La donna stravagante/Atto I

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Atto I

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Personaggi Atto II
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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Camera di don Riccardo con tavolino, sedie e lumi.

Don Riccardo sedendo al tavolino, e Cecchino.

Riccardo. Ehi!

Cecchino.   Signore.
Riccardo.   Dal cielo sparita è ancor l’aurora?
Cecchino. No, mio signore, il sole non è ben sorto ancora.
Riccardo. Che hai, che sonnacchioso mi sembri oltre il costume?
T’avvezzai da bambino a sorgere col lume;
Ora che coll’etade in te la ragion cresce,
Lasciar le oziose piume sollecito t’incresce?
Figlio, che con tal nome, quantunque servo, io chiamo,
Te giovane discreto, che hommi educato ed amo,
Questa sollecitudine, che coll’esempio insegno,
Rende più pronti gli uomini all’opre dell’ingegno;

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E se cangiare aspiri in meglio un dì la sorte,

Odia il soverchio sonno, ch’è fratel della morte.
Cecchino. Con voi di buon mattino sorger, signor, non peno;
Bastami che la notte possa dormire almeno.
Riccardo. E chi è, che t’impedisca la notte il tuo riposo?
Cecchino. Ve lo direi, signore, ma favellar non oso.
Riccardo. Sento rumore in camera di donna Livia. È desta?
Cecchino. Oh sì, signor; passeggia.
Riccardo.   Che stravaganza è questa?
Ella che il mezzogiorno udir nel letto suole,
Perchè sorger stamane prima che spunti il sole?
Cecchino. Dirò, signor padrone, la padroncina è alzata.
Perchè (glielo confido) non s’è ancor coricata.
Riccardo. Come! la notte intera passò senza riposo?
Cecchino. Pur troppo, e son per questo lasso anch’io sonnacchioso.
Riccardo. Parla; a me si può dirlo, a me deono esser note
Le cure che molestano il cuor della nipote.
Cecchino. Ma se lo sa ch’io il dica, misero me! Provate
Più volte ho sul mio viso le mani indiavolate.
Riccardo. Non ardirà toccarti, se sei da me protetto.
Cecchino. Voi la terrete in freno?
Riccardo.   Parla; te lo prometto.
Cecchino. Nasca quel che sa nascere, dover parmi, e ragione,
Ch’io parli, ed obbedisca sì docile padrone.
Sono due notti intere, che la padrona mia
Non dorme, e vuol ch’io vegli con essa in compagnia.
Riccardo. Per qual ragion due notti star donna Livia alzata?
Cecchino. Perchè?....
Riccardo.   Franco ragiona.
Cecchino.   Meschina! è innamorata.
Riccardo. Di chi?
Cecchino.   Di don Rinaldo.
Riccardo.   M’è noto il cavaliere.
Ha sentimenti onesti; conosce il suo dovere.
Perchè mai di soppiatto venir di notte oscura,

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Per favellar con Livia d’intorno a queste mura?

Avrebbelo introdotto? Ah, i miei sospetti accresco.
Cecchino. Non signor, lo ha lasciato tutta la notte al fresco.
Riccardo. Come fu? perchè venne? non mi tener celato...
Cecchino. Non parlerò, signore, se vi mostrate irato.
Riccardo. Calmo gli sdegni miei. Quel che tu sai, mi narra.
Cecchino. Sentite l’istoriella, che sembrami bizzarra;
E dite fra voi stesso, se dar puossi un’amante
Che sia più capricciosa, che sia più stravagante.
Sembra per don Rinaldo che amor la tenga in pena;
Quando da noi sen viene, guardalo in viso appena.
Se ragionar con altra lo vede, entra in sospetto;
Con altri in faccia sua fa i vezzi a suo dispetto.
Se vien, par che lo fugga; quando non vien, l’invita;
E son parecchi mesi che suol far questa vita.
Mandò l’altr’ieri a dirgli, che a lei fosse venuto
Sotto il balcon di notte; venirvi ei fu veduto.
Lo lasciò prender l’aria tutta la notte intera;
Dissegli poi sull’alba: Addio; domani a sera.
Chiuse la sua finestra, ed ei mortificato
Partì, ma la seguente notte è a lei ritornato.
Fece la scena istessa, godendo i suoi deliri,
Di lui prendendo a gioco le smanie ed i sospiri.
Ma stanco il Cavaliere, ed agghiacciato morto
Partissi, alto gridando: non merto un simil torto.
Ella aprì le finestre, lo vide a lei distante,
E dissegli: indiscreto, più non venirmi innante.
Tornò l’appassionato, e a lui la crudelaccia
Per ricompensa allora chiuse il balcone in faccia.
Irata furibonda a passeggiar si pose,
Pianse, sfogò lo sdegno, disse orribili cose;
In compagnia mi volle de’ suoi deliri ardenti,
Presemi la berretta, me la stracciò coi denti,
Mi diede uno sgrugnone, cadei sovra uno specchio;
Dissemi maladetto, e mi tirò un orecchio.

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Riccardo. Ah! donna Livia è tale, che da pensar mi diede

Fin da quel dì ch’io fui del di lui padre erede.
Tolsemi il buon germano giovine ancor la morte,
E il fren di due nipoti diedemi in man la sorte.
L’una è docile, umana, ch’è la minor; ma strana.
Ma fantastica è troppo l’altra maggior germana.
Frattanto che sfogavasi quel labbro furibondo.
Che facea donna Rosa?
Cecchino.   Vengo al tomo secondo.
La giovane allo strepito si desta immantinente;
S’alza, e al balcone affacciasi, dove il rumor si sente.
La trova donna Livia, la fa partir sdegnosa,
Entrandole nel capo nuova pazzia gelosa.
Crede con fondamento, cui sostener non vale,
Aver nella germana scoperta una rivale.
Scommetterei la testa, che falso è il suo sospetto.
Riccardo. Deh, non le guasti almeno suora sì strana il petto!
E tu, se al mal esempio presente esser ti vuole,
A condannarlo apprendi, non a seguir sue fole.
Venga a me donna Livia. Vo’ ragionar con lei.
Cecchino. Sentirmi l’altra orecchia stirar io non vorrei.
Riccardo. Non ardirà di farlo. Vanne, obbedisci.
Cecchino.   Andrò.
S ella vorrà toccarmi, son lesto, fuggirò.
Vuol che si spenga il lume? il sol coi raggi suoi
A illuminar principia.
Riccardo.   Sì, spegnere lo puoi.
Cecchino. Andrò, se mi è permesso, a riposare un poco.
Riccardo. È giusto.
Cecchino.   Ma una visita prima vo’ fare al cuoco.
Riccardo. Sappia pria donna Livia da te, ch’io qui l’aspetto.
Cecchino. E s’io la ritrovassi cacciatasi nel letto?
Riccardo. A quest’ora?
Cecchino.   A quest’ora. Ne ha fatto di più belle.
Quante volte si è alzata, che ancor lucean le stelle!

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Quant’altre a mezzo il giorno, ovver di prima sera,

Per irsene a dormire chiamò la cameriera!
Ha una testa, che certo può dirsi originale;
Fa quel che far le piace, non per far bene o male.
Varian di giorno in giorno i suoi pensier più strani;
Suole quel che oggi ha fatto, disapprovar domani.
Se tante e tante donne son tocche dall’insania,
Questa delle fantastiche può dirsi capitania. (parte)

SCENA II.

Don Riccardo solo.

Io, che per mia fortuna nacqui cadetto al mondo,

E ricusai mai sempre della famiglia il pondo;
Ch’ebbi le cure in odio, sol della pace amico,
Dovrò soffrir per donna sì laborioso intrico?
Staccarmela gli è duopo sollecito dal fianco.
Le stravaganze sue di tollerar son stanco.
Conosco il suo costume, m’è noto il suo talento;
Procurerò di vincerla conoscere il momento.
Che non vi è donna alfine, che di resister valga,
Quando con arte e tempo nel debole si assalga.

SCENA III.

I Livia ed il suddetto.

Livia. Signor, voi mi volete?

Riccardo.   Nipote, io vi ho cercata.
Livia. Come mai a quest’ora pensar ch’io fossi alzata?
Riccardo. Nella vicina stanza qualche rumore intesi.
Del calpestio ragione alla famiglia io chiesi:
Dissermi donna Livia sorger di letto or ora.
Livia. Disservi mal, signore, letto non vidi ancora.
Riccardo. Per qual ragion?

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Livia.   Ne ho cento delle ragioni in seno,

Che tolgonmi al riposo.
Riccardo.   Ditene alcuna almeno.
Svelatemi i motivi ch’esser vi fanno inquieta.
Livia. Signor... meglio è ch’io taccia; lasciatemi star cheta.
Riccardo. Rimedio al mal non reco, s’emmi la fonte oscura.
Livia. Soffra tacendo il male, chi rimediar non cura.
Riccardo. Ma se fanciulla incauta nutre l’occulto affanno,
Chi la governa e regge, vuol evitarne il danno.
Livia. Diffìcile è svelare a forza un mio segreto.
Riccardo. Forza non vel richiede, amor giusto e discreto.
Livia. Nè amor con sue lusinghe, nè forza con orgoglio,
Farmi parlar potranno, quando parlar non voglio.
Riccardo. Ostinata?
Livia.   Ostinata.
Riccardo.   Dunque, se tal voi siete.
Uditemi, nipote, pensate e risolvete.
Della paterna cura, ch’ebbi fìnor per voi,
Son stanco, e vuol ragione usar i dritti suoi.
Morte crudel vi tolse e padre e genitrice;
Nubili in casa meco tener più non mi lice.
Da voi, dalla germana dee eleggersi un partito:
O chiedasi un ritiro, o scelgasi un marito.
Livia. Tempo e consiglio esige l’elezion di stato. (siede)
Riccardo. (Il momento opportuno l’ho cerco, e l’ho trovato), (siede)
Quanto alla scelta vostra tempo accordar si deve?
Livia. Ci penserò, signore.
Riccardo.   Ma che il pensar sia breve.
Livia. Breve sarà: capace son, se mi vien talento,
(alzando un poco la voce)
Per togliervi d’affanno, risolver sul momento.
Solo saper vorrei, nè la domanda è strana,
Se scelto sia lo stato ancor da mia germana.
Riccardo. Seco vegliar solete, seco posarvi in letto,
Quello che altrui non disse, forse a voi l’avrà detto.

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Livia. Meco parlar non usa; mi asconde i suoi pensieri:

So che di sposo il nome udir suol volentieri.
E dallo zio, che l’ama più assai della maggiore,
Certa son, che saprassi di donna Rosa il cuore.
Riccardo. Giuro sull’onor mio, credetelo, figliuola,
Su ciò con donna Rosa non feci ancor parola.
Ella da me non seppe qual pensi ad ambedue,
Nè penetrar mi fece finor le brame sue.
Son cavalier, son giusto; son padre, e non comporto
Che alla maggior si faccia dalla minore un torto.
Voi per la prima io cerco; a voi dico eleggete.
Tempo vi do al consiglio; pensate, e risolvete.
Livia. Signor, vi chiedo in grazia, vi chiedo in cortesia,
Fate che sia lo stato scelto dall’altra in pria.
Riccardo. Questo non sarà mai.
Livia.   Non sarà mai? lo vedo1,
La grazia a me si nega, sol perchè ve la chiedo.
Ma se di donna Rosa non si saprà la sorte,
Mutola sarò sempre anch’io fino alla morte.
Riccardo. Bene. Vo’ soddisfarvi. Elà.
Servitore.   Signor.
Riccardo.   Se è alzata
Donna Rosa, qui venga.
Servitore.   Le farò l’imbasciata, (parte)
Riccardo. Tutto da me si faccia, quel che vi giova e piace:
Desio di contentarvi, desio la vostra pace.
Farò che la germana vi dia soddisfazione,
Ma puossi di tal brama sapersi la ragione?
Perchè dall’altra in prima voler lo stato eletto?
Livia. (Che a don Rinaldo aspiri la prosontuosa aspetto.) (da sè)
Riccardo. In tempo di valervi siete ancor di mia stima.
Livia. No, no, ch’ella si lasci eleggere la prima.
Riccardo. Una ragion, per dirla, di tal cession non vedo.
Livia. A lei per mio piacere la preferenza io cedo.

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Servitore. Signor, di donna Rosa chiamata ho la servente,

Termina di vestirsi, e viene immantinente.
Riccardo. Si aspetterà; frattanto, cara nipote amata,
Meco restar potete a ber la cioccolata.
Livia. Farò come vi piace.
Servitore.   Un cavaliere ha brama
D’esser con lei, signore.
Riccardo.   E chi è?
Livia.   Come si chiama?
Servitore. Don Rinaldo.
Riccardo.   È padrone.
Livia.   Fermati. (s’alza agitata)
Riccardo.   (Livia freme). (da sè)
Con noi la cioccolata ber non volete insieme?
Livia. Lasciatemi partire, conosco il mio dovere.
Restar quivi non deggio, presente un cavaliere.
Riccardo. Meco restar vi lice. Di’ ch’egli venga. (al servitore)
Livia.   Aspetta.
Riccardo. Piacciavi un sol momento di trattenervi.
Livia.   Ho fretta.
Riccardo. Ecco, vien la germana.
Livia.   Signore, inconveniente
Farmi ch’ella pur trovisi col Cavalier presente.
Potreste in altra stanza riceverlo da voi.
Spicciate don Rinaldo, vi aspetterem qui noi.
Riccardo. Sì presto, donna Livia, la fretta vi è passata?
(Non sa quel che si voglia la donna innamorata.) (da sè)
Livia. Partirò, se vi aggrada. (sdegnata)
Riccardo.   No, no, frenate il caldo.
Fa che nel gabinetto mi aspetti don Rinaldo.
(al servitore che parte)
Colla germana intanto, se ciò vi cal, restate;
A far ch’ella si spieghi, voi stessa incominciate.
Ma d’una cosa sola voglio avvertirvi in pria:
Non fate che si stanchi la sofferenza mia.

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Voi di pensier solete cangiar spesso di volo;

Io soglio per costume nutrir un pensier solo.
Dunque di voi ciascuna mi spieghi i desir suoi,
O saprò quel ch’io penso risolvere di voi.
Padre sarò d’entrambe, s’entrambe figlie sono.
A chi schernirmi ardisce, nipote, io non perdono. (parte)

SCENA IV.

Donna Livia, poi donna Rosa.

Livia. Crede colle minaccie d’intimorirmi, il veggio;

Ma chi obbligarmi intende col minacciar, fa peggio.
Vita non diemmi alfine, quei che così mi parla;
Quando una cosa ho in mente, ho cuor da superarla.
E perchè in me s’accresca nel vincerla l’orgoglio.
Basta che mi si dica: non s’ha da far, non voglio.
Rosa. Dite, dov’è lo zio che a sè chiamar mi fece?
Livia. Di lui, che vi ha chiamata, me qui trovate in vece.
Rosa. Con voi star non isdegno, che vi amo e vi rispetto:
Ma se lo zio mi vuole...
Livia.   Quivi ancor io l’aspetto.
Rosa. Deggio aspettar io pure?
Livia.   Sì, se ciò non v’incresce.
Rosa. Far quel ch’ei mi comanda, dolcissimo mi riesce.
È un cavalier sì degno, sì docile, amoroso.
Che torto a lui farebbe un cuor men rispettoso.
Livia. Di quell’amor ch’ei vanta, avete voi gran prove?
Rosa. Le prove del suo affetto per noi non riescon nuove.
Orfane in età nubile di padre e genitrice,
Di più che può pretendersi, di più che sperar lice?
Ei ci ha raccolte seco, ricuperò l’entrate,
Dal prodigo germano vendute o ipotecate;
D’un trattamento illustre non ci privò per questo.
Tal che a più ricche figlie grato sarebbe e onesto.
Solito a viver solo nella sua pace antica,
Per noi sfuggir non seppe le cure e la fatica.

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Cosa da noi non bramasi, ch’ei non conceda appieno;

Sempre con noi piacevole, sempre con noi sereno.
Chi mai non amerebbe sì amabile signore?
Chi può negar, germana, chi può negargli il core?
Livia. Questa d’amore intendo dolcissima favella:
Di sua bontà vuol darvi una prova novella.
Rosa. Che mai di più far puote per me l’uom generoso?
Livia. Vuol animarvi ei stesso a scegliere uno sposo.
Rosa. Voi lo sceglieste?
Livia.   Ancora di me non ha fissato.
Rosa. A voi spettasi in prima di scegliere lo stato.
Livia. S’io vi cedessi il loco, ricusereste il dono?
Rosa. Germana, qual credete, sì semplice non sono.
Non cede alla seconda il dritto di natura,
Chi col vegliar le notti lo sposo si procura.
Livia. Voi non sapete, ardita, che motteggiar schernendo;
Le vostre mire io veggio, l’animo vostro intendo.
Finger volete meco la dipendenza onesta,
Ma se lo zio il volesse, altro per voi non resta.
Volea per i miei fini cedervi il loco, è vero;
Or non lo voglio, in pena di quel linguaggio altero.
Io son la prima nata: è ver che il padre è morto,
Ma son bastante io sola a riparare un torto.
So che di nozze amico è il cuor candido e puro,
Ma sposa non sarete, s’io non lo sono, il giuro;
E per vedervi afflitta2 senza il consorte a lato,
Capace son di vivere trent’anni in questo stato.
Qual voi di mantariti la brama non mi alletta,
E più di un matrimonio, mi piace una vendetta. (parte)

SCENA V.

Donna Rosa sola.

Che stravagante umore! che subitaneo foco!

Il cuor di donna Livia accendesi per poco.

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Scherzar seco m’intesi, qual lice a una germana:

L’ira infiammolle il petto, ma cotal ira è vana.
L’amor di don Riccardo mi basta; e mi consolo
Ch’egli ragione intende, e che comanda ei solo.

SCENA VI.

Don Riccardo, don Rinaldo e la suddetta.

Riccardo. Donna Livia dov’è?

Rosa.   Or si è da me staccata.
Rinaldo. Forse perch’io qua venni?
Rosa.   Meco partissi irata.
Riccardo. Per qual ragion?
Rosa.   Ragione io non le diedi alcuna,
Ma so con mia germana d’aver poca fortuna.
Rinaldo. Da lei chi la conosce suole ottener tai frutti.
Riccardo. (La confidenza fattami non sia comune a tutti.)
(piano a don Rinaldo)
Rosa. Signore, ai cenni vostri erami qui portata.
Riccardo. Si parlerà, nipote, beviam la cioccolata.
Esservi donna Livia dovea; ma ciò non preme.
Rosa. Io partirò frattanto.
Riccardo.   No, la berrete insieme.
(siedono, e si porta la cioccolata per tutti tre)
Rinaldo. (Oh fosse donna Livia, qual donna Rosa, umana!) (da sè)
Rosa. (Non fosse don Rinaldo qual è per mia germana!) (da sè)
Riccardo. (Veggo, o di veder parmi, tenere occhiate alterne;
Non vorrei mi vendessero lucciole per lanterne), (da sè)
Rinaldo. (Eppur forzato sono amarla a mio dispetto). (da sè)
Rosa. (Non ci pensiam nemmeno). (da sè)
Riccardo.   (M’entran de’ dubbi in petto), (da sè)
Nipote, havvi la suora svelato un mio pensiero?
Rosa. Disse, ma il vero intendere dal labbro suo non spero.
Riccardo. Si parlerà. (Conviene scernere il ver con arte). (da sè)

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SCENA VII.

Donna Livia e detti.

Livia. Lice, signor, ch’io sia d’una notizia a parte?

Riccardo. Di che?
Livia.   Dee mia germana sposar quel cavaliere?
Riccardo. Creder chi ciò vi fece?
Livia.   Mel disse un mio pensiere.
Riccardo. Spesso il pensier inganna con i sospetti suoi:
Voi apprendeste gli altri a misurar da voi.
Livia. Signor, la preferenza che alla germana ho cesso,
L’onore mi consiglia di rivocare adesso.
Don Rinaldo ha impegnati meco gli affetti sui;
L’ardita potea scegliere ognun fuori di lui.
A rendermi schernita or che ciascun procura.
Riprendo in faccia vostra il dritto di natura.
(a don Riccardo)
Riccardo. Voi vi lagnate a torto; e chi è che vel contrasta?
Sollecitate a scegliere, non mi stancate, e basta.
Rinaldo. Se l’amor mio vi cale...
Livia.   Amor so che v’impegna
A preferir gli affetti di un’anima più degna.
(con ironia, additando donna Rosa)
Rosa. Noto è a ciascun, germana, lo stil del vostro core.
Confondere vi piace lo sdegno coll’amore;
E il vostro amor volubile, e il vostro cuor geloso,
Vi fa col labbro a torto prorompere sdegnoso.
Per me dal zio dipendo; l’obbedienza ho in uso:
Parli, disponga, elegga; non cerco e non ricuso. (parte)
Riccardo. Di lei non so dolermi. Di voi fate del pari.
Che di doler non dianmi ragion quei detti amari.
Mi confidò l’amico, che amor nutre per voi:
È cavalier; ricordasi, mantien gl’impegni suoi;
E sia amor che lo sproni, o sia costante impegno,
Malgrado l’onte vostre, v’offre la mano in pegno.

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Livia. Non merta la mia mano, chi non ha in seno un core

Di sofferir capace le prove dell’amore.
Di grado e maggioranza i dritti altrui non cedo,
Ma il cuore ad un ingrato di vendere non chiedo.
Il Cavalier sen vada. Freni colei l’orgoglio.
Non si violenti un cuore; dirvi di più non voglio, (parte)
Riccardo. Chi ’l paragon vuol pingere di donna come questa,
Descriva dell’oceano i venti e la tempesta;
Che la pareggi al fulmine, che la somigli al foco,
Canti le furie e i demoni; e poi soggiunga, è poco.
Che ve ne pare?
Rinaldo.   Oh stelle! m’insulta, e m’innamora.
Riccardo. Irriterebbe un sasso, e voi l’amate ancora?
Rinaldo. L’amo, ve lo confesso; così vuol la mia stella:
È donna Livia ingrata, ma donna Livia è bella.
Ed ho talmente un cuore ad adorarla avvezzo,
Che a struggere l’amore non basta il suo disprezzo.
So che nel pensier vostro stolto a ragion mi dite.
Ma la costanza almeno lodate, o compatite. (parte)
Riccardo. Parmi la sua costanza sì inusitata e strana,
Che ancor dubbio mi resta, ch’ei pensi alla germana.
Come soffrir si puote, come serbare affetto
Per donna, che sol desta la bile ed il dispetto?
Ira per lui svegliavami la forsennata in seno.
In caso tal ragione come tener può il freno?
Se a tal mercede ingrata non arrossisce in volto,
O don Rinaldo ingannami, o don Rinaldo è stolto. (parte)

Fine dell’Atto Primo.

  1. Ed. Zatta: Io vedo ecc.
  2. Zatta: Ed anche per vedervi ecc.