La carbonaria/Atto III

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Atto III

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Atto II Atto IV
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ATTO III.

SCENA I.

Panfago, Pirino.

Panfago. Or vadansi ad appicar tutti coloro che non credono che amore non basti a trasformar gli uomini in strane foggie; poiché tu da libero e bianco sei divenuto nero e ti lasci vender come vil schiavo.

Pirino. Dimmi, Panfago, potrei esser riconosciuto da alcuno?

Panfago. Certo, se non avesse visto io imbrattarvi il viso con quella polvere, non crederei mai che foste Pirino: cosí rassembrate un schiavo al naturale; ci è questo di buono ancora, che incontrandovi con Melitea non sarete scoperto, se diventerete pallido o rosso con Mangone, ché il color nero nasconde il color del volto sotto la tinta: andate come in maschera.

Pirino. Io non vorrei parer tanto quel che non sono, che, volendo, parer quel che sono non potessi.

Panfago. Ma io come vi paio?

Pirino. Veramente mi par che tu non sia, né devresti mai far altro che ingannare: cosí dimostri essere un gran ladro, e se non ti conoscessi, ti giudicherei un ladro naturale.

Panfago. Con questo giubbone non dimostro magnificenza? e con questa ciera un mercadante ben ricco?

Pirino. Non potrai dir che tu sei povero, perché sei mercadante e hai schiavi da vendere.

Panfago. Se non m’hai rispetto e parli con creanza, ti darò bastonate. Tu sei mio schiavo e ti posso vendere a mio piacere: e te ne farò veder l’esperienza, ché ti venderò or ora.

Pirino. Hai ragione, vendimi tosto. [p. 135 modifica]

Panfago. Che hai, che tremi?

Pirino. Sempre quello che piú si desidera piú si teme. Tremo non so se di paura o di allegrezza: il pericolo dove mi trovo mi spaventa, l’allegrezza dell’acquisto mi rallegra, il timor turba l’allegrezza; talché provo in uno istesso tempo una timida allegrezza e un allegro timore. Ma ricòrdati, partito di qua, sollecitar Alessandro, ché solleciti mio padre a tor Melitea; e ricòrdati tornar presto con il presente.

Panfago. E tu come sarai a casa, ricòrdati di far apparecchiar presto da desinare.

Pirino. Ma camina presto, che non veggio l’ora di veder Melitea.

Panfago. Anzi bisogna caminar con gravitá, col passo della picca: non sai che son ricco e mercadante?

Pirino. Te ne prego e straprego.

Panfago. Or sí che dici bene, perché lo schiavo deve pregar il padrone.

Pirino. Ecco la casa.

SCENA II.

Mangone, Panfago, Pirino, Filace.

Mangone. (Veggio un mercadante da nave, che mi dimanda: certo costui sará quel raguseo che ha portato schiavi a vendere e ne porta un seco per mostra). Chi dimandate?

Panfago. Sète voi Mangone?

Mangone. Io son mentre Iddio vòle.

Panfago. Voi siate il ben trovato per mille volte, padron caro; perdonatemi se, non conoscendovi, primo non vi ho salutato.

Mangone. Non accadono simili cerimonie tra mercatanti: eccomi se son buono a servirvi.

Panfago. Io son il fattor del raguseo, padron della nave che ora è gionta in Napoli, carica di schiavi; vi prega che vegnate domani o questa sera a vedergli: e ve ne porto uno per mostra. [p. 136 modifica]

Mangone. (Questo mi par a proposito per Filigenio: me lo chiese di fattezze simili; mi par bello e proporzionato e ave assai del nobile). Lo schiavo mi piace, secondo il mercato che me ne fate.

Panfago. Il mio padron desia far amicizia con voi, e però non mira al prezzo di cotesto: volendolo in dono per amor suo, ve lo potrete tor liberamente, perché ogni volta che verrá in Napoli, vi riempirá la casa di schiavi, e voi vendendoli poi col vostro commodo, partirete il guadagno.

Mangone. Io non ho desiato altro nella mia vita che un simile incontro: io accetto carissimamente la sua amicizia. Di costui vo’ dar cinquanta scudi, se ben conosco che val piú, e quel piú lo ricevo in dono, accioché egli prenda medesimamente fiducia di servirsi di me, delle mie robbe e della mia vita.

Panfago. Mi contento di quello che voi vi contentate di darmi, cosí il mio padrone desia la vostra amicizia.

Mangone. Eccovi quindici scudi; in casa vi darò gli altri: potrete annoverargli.

Panfago. Credo alla vostra parola.

Mangone. Come si chiama lo schiavo?

Panfago. Amore, padron caro.

Mangone. Di che paese?

Panfago. Di Donnazapi, della provincia di Rabasco.

Mangone. Che nome voi mi dite?

Panfago. Nomi che si usano in Schiavonia.

Mangone. Amor, vien qua, non mi vòi tu servir con amore?

Pirino. Ben sarei discortese e villano, se, voi avendomi comprato con grande amore, non mi disponessi a servirvi con grandissimo amore.

Mangone. Servendomi lealmente, ti terrò da figlio, non da schiavo.

Pirino. Anzi, servendo voi, mi parrá di servire non un padrone, ma mio padre.

Mangone. Sai alcun ballo all’usanza tua?

Pirino. È gran tempo che non l’ho usati; ma però comandandomelo cosí voi, vo’ piú tosto servirvi cosí goffamente come so, che disubedirvi. [p. 137 modifica]

Mangone. Orsú via.

Pirino. «Siam, siam per via, guallá! siam, siam per via, guallá!».

Mangone. O ben, per vita mia! lo schiavo è cosí allegro e festevole, che mi fará viver dieci anni di piú: dispiacemi averlo promesso a Filigenio, che vorrei tenermelo per mio spasso. Ma poiché Melitea sta cosí disperata, Filace, va’ tu su, chiamala, che venga giú e veggia ballar e cantar questo schiavo che le rallegrará un poco li spiriti. Noi, galante uomo, entriamo in casa, ché vi darò i restanti danari, e faremo un poco di collazionetta, e berete una volta.

Panfago. Per non parer discortese alla prima con voi, se ben ho desinato poco anzi in nave, verrò volentieri, berrò una volta e due e quattro, se me lo comandarete.

Mangone. Filace, non levar gli occhi da Melitea, lascia che veggia ballar e cantare lo schiavo. Fra tanto tu da’ una scorsa con la vista intorno, ché non passi Pirino o Forca; e passando, falla entrar dentro, nascondila da loro quanto sia possibile. Noi entriamo.

Filace. Entrate sicuro e vegghiate con gli occhi miei.

SCENA III.

Melitea giovane, Filace, Pirino.

Melitea. (O Cieli, sonovi elle bastevoli le passate miserie? e mentre sarò viva, sarò sottoposta a’ crudeli arbitri della fortuna? Appena fui nata che fui privata del padre, della patria e della propria casa, e in strani paesi non è stato scontento o sciagura che non fusse da me provata assai disconvenevole al mio sesso e alla mia giovanezza; e sperando che il tempo partorisse a’ miei mali qualche rimedio, ecco fui fatta rapina di corsari e, sofferti pericoli del mare, son stata venduta per ischiava ad un furfantissimo ruffiano. E pur ciò sarebbe nulla, se amor non avesse voluto mostrar in me l’ultimo essempio della sua possanza, accendendomi d’alti e generosi pensieri in [p. 138 modifica]cosí misero e abietto stato, e alfin costretta a morirmi di fame in prigione. Qual será il fine di tanti affanni, se i mali che s’aspettano e mi minacciano, son piú gravi di quelli che si soffriscono? quando osarò sperar dalla fortuna cosa che per me buona sia?).

Filace. Melitea, Mangone ti dá licenza che ti pigli un poco di spasso con veder cantare e ballar questo schiavo.

Melitea. Altro che balli e canzoni mi stanno nel capo!

Pirino. Dio ti salvi, reina di tutte le belle.

Melitea. Io regina? io bella? O con quanta piú ragione mi aresti chiamata la piú miserabile di quante vivono.

Pirino. Mi comandate che balli un ballo e vi canti una canzona? Rispondetemi.

Melitea. Il dolore è cosí impadronito di me, che sto con l’animo tanto lontano da me quanto ti son vicina col corpo.

Pirino.

Deh! mirami, signora mia,
ascolta la mia canzona.
Perch’è d’altri mia persona,
che pensiate voi che sia?
Siam, siam per via, guallá!

Ditemi, signora, vi piace il mio ballo e la mia canzona?

Melitea. Mirami in fronte, leggi nel soprascritto: come può capir alcuna consolazione nell’anima mia?

Pirino. Conosco, signora, da certi segni del volto che sète molto tribulata d’amore.

Melitea. Poco è conoscer questo, ché l’ardentissimo foco, quasi un lampo, lo porto impresso nel volto.

Pirino. Noi schiavi di Egitto siamo negromanti; e da spiriti folletti che tenemo nelle caraffine indoviniamo quello che volemo.

Melitea. Sí, eh? orsú, indovina chi amo io?

Pirino. Un giovane che si chiama Pi... Piri... Pirino.

Filace. Che ragionate voi di spiriti?

Melitea. Dice che ha uno spirito folletto nella caraffina, che indovina quel che vuole.

Filace. Par che costui negromantizzi; non vorrei che ti facesse entrar qualche spirito in corpo per forza. [p. 139 modifica]

Melitea. Quel spirito che ha nominato, ce lo farei entrar per mia volontá. Ma indevina mò se m’ama.

Pirino. Egli non ha per altro cari gli occhi suoi, che per mirar voi; né per altro il suo core, che per serbare inviolabilmente nella sua piú interna parte la bellezza e i vostri costumi: e si gloria piú del titolo di esser vostro schiavo, che di tutti i reami del mondo. Sète sua, foste sua, né per l’avvenir basterá accidente alcuno a far che non siate sua. Ma ditemi se voi amate lui, e dite il vero, perché subito lo conosco.

Melitea. Io son tanto sua che, per non esser d’altri, voglio piú tosto esser della morte. Dispiacemi solo che, in sí misera fortuna e con tanto mio poco merito, mi sia posta ad amar tanto alto. Ma la costanza del mio amore, l’ostinazione dell’anima e la puritá della mia fede, con la quale sommamente l’osservo e riverisco, parmi che suppliscano all’oltraggio della fortuna, e me ne rendono degna. Ma io dubito che m’ami da scherzo e mi burli da dovero, poiché in tanto tempo che ci amiamo, non ha trovato modo di liberarmi da un vil ruffiano, da un abisso di oscuritá dove sepelita mi trovo.

Pirino. Egli vi ama tanto che, per far libera voi, s’è fatto servo e, per ricomprar voi, s’ha fatto vender per ischiavo e, per rischiarar gli oscuri nuvoli de’ vostri affanni, s’è fatto piú oscuro dell’istessa oscuritá.

Melitea. Io non t’intendo.

Pirino. L’intenderete poi. Ma or vo’ scoprirvi tutte le cose che son passate ne’ vostri amori.

Melitea. Orsú, di’ via.

Pirino. Andando voi a diporto un giorno al Molo, quando il vedeste e foste veduta da lui, gli riempiste gli occhi di tanta meraviglia che non potean saziarsi di mirarvi; perché, mentre si fermavano a contemplar una parte e, come inveschiati da quella, non sapevano dipartirsi, un’altra lo sollecitava e violentava e strascinava a sé, e prima che si fermasse in quest’altra, un’altra se ne offriva, che con altra tanta forza a sé lo tirava; talché vedendosi egli stracco e non potendo mirar tutte, confessò esser vinto e desiava esser tutto occhi per potervi mirar [p. 140 modifica]a pieno. Né pensava altamente che ogni vostro atto pungessi e che ogni vostra parola attossicasse, né che voi portaste la morte nascosta negli occhi; onde senza accorgersene ponto trovò che le spine velocissime erano discese al petto e il veleno nel core, e che non era piú vivo: cosí vi parlò con gli occhi chiedendo pietá, e voi accorgendovi di ciò con un picciol riso gradiste la sua affezione. Vi seguí fin a casa, e nel dispartirsi, nel vostro bel viso restò lo spirito e l’anima sua impressa, e se ne portò la vostra imagine scolpita nel core. Cosí seguendo ad amarvi, come voi v’accorgeste che dagli occhi vostri come da due stelle era girata la vita sua e dalla vostra anima dependeva la sua, non prendendo solazzo delle sue pene e afflizioni, come sogliono alcune vilissime feminelle, ma come vera gentildonna — or rallegrandolo con speranze, or rammorbidendolo con le promesse, or fingendo non accorgervi delle sue pene, or dilatando le promesse, — l’avete trattenuto vivo sin adesso. Onde egli conoscendo che in voi come in proprio albergo albergavano bellezza, onestá, bontá e ogni lodevole costume, vi fe’ libero dono dell’anima e della sua vita. ...

Melitea. Veramente che tutto è vero quanto hai detto.

Pirino. ... Dopo molti giorni, voi dandogli commoditá di parlarvi, vi baciò e baciandovi sentí tanta dolcezza che l’istessa bocca che vi baciò or non lo sapria ridire, e restariano molto a dietro le parole al vero. Gli parve che con quel bacio vi baciasse l’anima stessa; e steste tanto stretti insieme che parea che di duo corpi ne fusse fatto un solo; finalmente, vinto da tanta dolcezza, vi restò tramortito fra le braccia, e voi ne piangeste per dolcezza. ...

Melitea. Confesso tutto esser vero; né altri che egli proprio saprebbe ridirlo.

Pirino. ... Vo’ dir piú innanzi... .

Melitea. Non piú, basta. Ben vi giuro che se abbiam avuto libertá, non passò cosa fra noi che onestissima non sia stata; anzi non mi condussi con lui mai a solo a solo, se prima con giuramento non m’assicurava di poter star con lui come sorella. [p. 141 modifica]

Pirino. ... È vero; né si turbò egli giamai verso voi, se non quando lo richiedevate di simil giuramento, quasi volendolo notare d’infedeltá, avendo egli piú timore d’offendervi che del giuramento, e che non richiedendovi di propria volontá, voi stimavate che lo facesse per il giuramento.

Melitea. Ahi, ahi!

Pirino. Di che suspirate?

Melitea. Della rimembranza de’ passati piaceri. Ma ditemi, poiché tanto sapete, dove si ritrova egli ora?

Pirino. In questa strada.

Melitea. Come in questa strada, che se mi volgo intorno intorno, non veggio altri che te?

Pirino. Ha ragionato ed è stato con voi, come state e ragionate meco; e v’è piú dappresso che non pensate.

Melitea. In qual luogo m’ha ragionato?

Pirino. Dove voi sète e io sono. Ma ditemi, s’egli vi volesse rubare a Mangone, fuggireste con lui da sua casa?

Melitea. Da questa vita ancora.

Pirino. Andareste a casa sua con lui?

Melitea. Per acqua, per fuoco e per dove non è via, con lui; che egli solo è la patria, la casa, lo sposo e mio signore.

Pirino. Or ora?

Melitea. Or ora.

Pirino. Senza temer alcuno accidente?

Melitea. Né la morte istessa — che si può dir piú della morte? — e se ben la morte per altra cagione mi parrebbe amara, per ciò mi sarebbe piú cara della vita.

Pirino. Se ve lo facessi vedere, che pagareste?

Melitea. Vi giuro — non da povera schiava ridotta in sí misero stato dove mi trovo, ma da quella gentildonna che fui, — che riporrei questo beneficio nel fondo del mio core, per pagarlo poi quando potessi con quanto vaglio; che avendo a morir tra poco, morrei contenta.

Pirino. E se lo vedeste, che fareste?

Melitea. Che farei, dici? Me gli attaccherei con le mie braccia al collo con nodi e groppi cosí tenaci, che non timor di [p. 142 modifica]Mangone o suspetto di vita o di qual si voglia strano accidente me lo farebbono lasciar mai; accioché, bisognando morire, morissi nelle sue braccia, e gli consegnerei il suo deposito.

Pirino. Farò che or ora voi lo vedrete.

Melitea. O Dio, che intendo! Ma tu hai fatto un motivo con la bocca, che cosí soleva far egli; e hai parlato con tanta dolcezza e affettuose parole, che par che hai di quel genio che a lui solo fu donato dal Cielo per tiranneggiare e tirare a sé con dolce amorevolezza tutte le persone.

Filace. Su su, finiamola, ché Mangone viene: ché tanti ragionamenti?

Pirino. Se mi promettete non alterarvi di modo che possiate dar sospetto al guardiano, ve lo mostrerò sano e vivo.

Melitea. Non so se potrò far tanta forza a me stessa.

Filace. Parmi che colui che passa colá, sia Pirino. Entrate, entrate; presto, presto, che non vi vegga. Ma non è desso, restate.

Pirino. Bisogna farla, ché scoprendovi sareste rovinata voi e il vostro Pirino.

Melitea. Cosí prometto.

Pirino. Io sono il vostro Pirino!

Melitea. O somma di tutte le mie speranze, io son tutta divenuta di foco, il sangue mi bolle per tutte le vene, e mi riconosco incapace di tanta gioia. O Dio, dammi tanta fortezza che possa nasconder cosí smisurato contento!

Pirino. Ecco ch’è pur vero che m’ho fatto vender per ischiavo per far libera voi.

Melitea. Ma che son io che merito esser riscattata con sí gran prezzo? Ma questo non per mio merito, ma per vostra gentilezza, ché avete riguardo alla vostra propria natura non al mio poco valore. Ma come io potrò riservirvi tanta cortesia, essendo ella infinita e io cosa finita?

Pirino. Io non posso dirvi qui la trappola che abbiamo consertata, ché darei sospetto di voi al guardiano. In camera vi dirò il tutto.

Filace. Melitea, tu entra dentro.

Melitea. Or ora. [p. 143 modifica]

Filace. Ca..., canchero, che m’avesti a far dire una mala parola! Voi donne non vi contentate del giusto mai, sempre inchinate al troppo: se vi si concede un dito, ve ne togliete un palmo. Poco anzi, con gli occhi bassi come se volesse nasconder il volto sotto le ciglia; ma ora lo schiavo l’ha fatta alzar la testa e star di buona voglia.

SCENA IV.

Mangone, Panfago.

Mangone. Potrete far ben libero conto, d’oggi innanzi, che la casa sia piú vostra che mia o almanco commune.

Panfago. Veramente farò cosí, poiché voi altresí mi avete liberamente promesso servirvi della nostra in Raguggia; faremo ragione insieme: noi vi condurremo delli schiavi e voi li venderete, e saranno fra noi le perdite e i guadagni communi.

Mangone. Mi contento d’ogni vostro contento.

Panfago. Ma vo’ che non mi neghiate una grazia.

Mangone. Eccomi all’obbedire.

Panfago. A verno alcune cosette in nave, come frutti della nostra patria, cioè alcuni barilotti di malvagie, bottarghe, provature, formaggi, confetti e simili frascherie; ve ne farò parte: vorrei che le riceveste con quello amore che ve le porgiamo, non avendo riguardo al lor poco valore.

Mangone. Come non le riceverò con buon animo? ne terrò continua memoria della vostra amorevolezza; vo’ darvi alcuni miei schiavi che vi aiutino a portarle.

Panfago. Non accade incomodarvi per ciò: in nave non mancheranno bratti che or ora le porteranno qui.

Mangone. Andate in buona ora; e se non avete quella amorevolezza, in casa mia, che meritate, perdonatemi.

Panfago. Se bene è stata ogni cosa eccellentissima, il miglior è stata la buona volontá. A dio.

Mangone. Non è poco l’aver trovato in costui tanta cortesia; perché tutti gli uomini del dí d’oggi son piú tosto di levante [p. 144 modifica]che di ponente, overo zappe che tirano a sé che badili che buttino ad altri. Mi ha venduto un schiavo per cinquanta scudi, che val piú di cento, come a punto mi è stato chiesto da Filigenio. Mi ho guadagnato ducento scudi senza rischio e senza tormi dinari da mano in un batter d’occhio. Poi, mi torna molto a proposito l’amicizia di costui — egli va rubbando per le costiere di Schiavonia, e rubbane liberi e cristiani e li vende per schiavi: — senza spendere farò gran guadagno, oltre che mi manderá un buon presente, ché i forastieri sono osservatori della parola. Oggi è una giornata molto felice per me. Ma ecco Filigenio; certo vien per lo schiavo. Non me lo caverá di casa se non me lo paga benissimo: conosco che ne ha voglia.

SCENA V.

Filigenio, Mangone.

Filigenio. Mangone, son venuto a trovarti secondo l’appuntamento doppo tre ore; e se non m’hai servito, vengo almeno, ché ti ricordi di me.

Mangone. Sète venuto a tempo: v’ho comprato un schiavo piú meglio assai di quello che m’avete chiesto o che sapete desiderare. È giovane di diciassette o diciotto anni, bello di corpo e piú bello d’animo: ha un bel procedere, di belli ragionamenti, di apparenza assai nobile e allegrissimo, balla e canta graziosamente, e m’ho preso gran spasso con lui.

Filigenio. Poiché tanto lodi la tua mercanzia, è segno che vuoi stravendere. Mi bastava solo che fusse stato giovane e di belle fattezze.

Mangone. Vi dolete dunque che ve l’abbi compro miglior di quello che me l’abbiate chiesto?

Filigenio. Io non mi doglio di quel meglio, ma che tu con questo meglio mi vogli impiccar per la gola e vendermelo soverchio.

Mangone. Non l’ho detto per tale effetto, ma perché mi ricordo e so servir gli amici a’ quali porto affezione. [p. 145 modifica]

Filigenio. Te ne ringrazio: fallo calar qui giú, che lo veggia.

Mangone. Filace, fa’ calar quello schiavo. Vedrete che non v’ho detto bugia: avanzará con la presenza quello che vi ho depinto con le parole. Ma avertite che non vi lascerò un quattrino di trecento scudi, perché val cinquecento, e vo’ che voi ne siate giudice.

Filigenio. Io non ne ho a comprar la bellezza di lui, il bel ragionare, il cantare e il ballare; ma vo’ che sia ben creato, gagliardo e che sappia servire.

Mangone. Eccolo, vedetelo bene, consideratelo; non vi ho chiesto soverchio.

Filigenio. Non è di cattiva apparenza.

SCENA VI.

Melitea travestita, Mangone, Filigenio.

Melitea. Caro signore, che mi comandate?

Mangone. L’aspetto solo non vale un tesoro? vedeste mai schiavo piú bello, di miglior garbo e di piú nobile apparenza? Non si vede in costui quel naso schiacciato, quelle labra grosse rivolte in fuori; sempre col riso su le labra, e per lo volto e per gli occhi fiorisce la sua allegrezza; anzi, quanto piú lo miri piú ti piace mirarlo: or se fusse bianco, che si potrebbe mirar cosa piú bella? e ti giuro che mi par ora piú bello che quando lo comprai poco anzi.

Filigenio. Hai ragione, è vero quanto dici.

Mangone. Avea fatto disegno, Amor mio, servirmi di te; ma poiché questo grand’uomo ti vuol comprare e so che ti fará carezze, ho stimato che sia meglio per te venderti a lui. Dimmi, lo servirai tu volentieri?

Melitea. Perché mi diceste prima che aveva a servir voi, mi era disposto servirvi con tutto l’animo. Ma poiché vi par meglio vendermi a questo gentiluomo, a me par ancor meglio, poiché quello che piace a voi, piace ancor a me. Le volontá de’ padroni son legge de’ servi: mi contento cosí ubbidirvi in ciò, come era disposto servirvi in ogni altra cosa. [p. 146 modifica]

Mangone. Non lo servirai molto tempo, perché ti fará libero presto.

Melitea. L’aspetto suo venerando mi mostra che i suoi costumi sieno pieni di dignitá e di cortesia; poi, vedendo quanto i miei servigi saranno amorevoli e pieni di affezione, non dubito di non esser ben trattato da lui e della mia libertá.

Mangone. Mirate che risposte argute. Di grazia, dimandateli alcuna cosa.

Filigenio. Quale è il vostro nome?

Melitea. Amore: ché se ben la natura mi fe’ nascer libero, amor mi fa viver schiavo, godendo di questa servitú cara e dolce piú d’ogni libertá: avendo il corpo schiavo, arò sempre l’animo libero. Servirò voi e il vostro figlio con grande amore; e se voi mi compraste con prezzo d’oro, a lui m’ho reso schiavo con prezzo di amore: e certo che riconosciuto che sará il mio amore, sarò degno di libertá.

Mangone. Il nome val ogni dinaro: sará certo nato nobile nel suo paese, perché ancora nelle miserie spira la sua nobiltá.

Filigenio. Di che paese sei?

Melitea. Di Pirinaica.

Filigenio. Di che cittá?

Melitea. Amorina.

Filigenio. Dove sono questi paesi?

Melitea. Nella Morea.

Filigenio. Come stai?

Melitea. Come posso, poiché non posso star come vorrei.

Filigenio. Come sopporti la servitú?

Melitea. Con animo assai libero e franco, per sentir manco travaglio; perché colui che serve con animo servile, patisce due servitú, e del corpo e dell’animo.

Filigenio. Mi pensava aver comprato un schiavo e ho comprato un filosofo.

Mangone. Il ragionar di costui non vale un regno?

Filigenio. Quanto piú lo miro e ascolto ragionare, piú mi piace. Su, quanto ne domandi?

Mangone. Quanto volete voi darmi? [p. 147 modifica]

Filigenio. A te sta il dimandar, a me il rispondere.

Mangone. Trecento scudi.

Filigenio. È troppo.

Mangone. Ducento.

Filigenio. È molto.

Mangone. Centocinquanta.

Filigenio. È caro.

Mangone. Di questo che vi dico ora, non ne torrò un quattrino — ché farei torto a me stesso in dimandarne meno, e voi a darmegli: — cento scudi.

Filigenio. Ed io non vo’ far torto a te che ne dimandi il giusto, né a me che lo conosco, né al merito del schiavo. Eccoti cinquanta scudi: con l’arra che avesti prima, giongono al prezzo che m’hai chiesto.

Mangone. O che allegro cuore! or vadasi ad appiccare chi dice che si trova cosa che allegri il cuore piú dell’oro.

Filigenio. Amor, andiamo a casa.

Melitea. Vi seguo con gran desiderio, né veggio l’ora di giungere.

Filigenio. Mangone, a dio.

Mangone. In buon’ora.

SCENA VII.

Panfago, Mangone, Filace.

Panfago. Padron mio caro, vi rechiamo alcune coselline; se ben poche, l’animo è grande e l’affezione.

Mangone. Queste son di soverchio assai; m’avete qui condotto meza Raguggia: mi bastavano due salcicciotti, un prosciutto per segno di amorevolezza. Filace, conduci cotesti giovani dentro, discaricagli e dágli alcuna ricreazione: ponigli assai robbe e vino innanzi e lasciagli mangiare a lor piacere.

Panfago. Tutto è soverchio, amico caro: basta che bevano una volta per uno. Speditevi tosto.

Mangone. Mentre costoro si ricreano, noi fra tanto ragionaremo delle cose del mondo. [p. 148 modifica]

Panfago. A vostro piacere.

Mangone. Ditemi, di grazia, il nome del padron vostro.

Panfago. Il suo nome è Rastello Fallatutti di Monteladrone.

Mangone. Il vostro nome, accioché possa servirvi.

Panfago. Rampicone di Maltivegna.

Mangone. Per quanto tempo il vostro misser Rastello Fallatutti si fermará in Napoli?

Panfago. Mentre dará spaccio alla sua mercanzia. Verrá a voi al tardi o al piú domani, tratterá su questo negozio e, liberato dal peso, tornará quanto prima a Raguggia.

Mangone. Da dove vengono questi schiavi in Raguggia?

Panfago. Da Segna in Raguggia, e d’indi li portano in diversi paesi.

Mangone. Quanti ne ha portati per vendergli?

Panfago. Da quaranta in cinquanta, e giá li voleva portare in Ispagna; ma per aver incontrato per il camino certe fuste le quali facevano l’amore con la nostra nave, l’è paruto piú sicuro fermarsi qui in Napoli, se forse li potesse qui smaltire.

Mangone. Filace, vien qui fuori.

Filace. Eccomi.

Mangone. Hai dato da far collazione a quei giovani?

Filace. Sí, signore; e omai se l’han divorata e menano le mani assai valorosamente.

Panfago. Son usati a menarle su le funi a’ servigi della nave.

Filace. Eccoli che vengono fuori.

Panfago. Avviatevi innanzi alla nave, sgombrate tosto: che fate? non vo’ che vegnate meco, ch’io verrò appresso.

Mangone. Vi prego a ricordarvi che vi son servo, e raccommandatemi a misser Rastello Fallatutti di Monteladrone.

Panfago. Egli vi si raccommanda di tutto cuore. A dio, Mangone.

Mangone. A dio, Rampicone di Maltivegna.

Panfago. A te è giá venuto il male, e ti ricorderai spesso del mio nome! Andrò a spogliarmi, e a casa di Alessandro a diluviare.