La fame del Globo/Cap. 5

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L’agricoltura grande sfavorita nella contesa per l’acqua

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L’agricoltura grande sfavorita nella contesa per l’acqua
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Produrre una tonnellata di cereale richiede 1.000 tonnellate d’acqua. Se l’umanità dovrà raggiungere la produzione di 4 miliardi di tonnellate di cereali il suo fabbisogno idrico sarà imponente. Ma nuovi invasi sono di realizzazione sempre più ardua, industria e usi civili sottraggono all’agricoltura quantità d’acqua crescenti

Nella prefazione ad un volume di studi sull’irrigazione nel 1967 Giuseppe Medici annotava che la sete dell’umanità era soddisfatta, allora, dall’impiego di 210.000 metri cubi d’acqua al secondo, l’80 per cento destinato all’agricoltura, e si chiedeva quali problemi sarebbero insorti oltre la soglia, allora remota, del Duemila, quando, prevedeva, la popolazione mondiale si sarebbe avvicinata ai sette miliardi, e l’industria avrebbe conteso all’agricoltura quantità d’acqua imponenti. L’industria americana consumava allora, 700 milioni di metri cubi al giorno, metà del consumo americano totale: se sul planisfero l’industrializzazione avesse portato a consumi comparabili tutti gli equilibri che assicuravano il soddisfacimento dei bisogni agricoli sarebbero stati alterati.

Irrigazione mediante pivot nell'antico Pantano di Lentini in provincia di Siracusa


Si può misurare la quantità d’acqua necessaria all’agricoltura ricordando che sono necessari 500 litri per il compimento dei processi biologici necessari alla produzione di un chilogrammo di sostanza secca degli organi epigei di una coltura di frumento, 250 per una coltura di mais, 700 per una coltura di medica. La produzione di 8 tonnellate di frumento, corrispondente alla metà della materia secca prodotta dalla coltura al di sopra del suolo, richiede, quindi, 8.000 metri cubi d’acqua, altrettanto una produzione di 16 tonnellate di mais, la cui granella costituirà, anch’essa, la metà della sostanza secca epigea, 7.000 metri cubi richiederà la produzione di 10 tonnellate di fieno di medica, costituenti l’intera quantità della sostanza secca prodotta.

Sono esigenze ingenti, ma corrispondono alle necessità biologiche: secondo il sistema di irrigazione impiegato, quindi secondo la misura dell’acqua che sarà perduta per evaporazione e per percolazione, le necessità idriche delle medesime colture potranno essere raddoppiate o triplicate: in una rassegna dei problemi dell’approvvigionamento idrico del Pianeta Sandra Postel, autorevole conoscitrice della materia, postula che la produzione di ogni tonnellata di cereali richieda mille tonnellate d’acqua. Siccome i processi biologici non si possono mutare, si può supporre di ridurre quel consumo, impiegando procedure di microirrigazione, fino ad avvicinarsi alla sua metà, diminuire ancora è biologicamente impossibile. Ma applicare la microirrigazione alla coltura dei cereali è meta lontana anni luce dalle possibilità dell’agricoltura mondiale. Nei paesi più evoluti si pratica la somministrazione controllata a qualche campo di mais, ma immaginare di diffondere l’irrigazione “a goccia” sui 125 milioni di ettari di risaie dell’Asia è oggi, sogno agronomico irrealizzabile.

Il consumo supposto, nel 1967, da Giuseppe Medici in metri cubi al secondo corrispondeva al consumo annuale di 6.622 chilometri cubici di acqua dolce, 5.297 destinati all’agricoltura. Sulle soglie del Duemila la stima delle disponibilità mondiali è stata ridimensionata: nel 1996 Sandra Postel supponeva che il consumo mondiale consistesse in 4.430 chilometri cubici, di cui 2.280 destinati all’agricoltura. Se si considera che tra le due date sono stati realizzati alcuni tra i maggiori invasi del Pianeta, e che le superfici irrigate si sono dilatate di almeno 30 milioni di ettari, si deve verificare che le due cifre non sono comparabili, e tra le due dobbiamo reputare derivare da misure più precise quella usate da Sandra Postel che quella di cui disponeva, allora, Giuseppe Medici.

Il confronto tra le due stime è comunque illuminante siccome dimostra che l’agricoltura ha visto ridurre la quota a sua disposizione dall’80 al 65 per cento, che l’industria non ha seguito, su scala planetaria, il modello statunitense, ma si è aggiudicata il 22 per cento delle disponibilità, che gli usi civili hanno conquistato il 7 per cento.

Esaminando quanto sia mutato, tra le due date, nei rapporti tra l’uomo e l’acqua, si impone la constatazione che la realizzazione di immensi invasi sui grandi fiumi dei sei continenti si è avvicinata a limiti difficilmente valicabili. Alcune delle grandi realizzazioni degli ultimi decenni hanno prodotto autentiche catastrofi ecologiche: vale tra tutti l’esempio del Lago d’Aral, il più grande mare interno dell’Asia, trasformato in uno stagno melmoso. Gli ultimi grandi progetti suscitano radicali obiezioni climatologiche ed ambientali, alle quali si aggiungono resistenze sociali sempre più vigorose: le popolazioni delle aree destinate ad essere sommerse rifiutano di essere trasferite nelle bidonvilles urbane, e solo regimi dittatoriali indifferenti ad ogni consenso possono coartare popolazioni intere delegando l’esercito a evacuare le aree d’invaso.

Me se industria e impieghi civili hanno sottratto all’agricoltura, in tre decenni, il 15 per cento delle disponibilità, il processo è appena iniziato: in Asia l’industria sta nascendo, migliaia di stabilimenti saranno impiantati negli anni venturi, e su tre continenti milioni di persone dispongono di pochi litri di acqua, spesso di cattiva qualità, al giorno: esigenze di civiltà impongono che, per lavare le proprie persone ed i propri indumenti, possano disporre non di pochi litri, ma di centinaia di litri al giorno. La quantità d’acqua che l’industria e gli usi civili pretenderanno negli anni venturi saranno quantità imponenti. Che se non saranno realizzati nuovi imponenti sbarramenti, e abbiamo verificato che sarà difficile realizzarne, dovrà essere sottratta all’agricoltura.

Ma le esigenze biologiche non sono, per parte loro, comprimibili: le mille tonnellate supposte necessarie, per tonnellata di cereali, da Sandra Postel, si possono ridurre a metà, ma dimezzarle imporrebbe la diffusione di tecniche di microirrigazione su tutti gli arativi del Globo, oggi un obiettivo irrealizzabile. La futura crescita della popolazione, che si ritiene toccherà gli otto miliardi nel 2030, il numero di chi soffre la denutrizione, il mutamento della dieta dei popoli che stanno raggiungendo il benessere, impongono di raddoppiare, nel prossime tre decenni, la produzione agricola. Raddoppiare la produzione attuale significa mirare a 4 miliardi di tonnellate di cereali: usando il parametro di Sandra Postel, mille tonnellate d’acqua per tonnellata di cereali, non è difficile calcolare l’acqua necessaria. E’ vero che esistono paesi felici dove i cereali li irrigano le piogge, come in Francia e negli Stati Uniti, ma in continenti interi senza acqua non si produce che una tonnellata di grano per ettaro: quei campi dovrebbero essere irrigati: con quale acqua?


Chi cerchi di identificare, sul planisfero, le situazioni critiche, è obbligato a iniziare dalla Cina, il paese in cui si registra il più travolgente sviluppo economico che si verifichi sul Pianeta: secondo stime americane del 1994 lo sviluppo dell’economia cinese avrebbe dilatato le necessità di acqua, tra il 1995 e il 2030, da 31 a 134 milioni di metri cubi per gli usi residenziali, da 52 a 269 per quelli industriali, da 400 a 665 per quelli agricoli. Per soddisfarle il Governo ha predisposto uno dei progetti irrigui più ambiziosi di tutti i tempi, una grande diga sullo Yang Tze, ma il progetto ha sollevato perplessità radicali nella comunità scientifica internazionale. Al governo cinese si propone l’alternativa tra la rinuncia al progetto, frenando lo sviluppo del Paese, o la realizzazione, sfidando la collettività scientifica internazionale.

Microirrigazione di un nuovo limoneto nelle campagne di Cassibile, sulla costa siracusana. La microirrigazione consente di ridurre drasticamente i consumi idrici rispetto ai sistemi irrigui tradizionali.


Offre un esempio paradigmatico di sottrazione dell’acqua all’agricoltura la vicenda di Israele, un paese dal clima arido e dalle disponibilità di acqua modeste, dove la tecnologia irrigua più avanzata del Globo consentì, fino agli anni Ottanta, la produzione di agrumi e ortaggi per l’esportazione, dove, tuttavia, la crescita demografica ha sottratto all’agricoltura risorse sempre più consistenti: se nel 1950 l’agricoltura israeliana poteva disporre di 332 milioni di metri cubi, quell’entità saliva a 1.340 nel 1970, quando essa conosceva il proprio apice, scendeva a 1.162 nel 1992, per percorrere, negli anni successivi, una china inarrestabile. Come conseguenza gli agricoltori ebraici erano costretti ad abbandonare la produzione di agrumi per quella di fiori e primizie, capaci di remunerare meglio l’ultima goccia d’acqua disponibile.

Propone un esempio simmetrico l’agricoltura della provincia messicana di Celaya, dove il clima tropicale e la diffusione di pratiche razionali assicurano, per le colture cerealicole quanto per quelle orticole, rese equivalenti a quelle dei paesi più evoluti. Ma a Celaya la piovosità è esigua, i bacini fluviali, seppure ne siano stati realizzati, non si riempiono regolarmente, ed i prezzi assicurati agli agricoltori dai canoni del liberismo imposto dagli Stati Uniti ai vassalli sono tanto esigui da non consentire l’accumulazione necessaria per l’acquisto delle attrezzature irrigue disegnate in Israele. Così le falde si abbassano di 6 metri all’anno, e la più florida regione messicana è destinata a convertirsi in deserto. Antonio Saltini

Spazio rurale, L, n. 7, luglio 2005

Rivista I tempi della terra