La donna sola/Atto V

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Atto V

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Atto IV Nota storica

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ATTO QUINTO.

SCENA PRIMA.

Lumi accesi.

Filippino e Gamba.

Filippino. Oh Gamba, ho da contartene una che fresca, fresca.

Senti fin dove arriva la malizia donnesca!
Col cavalier volendo sfuggir un certo impegno,
Perch’io l’interrompessi, era il tabacco il segno.
Gamba. Brava! queste lezioni e da chi mai le piglia?
Filippino. Sia detto a lode sua, nessun non la consiglia.
È una testa bizzarra, che opera a suo talento;
Ma sola, ne sa più che non ne sanno in cento.
Gamba. Certo pensar conviene ch’ella ne sappia assai.
Che il mio padron tornasse, non lo credea giammai.
C’è il mele in questa casa.

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Filippino.   Il mel? che dici tu?

C’è il vischio, e se si attaccano, non si distaccan più.
Gamba. I merlotti che vengono, ci lasciano le piume?
Filippino. Questo poi no, per dirla, la padrona ha il costume
Al contrario di quello che tante soglion fare,
Invece di mangiarne, di farsene mangiare.
Aiutami le sedie a preparar.
Gamba.   Perchè?
Filippino. Per la conversazione.
Gamba.   In casa ora chi c’è?
Filippino. I soliti. M’ha detto che qui verranno or ora.
Aiutami.
Gamba.   Son pronto.
Filippino.   Eccola la signora.
(dispongono sette sedie)

SCENA II.

Donna Berenice, don Pippo e detti.

Berenice. Il caffè si prepari, e il carrozzier sia lesto

Per attaccar due legni.
Filippino.   Benissimo.
Berenice.   Via presto.
Filippino. (Senti, Gamba? li vuol con essa1 tutti sei).
(piano a Gamba)
Berenice. Ora di che si parla?
Filippino.   Diciam bene di di lei.
(parte con Gamba)

SCENA III.

Donna Berenice e don Pippo.

Pippo. Ma quando lo leggiamo questo libro sì bello?

Berenice. Il Libro del perchè, don Pippo, è nel cervello.
Ciascuno lo possede, se ha il lucido perfetto;
Nessuno lo sa leggere, se scarso ha l’intelletto.

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Il perchè principale che voi studiar dovete,

È quello, compatitemi, per cui ridicol siete.
Perchè un uomo del mondo vuol fare il letterato,
Sapendo appena leggere, e senza aver studiato?
Spropositi si dicono che fanno inorridire.
E voi, caro don Pippo, (lasciatevelo dire)
Voi dite all’impazzata quel che vi viene in bocca
Cosa non proponete che non sia falsa e sciocca.
Vi parlo con amore, qual foste un mio germano;
Spero lo aggradirete, e non lo spero invano.
Quando che non si sa, non si favella audace;
Insegna la prudenza, se non si sa, si tace.
E l’uomo che tacendo si mostra contenuto,
Spesse volte sapiente nei circoli è creduto.
Spesso da me venite, ragioneremo insieme,
Procurerò insegnarvi quel che saper vi preme.
Vo’ che facciate al mondo una miglior figura,
Che abbandoniate affatto ogni caricatura.
E spero in poco tempo, se abbaderete a me,
Che in voi ritroverete il Libro del perchè.
Pippo. Sono restato estatico. La stento a mandar giù.
Berenice. E questo è uno sproposito.
Pippo.   Non parlerò mai più.
Berenice. Anzi vo’ che parliate, ma con debite forme.
Andate don Agapito a risvegliar, che dorme.
Poscia con lui tornate; ho da parlar sul serio,
E di essere ascoltata da tutti ho desiderio.
Pippo. Anderò a risvegliare... si può dire amicorum?
Berenice. Ecco un altro sproposito.
Pippo.   Tacerò in saeculorum. (parte)

SCENA IV.

Donna Berenice.

Bastami ch’ei capisca per or, ch’è un ignorante;

I pensier, le parole regolerà in avante.

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Col tempo e coll’ingegno averò, lo protesto,

Una conversazione di gente di buon sesto.
Ecco don Filiberto. Questi mi dà più intrico,
Ma vo’, senza sposarmi, ch’egli mi resti amico.

SCENA V.

Don Filiberto e la suddetta.

Filiberto. Eccomi un’altra volta a importunar madama.

Berenice. Voi qui arrivate in tempo che di parlarvi ho brama.
Filiberto. Di dar fine agli arcani cosa mi sembra onesta.
Berenice. Di terminar gli arcani ora opportuna è questa.
Filiberto. Il ciel sia ringraziato; son lieto, e mi consolo.
Vi spiegherete alfine.
Berenice.   Ma non però a voi solo.
Filiberto. Altri volete a parte?
Berenice.   Sì, della mia intenzione
Vo’ in testimonio unita la mia conversazione.
Filiberto. Questo è un torto novello.
Berenice.   Signor, voi v’ingannate.
In pubblico parlare perchè vi vergognate?
Filiberto. Arrossir non paventa chi ha massime d’onore.
Berenice. Dunque il celarsi al mondo è un manifesto errore.
Filiberto. Mettervi in soggezione potria qualche indiscreto.
Berenice. Saprò parlare in pubblico, qual parlerei in segreto.
Filiberto. Sì, donna Berenice, prevedo il mio destino.
Berenice. Che prevedete?
Filiberto.   Udite, se appunto io l’indovino.
Scegliere voi volete lo sposo in faccia mia,
E far sì ch’io lo sappia degli altri in compagnia,
Perchè de’ miei trasporti a ragion dubitate.
Berenice. E voi, così pensando, da cavalier pensate?
Se avessi ad altro oggetto diretti i pensier miei,
In pubblico a un insulto, signor, non vi esporrei.

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E se pensassi ad altri di consacrare il cuore,

Nè in compagnia, nè sola mi fareste timore.
Son libera, son donna; altrui non mi ho venduto;
Con onestà con tutti finor mi ho contenuto.
Voi vantar non potete da me un impegno espresso;
E son, quale voi siete, tutti nel caso istesso.
Filiberto. Dunque...
Berenice.   Dunque attendete ch’io spieghi i miei pensieri
Libera, alla presenza di tutti i cavalieri.
Vedrò in confronto almeno chi avrà per me nel petto
Non dirò amor soltanto, ma discrezion, rispetto.
Filiberto. Nessun mi vince in questo.
Berenice.   Bene, or or si vedrà.
Filiberto. Ne dubitate ancora? ah crudeli...
Berenice.   Chi è di là? (chiamando)

SCENA VI.

Filippino e detti.

Filippino. Vuole il caffè?

Berenice.   Che vengano qui tutti i cavalieri.
Filippino. Sì signora. (parte)
Berenice.   Saprete or ora i miei pensieri.
Filiberto. Per me son tristi, o buoni?
Berenice.   Saran qual li volete.

SCENA VII.

Don Agapito, don Pippo e detti.

Agapito. Quanto averò dormito?

Berenice.   Cinque o sei ore appena.
Agapito. Eh, non è poi gran cosa. Preparata è la cena?
Berenice. Don Agapito mio, vi stimo e vi ho rispetto,
Ma vorrei moderaste sì sordido difetto.
Altro non fate al mondo che mangiar, che dormire.

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Agapito. E che ho da far, signora?

Berenice.   Vi avete a divertire.
Alla commedia uniti vo’ che si vada.
Agapito.   E poi?
Berenice. Qui ceneremo insieme.
Agapito.   Bene, sarò con voi.
Berenice. La vita che or menate, di gloria non vi fu.
Cosa dite, don Pippo?
Pippo.   Oh, io non parlo più.
Filiberto. Pensate alla commedia? (a donna (Berenice)
Berenice.   Voi venir non volete?
Filiberto. Altro mi passa in mente.
Berenice.   Sì, signor, ci verrete.

SCENA ULTIMA.

Don Claudio, don Lucio, don Isidoro e suddetti.

Berenice. Su via, don Isidoro, sedete, e siate fido

Alla parola vostra.
Isidoro.   Eccomi qui, non rido.
(siede nell’ultimo luogo alla sinistra)
Berenice. Don Pippo in mezzo a loro.
Pippo.   La virtù sta nel medio.
Isidoro. (Ride forte.)
Berenice. Bravo, don Isidoro.
Isidoro.   Oh, qui non vi è rimedio.
Se rido di don Pippo, conviene aver pazienza:
A ridere di lui mi deste la licenza.
Berenice. In pubblico non voglio.
Isidoro.   Bene, non riderò.
Berenice. Voi non dite spropositi.
Pippo.   Bene, non parlerò.
Berenice. Finalmente, signori, suonata ho la raccolta,
Per essere ascoltata da tutti in una volta.

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Quel di che vo’ parlarvi, ciascun forse interessa,

Che ci fa l’amicizia tutti una cosa istessa.
Noi siamo un picciol corpo in union perfetta,
Un’adunanza stabile, una repubblichetta.
E solo l’uguaglianza, solo l’amor fraterno
Può mantenere in noi la pace ed il governo,
Io son per grazia vostra, per amor vostro io sono
Quella che rappresenta in questo centro il trono:
E sarò sempre ogni ora sofferta con pazienza,
Finche userò per tutti amor d’indifferenza.
Evvi talun che aspira con parziale orgoglio,
A fronte dei compagni di dominare il soglio;
Onde tener non solo la libertade oppressa
Dei cavalier suoi pari, ma della dama istessa.
Sta in mia man l’accordare del bel disegno i frutti,
Ma per piacere ad uno, son sconoscente a tutti.
Onde, pria di risolvere, l’altrui consiglio aspetto,
E ai consiglieri innanzi le mie ragion premetto.
L’un che di voi fia scelto, l’odio sarà d’altrui,
E quel che in altri sdegna, ha da sdegnare in lui.
Finalmente un possesso chi d’acquistar procura,
Pensi, pria d’acquistarlo, quanto si gode e dura.
E per brievi momenti di un bene immaginato,
Perdere non conviene un ben che si è provato.
Se uno di voi mi sposa (parliam più chiaramente)
Spera volermi seco legar più strettamente.
Che praticar non abbia, e viver da eremita?
L’uso, dacchè son vedova, perdei di cotal vita.
E se soffrir s’impegna ogni grazioso invito,
Quel che servente abborre, soffrirà poi marito?
Oh, se sarai mia sposa, sento talun che dice,
Ti avrò meco nell’ore che averti ora non lice.
Rispondo in generale al cavaliere onesto,
Che l’ore sospirate finiscono assai presto.
Ecco quel ben che dura: un’amicizia vera,

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Una conversazione saggia, onesta, sincera,

In cui nell’eguaglianza trova il suo dritto ognuno,
Tutti comandar possono, e non comanda alcuno.
Torto alfin non si reca a alcun dei pretendenti,
Se tutti son padroni, e tutti2 dipendenti.
Uno all’altro non rende invidia o gelosia,
Se ognun può dire, io regno, niun può dire, è mia.
Prevedo un altro obbietto, poi l’orazion finisco.
So che volete dirmi, vi vedo e vi capisco.
Sento che tontonate: se mi venisse offerto
Il regno in altro loco dispotico e più certo,
Ho da lasciar di reggere una provincia solo,
Per obbedir cogli altri e comandar di volo?
No, cari miei, sentite quanto discreta io sono.
La monarchia accettate, vi assolvo e vi perdono.
Mi spiegherò: di nozze chi vuol nutrir la brama,
Non deve alla consorte prescegliere la dama;
Chiedo sol che, fintanto che liberi vivete,
Restiate nel governo in compagnia qual siete.
Ecco i disegni miei, eccovi il cuor svelato,
Per me vo’ viver certo nel libero mio stato.
Al cuor di chi mi ascolta, non prego e non comando.
Chi si contenta, approvi; chi non approva, al bando.
Isidoro. Dopo il lungo silenzio rider si può, signora?
Berenice. Sospendete le risa, che non è tempo ancora.
Agapito. Io sarò dunque il primo, signori, ad aprir bocca.
Contento della parte son io, che qui mi tocca.
In questa unione nostra, in questo nostro stato,
Del pranzo e della cena mi eleggo il magistrato.
Berenice. Però discretamente.
Agapito.   Sì, più dell’ordinario.
Pippo. Anch’io son contentissimo. Sarò il bibliotecario.
Berenice. A leggere imparate, e lo sarete poi.
Pippo. Mi lascierò correggere e regolar da voi.

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Isidoro. Al nobile progetto anch’io pronto annuisco.

Promotor delle feste, signori, io mi esibisco.
Lucio. Per me un riguardo solo faceami ardere in seno3
La voglia di consorte: per non esser di meno.
Se tutti siamo eguali, se abbiamo egual destino,
Sì, mi contento d’essere anch’io concittadino.
Berenice. Voi che dite, don Claudio?
Claudio.   Finor fui sofferente,
Sperando farmi un merito nel cuor riconoscente.
Ora il mio disinganno mi fa restar scontento,
Ma del rispetto usatovi per questo io non mi pento.
Voi meritate tutto, vi servirò qual lice.
Basta che, s’io mi dolgo, altri non sia felice.
Berenice. A voi, don Filiberto.
Filiberto.   L’ultimo adunque io sono.
Berenice. All’ultimo per uso sempre si lascia il buono.
Filiberto. Ecco le mie speranze dove a finir sen vanno.
Berenice. Io non ho colpa in questo; vostro fu sol l’inganno.
Filiberto. Non diceste d’amarmi?
Berenice.   Vi amo cogli altri unito.
Filiberto. Questa è la stima, ingrata?
Berenice.   Non vi ho alcun preferito.
Filiberto. Se d’accordar ricuso, di me che destinate?
Berenice. Ve lo dirò con pena; ma deggio dirvi: andate.
Filiberto. No, crudel, non vi lascio. Deggio servirvi ancora;
E voglia il ciel ch’io possa servirvi infin ch’io mora.
La dubbietà rendevami ardente al sommo eccesso;
Ora il mio disinganno m’ha vinto, e m’ha depresso.
Giuro a voi, mia sovrana, giuro ai compagni miei,
Più non parlar di nozze; mentir non ardirei.
Quieta vivete pure, in pubblico vel dico,
Son cavalier d’onore, sono di tutti amico.
Berenice. Ora mi siete caro, or mi piacete a segno,
Che di chi sente in faccia... ma no, stiasi all’impegno.

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Tutti eguali, signori. Il mondo che mi osserva,

Tutti amici vi vegga, io vostra amica e serva.
Tutti insieme al teatro andiamo in società.
So che la Donna sola si recita colà:
Difficile commedia, e se averà incontrato,
Lieti saranno i comici, e l’autor fortunato. (parte)

Fine della Commedia.

Note

  1. Zatta: con seco.
  2. Ed. Zatta: son tutti.
  3. Ed. Zatta: ardire in seno.