la rabbia impotente, aveva dato due giri di ruota al timone per avventare l’Yucatan in mezzo ai colossi americani e tentare una lotta disperata o meglio per cercarvi la morte.

Cordoba però non aveva perduto il suo sangue freddo, con un balzo si era slanciato verso la marchesa e presala fra le robuste braccia l’aveva strappata alla ruota, dicendo:

— No, donna Dolores, io non devo permettere una tale pazzia!

— Cordoba!... Essi sono tutti morti!... [p. 309 modifica]

— Era scritto sul libro del destino, donna Dolores, — rispose il lupo di mare con un singhiozzo soffocato.

Depose la marchesa su di un mucchio di cordami e afferrò la ruota del timone, gridando:

— A ventisei nodi!... Sempre carbone nei forni!... —

In quel momento l’Yucatan passava dinanzi alla baia di Guantamano, continuando la sua rapida marcia verso il canale di Sopravvento che separa Haiti da Cuba. Disgraziatamente dinanzi a quella baia stazionavano alcune navi americane onde sorvegliare le mosse della guarnigione spagnuola e bloccare le cannoniere che si trovavano colà rifugiate.

Un transatlantico armato da guerra, che si trovava al largo, s’accorse di quella piccola nave quasi interamente sommersa, ma che pure filava, con una velocità incredibile, e supponendo forse che si trattasse di qualche torpediniera spagnuola sfuggita alla battaglia navale, si pose in caccia sparando un colpo in bianco.

Cordoba, invece di obbedire all’intimazione di fermarsi, si accontentò di alzare le spalle e di mettere la prora del Yucatan verso il sud-est per allontanarsi dalle coste cubane.

La marchesa, accasciata dal dolore, pareva che non si fosse accorta di nulla. Col volto nascosto fra le mani, piangeva in silenzio.

Il transatlantico vedendo che la piccola nave non aveva obbedito, erasi provato a mandare una palla di grosso calibro colla speranza di mandarla a picco con un solo colpo però la distanza era troppo grande perchè quel proiettile giungesse a destinazione.

Quella massa di ferro cadde trecento metri dalla poppa e s’immerse sollevando un grande sprazzo di spuma.

L’Yucatan correva sempre, balzando impetuosamente sulle onde, con un fremito sonoro. La sua macchina funzionava rabbiosamente, con sordi muggiti, pure non riusciva a guadagnare molto sul transatlantico, il quale bruciava carbone all’impazzata, a rischio di saltare in aria.

A mezzodì l’Yucatan si trovava già in mezzo al canale di Sopravvento dirigendosi verso l’isola di Gonave, per imboccare il canale di S. Mare e fuggire lungo le coste meridionali di Haiti.

Già Cordoba sperava di ingannare il transatlantico e di lasciarlo indietro, quando verso il nord vide comparire un’altra nave, la quale si avanzava a tutto vapore.

Mastro Colon, che aveva puntato un cannocchiale per conoscere a quale nazionalità apparteneva, mandò un urlo di furore.

— Nave americana!... — aveva gridato.

Era un incrociatore di seconda classe che veniva forse dalla Florida e che portava probabilmente delle truppe da sbarco pel generale Shafter.

Le due navi avevano già scambiati segnali e correvano addosso al povero Yucatan per prenderlo in mezzo e rovinarlo con un paio di tremende cannonate. [p. 310 modifica]

Cordoba si asciugò alcune gocce di freddo sudore che gli umidivano la fronte, poi volgendosi verso la marchesa, le disse:

— Voi non lascerete l’Yucatan cadere nelle mani degli americani, è vero, donna Dolores?

— No, — rispose la marchesa.

— Allora so cosa devo fare. Mastro Colon!...

— Signor Cordoba!... — rispose il mastro.

— Prepara delle micce nella santabarbara e stabilisci la comunicazione elettrica col siluro.

— Salteremo?...

— Sarà l’Yucatan che andrà all’aria!... Attenzione!... Fermi in gambe!... —

La costa dell’isola di Gonave non era che a trecento metri. Cordoba comandò macchina indietro e lanciò risolutamente la piccola nave verso la spiaggia, mentre i due transatlantici cominciavano a cannoneggiare con furore.

Trasportata dal proprio slancio, la piccola nave risalì per alcuni metri la sponda sabbiosa dell’isola che scendeva dolcemente in quel luogo, poi ricadde con un sordo rimbombo, sollevando una cortina di spuma.

Cordoba prese la marchesa fra le braccia e si lasciò cadere sulla spiaggia, seguito da tutti i marinai. Mastro Colon però aveva dato fuoco alla miccia e portava la scatoletta elettrica il cui filo era unito al siluro.

I due transatlantici erano allora lontani mille e cinquecento metri e facevano tuonare i loro pezzi a tiro rapido.

Cordoba risalì la sponda di corsa senza abbandonare la marchesa e si arrestò sul margine di una fitta foresta.

— Colon, fuoco!... — esclamò con voce vivamente commossa.

Un istante dopo l’Yucatan lacerato dal tremendo scoppio del siluro e dall’esplosione della polveriera, volava in pezzi.

La marchesa gettò uno sguardo lagrimoso sulla fumante carcassa, semisommersa fra le acque e le sabbie e mormorò, con un sospiro:

— La nostra missione è finita!... Quanti disastri, povera patria mia!


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Quindici giorni dopo la distruzione della squadra spagnuola, Santiago, stretta per mare e per terra, piena di feriti ed a corto di viveri si arrendeva coll’onore delle armi, poi cadevano successivamente Guantamano e Caimanera.

Verso la fine di luglio, gli americani, bombardata nuovamente San Juan, intraprendevano la conquista di Portorico appoggiati dalla popolazione e la effettuavano dopo però non pochi sanguinosi combattimenti.

Poco dopo venivano iniziate le trattative di pace, intermediaria [p. 311 modifica]la Francia, mentre Manilla, la capitale delle Filippine, dopo quattro mesi di ostinata difesa, si arrendeva agli americani piuttosto che cedere dinanzi agli insorti che l’avevano stretta d’assedio.

Il 10 Novembre, dopo lunghe trattative, la pace veniva definitivamente firmata a Parigi, dopo però una fiera protesta da parte di Monteros Rios, presidente dei delegati spagnuoli.

Gli Stati Uniti, inesorabili verso la povera Spagna, che aveva cercato di salvare, quantunque povera e dieci volte più debole, l’onore della propria nazione codardamente calpestata da una strapotente ed ingenerosa avversaria, s’appropriavano Cuba, Portorico e le Isole Filippine dietro il derisorio compenso di cento milioni.

Il diritto delle genti fu interamente calpestato dagli affaristi dell’America del Nord e senza che l’Europa intimasse l’alto là alle pretese esagerate di quegli uomini senza scrupoli.

In mezzo a tanti disastri, la Spagna non dimenticò però la sua coraggiosa figlia, che aveva dato tante prove di valore straordinario e di sublime amor patrio.

Infatti un mese dopo la pace, un bel mattino la marchesa del Castillo, tornata nel suo palazzo di Merida, riceveva una grande targa d’argento, finamente cesellata, in mezzo alla quale, in alto rilievo, si vedeva una piccola nave che riproduceva esattamente le snelle forme dell’Yucatan, e che all’intorno in lettere d’oro, portava la seguente scritta:


La Patria Riconoscente

alla

Marchesa DOLORES del CASTILLO

Capitana dell’«YUCATAN».



Fine.