La favola di Pyti et quella di Peristera insieme con quella di Anaxarete/La favola di Peristera

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La favola di Peristera

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La favola di Pyti La favola di Anaxarete
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R
AGION’è ben, ch’a vostri chiari fonti

Ricorra ò Muse alcuna volta, e spenga
Ne i liquidi cristalli, ò smorzi in parte
     La sete almen, che vien nel lasso core
     Da fatigosi studi in che più verso.
     Già non sempre il sanguigno Marte et fiero
     Presso il gelato Termodoonte, move
     Di rabbia accese le ferrigne squadre.
     Ma spesso poi che’n preda e’n stragge hà posto
     Hor gli Scithi agghiacciati, hor’i Geloni,
     Dicesi che tra Geti in fredda grotta
     Et sù le nevi che l’Odrisio accoglie
     Getta le membra lascivette e stanche,
     Et se stesso in oblio ponendo e l’hasta
     Presti à canti, et à suon clemente orecchia.
     A cui per far più lieve il grave affanno
     Suol l’amata Bellona, hor l’elmo invitto
     Torgli vezzosa al capo, et hor’il corpo
     Spogliar de le chiar’arme, et quando i fidi
     Destrier, che di sudor stillanti sono,
     Di man propria adornar, togliendo il nero
     Polvere, accolto nel continuo corso.
Cosi pur Phebo, et già non sempre ei l’arco
     Tende contro Python, ne sempre in Tbebe
     L’ira sua sfoga, ne per dare à Greci

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     L’ultimo mal, con velenose punte
     Assale i Muli et i veloci cani,
     Come per nove giorni ei fece allhora.
     Ma per un lauro fuggitivo, et crudo,
     Dolcemente hor s’affligge, hor d’un bel fiore
     Piangendo cinge la celeste fronte,
     Et hor Admeto sospirando, move
     L’eburna Cetra, et tra soavi canti
     Parte quell’hore, in che le piaghe antiche
     Va rinovando la memoria viva.
Ma tu che fai Potente almo Cupido
     Che non aspiri à le mie voci, e sgombri
     Dal cor la fiera soma, à che m’adduce,
     Il vedermi lontan dal mio thesoro?
     Togli signor la nebbia, et rasserena
     La mente homai, che dal vigor commossa.
     De la prescritta usanza, come cera
     Si va struggendo al Sol pensier d’e lampi,
     Onde vive abbaggliata et vivra sempre.
     Lascia per breve spatio il fuoco, et l’arme
     Che’n terra, in mare, in Cielo, et nel’abisso
     Hanno del vincer tuo fissi i Trophei,
     Senza desio d’addurre al tuo bel regno
     Ch’ogni cosa creata al mondo adora,
     Nove prede cattive ribellanti.
     Et se dato è da se (si com’i credo)

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     Che mai non sciolto da tuoi lacci, porti
     Questa piaga immortal à l’altra vita,
     tutto fia gloria del mio petto, et bramo
     Che ciò m’additi tra famosi amanti,
     Ond’al mondo sia chiaro il mio morire,
     Et la somma beltà che già m’hà morto,
Requie non chieggo, ò saettante nume
     Perche tuoi gesti i canti à tutti noti,
     Che già quel che tu poi con l’arco, homai
     Sannolsi gli animai, non che la gente.
     Et troppo spatio fora à rispirare
     N’e miei tormenti, se contar curasse,
     Quel che à pena potrei con mille carte.
     Di Peristera sol Ninfa leggiadra
     À Venere diletta, il caso, à pochi
     Chiaro, mentre da te mutata apparve
     Candido augello, ricontare intendo,
     Et sol’in questo la tua aita i prego
     Non m’abbandoni ne le tosche note.
     Cosi à tuoi prieghi poi, dura e ritrosa
     Non si mostri la bella amata Psiche,
     Cosi sempre saette habbi a ferire,
     Et Oro, et piombo in ciò non manchi, ond’hora,
     Con l’impiombato stral’, hor con l’aurato
     Dura facci in altrui la rigid’alma,
     In altri solfo, et esca al primo colpo:

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Nella vaga, odorata, bella Cipro
     Si scuopre un monte verso l’oriente,
     Che ne ghiaccio, ne nevi, ne pruine
     Vestino mai, ne tempestosa pioggia
     Da venti accompagnata, humido rende.
     Ivi da capo à pie, cinta di fiori
     In un natio benigno almo ridutto
     Siede perpetuamente Primavera.
     In cima poi di si felice Monte
     S’erge un bel campo, che d’intorno cinge
     Un muro tutto d’or, chiaro, ch’à i raggi
     Del Sol quand’è più chiaro, invidia hà fatto.
     Questo si raro don, Volcan si dice
     (S’a veraci poeti unqua si crede)
     A Vener’haver fatto, allhor ch’in lui
     Schifando il zoppo piede e le man nere,
     Sorda era al’amorose alte querele
     Et sol di Marte suo l’amor curava,
     Vedesi drento poi con maraviglia
     Un prato sempre verde et colorito
     Da Zephiro coltor’ornato, e’intatto
     Che Pastor mai per tempo, ne bifolci
     Presser con piede, ove natura pose
     Quanto hà di bello il Ciel, quanto hà la terra,
     Cosi varia è de i fior la copia et tanta
     Ch’avanzeriano in Africa l’arene

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     Che ’l mar pe’ liti suoi volge, e rivolge
     Se di lieve cagion, odio li punge
     Dal lato destro Borea, Austro al sinistro,
     In somma Enna, di fior madre gioiosa
     La millesima parte in se non have,
     Ne Flora imaginar poria Vaghezza
     Cotal che pari à lei fusse, ò seconda.
     Sonvi più gli arboscei, che ’n ciel non sono
     Stelle fisse od erranti, ò pesci in mare,
     Et augelli pur tanti et si diversi,
     Che diversa harmonia s’ode, quallhora
     Cantan con amorose et dolci note
     Per questi e per quei Rami, che’n udirli
     Angelico sembrar celeste canto,
     Ponono queti sonni, e si sottragge
     L’alma à se stessa, più che ’n mar faria
     S’ivi udisse cantar dolci Sirene.
     Cosa quivi non e, che sol d’Amore
     Non parli, e gli augelleti, e i muti pesci
     A i canti et al guizzar, par che consiglio
     Prendano sol d’amar, ogni radice
     Felicemente nel suo amor godendo
     Co’l egual tronco vagheggia e vive.
     L’hora che i rami crolla, et fa le frondi
     Con spesso mormorio, quasi risposta
     Dar’à i dolci suoi fiati, mostra aperto

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     Che con sospir gli muova, et ad amare
     Dolcemente gli inchini, ama à Vicenda
     Lun’arbor’l’altra, et à loro proprij cenni
     Par che le Palme van chinando il capo,
     Par che la Pioppa pur sospira à i moti
     Del conforme arborscel, l’Alno per l’Alno
     Mostra co’l sibilar, tacita voce
     Ch’Amor ascoso nel suo tronco spiri.
Hora in così soave et degno luogo
     Venere à l’ombra d’un fronzuto Mirto
     Sedendo, le dorate et crespe chiome
     Havea disciolte, et come quella altiera
     Del terzo Ciel Reina, che se stessa
     Di lei medesma infiamma et innamora,
     In un bel fonte si specchiava, donde
     Il lume di sua vista tralucea
     Come suol Phebo, s’al’incontro è posto
     De suoi raggi uno spechio, eran dintorno
     A lei le Nimfe, et le sorelle elette
     Insieme con le Gratie, onde chi’l crine
     A lei spargea di pretioso unguento,
     Chi parte de le treccie in dolci nodi
     Volgendo stava, et chi con vel copriva
     Gli humeri vaghi, che’n vaghezza tale
     La cacciatrice Dea mostrar non suole.
     Et mentre era pur poca á tal bellezza

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     De le ministre sue la molta cura;
     Ella tal volta di man propria, hor’una
     Hor’altra parte del suo corpo ornava,
     Mostrando in quell’ornar gli schietti diti
     Che vincono d’assai quei de l’Aurora.
Ne lunge da man manca era Cupido
     Ch’agguzzava suoi strali ad una cote,
     Ad una cote, che più ch’altra mai
     Ad agguzzar li strali era atta, e’allhora
     Havea da Naxo procurata in fretta.
     Vedeansi intorno à lui ben mille amori,
     Che senza ordine alcun pronti e leggieri
     Con mille scherzi fanciulleschi, e gai
     Stavano, e parte anchor correa vagando
     Pe i virgulti vicini, hor questi nidi
     Hor quei de gli augelletti ad uno ad uno
     Dolce spiando, et hor cogliendo i frutti
     Da sacrati arborscei, chi poi sospeso
     Se stesso si tenea per le novelle
     Viti, et altri carpon ne giva in festa
     Per l’herboso terren di gemme adorno.
     Altri con liete voci, e con saette
     Scacciava i Fauni, et le lascive Ninfe,
     Che vaghi di veder si bel ridotto
     In van correano, à contrastar non atti
     À quei custodi pargolletti numi

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     Questi son quei fanciulli, che pennuti
     Di Cupido fratei, tra lor simili
     D’età son tutti, et di conforme aspetto,
     Et han per madri loro le Ninfe, come
     Al Gran Cupido sol Venere è madre.
     Questi son quei, che sol la bassa plebe
     Van saettando, et gli animali insieme
     Di ragion privi, al gran valor lassando
     Di Cupido il ferir gli eccelsi Heroi,
     Gli spiriti gentili, et porre in fuoco
     Cio che è rimoto più dal volgo vile.
     Tutta parea che Venere gioisse
     Vedendo tra gli Amor l’opre diverse,
     Quand’ella ch’è ridente sempre in vista,
     Rivolta al fine al suo diletto figlio,
     Che’n saette temprar’era homai stanco,
     Deh che fai (cominciò) che fai Cupido?
     Tempo è ben di cessar da tal lavoro,
     Et tempo fora tra fraterne schiere
     Girne scherzando in si felice campo.
     Esser vota non può la tua faretra,
     Si che d’apparechiar nove saette
     Uopo ti sia, se pur per forte Giove
     Non pensi saettar’un’altra volta,
     Perche, si come un tempo, in nuvol d’oro,
     In Cigno, in Tauro, e’n Satiro si cangi

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     Non senza far Giunon gelosa e trista.
     Lassa dunque l’oprar, se già nel’opra
     È soverchio il sudar, et meco almeno
     Dispensa l’hore, che ben caro havria
     Con qualche lieto gioco, al tempo fare
     Spedito oltraggio, e qual più lieto gioco
     (Rispose il fanciullin lassando allhora
     L’opra fornita) potrai fare ò Madre,
     Ch’al tuo caro Volcan, à quel tuo vago
     Girtene in fretta, e’n solazzevol letto
     Nuda seco giacer, dando à lui quello
     Ch’al focoso desio fù tolto, quando
     Nacque Ericthonio dal mal sparso seme.
Rise Venere pur, si come vera
     Del riso madre, anchor che tal ricordo
     Del deforme marito, in mezzo e’l core
     Le fusse strale di cordoglio amaro,
     Et pur tal gioco (subito rispose)
     Non fora ò figlio, di diletto privo,
     Ne fuor de i miei pensier, come tu credi.
     Mà per hor non haver Cigni quì presti
     Da porgli giuntamente al carro in freno,
     Il meglio è, ch’io mi posi in questo prato,
     Ne rompa al mio Volcan l’opra, che’n Ethna
     Hà Giove imposto à suoi Ciclopi, et egli
     Come Mastro maggior de la Fucina,

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     Presente ivi convien ch'ordini à tutti.
     Il gioco sia tra noi dunque, et in questo
     Dolce ridotto, dove s'altro modo
     Mancasse di giocar, che mille sono,
     Mancar questo non può, ch'à gara insieme
     Discorrendo il fiorito e vago prato
     À chi piu può, cogliam diversi fiori
     Di tanti ch'infiniti hà qui la terra,
     Et chi più tosto n'havra colmo il grembo,
     Tra noi si stimi il vincitore, et questa
     Vittoria tra noi resti scritta in Cielo
     In sin che n'habbi Giove il regno in mano.
Non spiacque al Pharetrato nume il gioco
     Da la Madre proposto, et come quegli
     Ch'era gli humeri alato, e'havea per fermo
     Per la destrezza del suo volo, havere
     In man la palma, al gioco tosto accinto,
     Io son (rispose ò Madre) io son parato
     Al gioco che tu voi, deh ben t'inganni
     Madre, se vincer cerchi il vincitore,
     Il vincitor c'hà l'universa palma.
     Ma so ben'io l'ardir, donde à te viene,
     Et la credenza che tu vincer debbi.
     Ben lo so cauta Madre, et perche certo
     Questo porria vittoriosa farti,
     Anzi vittoriosa ti faria,

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     Non creder ch’i non sappi, come cinto
     Porti il Cesto fatal, ch’è si possente
     Ornamento al tuo corpo in terra e’n Cielo,
     Anzi quel giogo, ò laccio, ò quel flagello
     Ch’al collo altrui ponendo, ò con suoi colpi
     Percotendo tallhor chi accender cerchi,
     Subitamente il lega, et prende, et vince.
     Tali hà seco celesti alte lusinghe,
     Tal’é di quel divin Nettare asperso,
     Et tal spira possanza et gran malia
     Da tor ai cor arbitrio et libertate,
     Da mitigar non pur rapidi fiumi
     ma venti irati et tempestosi mari.
Tutta s’empi di gioia à tai parole
     La bella Citherea, vedendo il cauto
     Figlio schifar l’altrui vantaggio, et mentre
     Pur vista ella facea di voler seco
     La pretiosa Zona al corpo cinta,
     Instando più che pria, l’alto Cupido,
     Madre (soggiunse) hor pon senz’altro indugio
     Pon, dico, il caro tuo legame, avolto
     Nel caldo seno, et dei saper ch’è chiaro
     A me, com’à ciascun, che per Virtute
     Del possente monil; più volte hai posto
     In fiamma Giove, allhor ch’egli era un ghiaccio
     Nel’amor di Giunon, ch’à tal’effetto

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     T’ha più volte discinta: hor non è nota
     Favola in Ciel, come costretta anchora
     Fossi inanzi il Pastor, lassare il Cesto
     Talch’ei per te non fusse ingiusto scudo
     Contro l’altre due Dee, volendo insieme
     Il giudìtio da lui del’esser belle?
Egli è ben ver, rispose come prima
     Venere sorridendo, ma pur nuda
     Et senza haver cintura à i fianchi è al collo
     La palma riportai da me bramata.
     Ma poi che così vuoi, debito è bene,
     Che l’arco tu pur lassi, et la faretra;
     Che cinta hai teco, perch’io sempre offesa
     Da l’arme tue, son di temerle astretta
     Et à miei danni imparo esserci cauta.
     Elle tallhor contro tua voglia m’hanno
     Percossa come sai, ne tu frenare
     Puoi te stesso tallhor, ch’a tuoi congiunti
     Non facci offesa più, quando men voi.
Rise Cupido, et gli sovenne in quella
     De la ferita antica alta et profonda
     Un dì, che lei basciando, incautamente
     Per volerla abbracciar, le punse il petto
     Con uno stral, che fé la piaga, donde
     D’Adone si trovò di poi raccesa.
Cosi, senz’altra dar risposta, tosto

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     Spogliossi il Fanciullin del’arme usate,
     Et Venere del Cesto, ò maraviglia
     Di quel secreto suo poter, se ratto
     Che Ciprigna il lasso, parve ella senza
     I suoi lacci lascivi, et senza quella
     Virtù del ragionar, che come ascoso
     Aspe trà vaghi fior, potente frode
     Tende à i sensi et à i cor, donde poi presi
     Restano in forza altrui, senza mai sciorre
     L’alma prigion, da l’amoroso vischo.
Ma ecco accinti al gioco et l’uno et l’altra
     Con festoso gioir, con vezzi et salti
     Dieder principio, et con si fatto ardore,
     Che non da scherzo, ma da vera garra
     Di gloriosa impresa, ogniun parea
     C’hor questi fior, hor quei cogliendo gisse.
Che non fai Gloria, tu ch’eterno sprone
     Hai di farti maggior? tu che sei face
     In tutte honeste menti? et tu ch’allumi
     Gli animi à belle imprese, e’n Ciel gli guidi?
     Fin’à i destrier correnti han per te sola
     Ne la focosa lena il corso intento
     Mentre à l’arringo lor corrono à pruova,
     Á tutti in somma fai provar l’ardore
     Che la lode et la palma al cor ne danno.
     Et benche pien di riso et di diletto

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     Fusse il giuoco tra Venere e’l Figliuolo,
     Ambi pur con gran fretta, à porre fascio
     Di quei prati gli honor, givano accesi,
     Rassembrando color, ch’al Sole ardente
     Si veggono affasciar le bionde spighe
     Con falce adunca, ò come è pur costume
     Del’ingegnose pecchie al primo albore
     Mentre predando van fiorita siepe.
     Ma giochi con Amor chi vuole et scherzi
     Che’l gioco con lo scherzo al fin non puote
     Uscir senza punture, ò senza alcuno
     Ricordo, che rinovi à l’alma il duolo.
     Era la Dea di Papho in gioco tale
     Tutta festante in gir cogliendo i fiori,
     Quando (perche ad Amor si piacque, à cui
     Lice il tutto voler) trovò cordoglio
     Che pose in tanto mel fiero veleno,
     Et poco men restò vinta da lui
     Che di vincer pensava al primo assalto.
Era tra tanti fior vago a vedere
     Il bello Adone, et la purpurea Rosa
     Indi poco lontana, onde risorse
     À Venere co’l duol, la rimembranza
     Del perduto suo ben, perche rivolta
     À lun fiore et à laltro, Ahi coppia amata,
     Dunque pur qui vi veggio assai più spesso

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     (Disse con gran sospir) di quel ch’i bramo?
     Dunque in giuoco versar poss’io, quallhora
     Veggio te mio thesoro in fior mutato,
     Et te Rosa gentil? ah Rosa amena
     Tu fosti sempre bianca, et eri anchora
     Fin’à quel nero di, che’l fier Cignale
     Mi fè d’ogni mio ben vedova in tutto.
     Candida eri tu Rosa, e allhor mutasti
     Il nativo color, quando mutossi
     In oscuro color la vita mia.
     Ben mi ricorda ò Rosa, che correndo
     Per dar qualche soccorso al caro Adone
     Mi fù da spina il piè trafitto, et vidi
     Uscir di questo piè di sangue un rio,
     Che per l’herbe sanguigne ove tu stavi,
     Tosto le foglie tue vermiglie feo,
     Quasi pur poco (ohime) quasi pur poco
     Fusse al distinto, havermi allhor disperso
     De l’alma tutto il sangue et del cor mio.
     Ma ecco ch’io te colgo pure ò Rosa
     Et ben colto Adon vò pur cogliendo,
     Benche quanta fù mai d’haverti amato
     La gioia del mio cor, tanta à quest’hora
     Di vederti in un fior, m’affligge noia,
     E noia mi tormenta ò cara pianta.
Non cessava Cupido, allhor che’n doglia

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     Vedea la Madre, et men nel giuoco accesa,
     Di coglier mille fior, tutto vezzoso,
     Quasi di vincer lei presagio havesse
     Da l’occorso dolor, onde volgendo
     L’ale spedite a questi fiori e à quegli
     Hor colgo (dicea lieto e ad alta voce)
     Colga la Madre mia, le Rose, e colga
     Dl Cinara la pianta, ch’io repente
     Di mille fior mi colmo il grembo, et ecco
     Che te tra gli altri colgo, ò ti che fosti
     Cagion di pianto à Phebo, onde’l suo pianto
     Ne le tue foglie anchor descritto serbi,
     Et ben conviensi ch’ad un tempo io colga
     Te di Cephiso Figlio, ò infelice
     Sol perch’altro non eri, et eri un’altro,
     Ò fior ambi gentili, in quai l’errore
     Del disco estinse à lun la vita, e à laltro.
     Del fonte il nuovo error la vita accese.
     Eccomi ò bianchi Gigli à voi rivolto.
     Ecco ch’a te mi giro ò Clitia, mentre
     À Phebo tu ti giri, et te che ridi
     Innanellato Acanto, et te che mostri
     Tre lingue ò Croco, et te bello Amaranto;
     À cui si vede Amaraco vicino,
     Tutti colgo à d’un tempo, et fò di tutti
     Composto fascio, in cui pur’Aty aggiungo.

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     Et benche si convenga ò voi viole,
     Che coglier sol vi debba la mia Madre,
     Non per questo in oblio vi pongo, et voglio
     Di voi pallidi fior, tanti, ch’i possa
     Mille pallidi Amanti scolorare.
     Et tu che fai, che quì rosseggi anchora
     Papaver sonnacchioso in mezzo à tanti?
     Pensi, che nel vederti, in sonno i debba
     Languidetto cader? vano e’l pensiero,
     Ch’i desto più che prima, ecco non cesso
     Di coglier te con gli altri, anchor che prive
     Sien d’odor le tue fronde, e dove i lasso
     Te fior possente, che da campi Oleni
     Fosti à Flora mandato? io vò che’l grembo
     Tu debbi al fin colmarmi, se tu fosti
     Che la santa Giunon, sterile allhora
     Gravida festi al tatto sol, che madre
     Venne senza marito, e aggiunse in Cielo
     Lo Dio feroce, che la Tracia adora.
Era à queste parole, il Picciol Dio
     Quasi tenuto vincitore, e’n intorno
     Per lui volando la vittoria, preste
     Havea quasi le piante, à dargli in mano
     La Palma, ch’era pregio in tal contesa,
     Quando di tante Ninfe ivi presenti
     Tutte à Venere amiche, e à lei dilette,

[p. 25r modifica]

     Peristera chiamata, la più bella
     Et nel volto più candida et gentile
     Hebbe de la sua Dea pietate, e doglia
     Ch’in un giuoco cotal restasse vinta,
     Anchor che glorioso il vincitore
     Ella già conoscea per chiare pruove.
     Et stata breve spatio in se raccolta
     Prese à dir frà suo cor. Dunque à l’amata
     Cipria, à cui son cara, io debbo aita
     Negar, ne darle almen picciol soccorso,
     Se soccorrere i posso à quel che chiede
     Non men che l’honor suo, l’ufficio mio?
     Ah ch’io debbo trapormi in gioco tale,
     Anzi nel gioco lor trapormi io voglio,
     Se Nessun patto ò legge indi mi vieta,
     Ne puomi Amor vietar con suoi decreti,
     Ch’io non m’attenga al mio benigno nume.
     Faccisi pur Amor da le sue schiere
     Dare aita di poi, quanto gli piace,
     Et tutto insieme de gli Amor lo stuolo
     Segua la parte sua, ch’io quella parte
     Seguire intendo, à che mi sprona il caro
     Idolo, appo cui vivo et viver bramo.
Et dicendo cotal, volta à la Dea
     Che di Gnido tien cura, ah Dea (con voce
     Lieta soggiunse) affretta homai la lena

[p. 25v modifica]

     De le tue mani, et tanti fior quanto hai
     Dinanci à gli occhi, senza legge alcuna
     Raccogli e spianta, ch’io di lor corona
     Già t’apparecchio, e tesso in questo mezzo,
     Accioche il capo tuo, poi coronato
     Resti, vincendo lui che vincer cerca.
     Tò questi fior che qui t’addito, et questi
     Et quegli senza indugio, et benche il grembo
     Capace più non sia, quanti n’havrai
     Fuor del grembo raccolti, tanti havrai
     Testimon che per te faran più chiara
     La vittoria, e l’honor à che s’aspira.
Tal fur queste parole alto coraggio
     À Venere dogliosa, à cui nel core
     Era sol fisso Adone, che ripresa
     Novella forza, et infiammato il petto
     Di glorioso ardir; parve non meno
     Che fiamma suol, se subito s’appiglia
     La dove unto licor disperso sente,
     Ch’in un momento queste parti et quelle
     Ratto leccando, di rapir fa vista
     Con furor senza freno il suo soggetto.
Et già tenuta vincitrice er’ella,
     Quando l’amiche Ninfe in voce unita:
     Gridar, Venere hà vinto, et vinto hà Amore
     Che sempre vinse, et vincer suol ciascuno.

[p. 26r modifica]

     A’ le quai voci i fanciullin fratelli
     Tutti correndo, et iterando insieme
     Gli uditi detti, più cresceano il giuoco
     Co’l trescar che facean presso Cupido,
     Et co’l chiamarlo da la madre vinto
     Non senza scherzi, et voci, et atti à un tempo.
     Ma Cupido che’n ver vinto parea;
     Tacito scorno havendo impresso al volto,
     Giunse sdegno al suo sdegno, udendo in quella
     Il comune gioir de i circostanti,
     Benche semplice il gioco era in ogniuno.
     Et tanto in ciò durò senza fare altro,
     Ch’al fin l’ira scoverta, il core acceso
     Mostrò d’orgoglio et d’infiammato cruccio.
     Cotal penso mostrossi, allhor che Phebo:
     Che del vitto Pythone andava altiero,
     Percosse irato, ove nel cor li fisse
     La radice immortal del suo bel Lauro.
     Ben sà, chi pruova Amor, quanti son fieri
     Li sdegni et l’ire, di ch’Amor se stesso
     S’arma et infiamma à nostri danni; ò sieno
     Sieno, i prego, lontan gli aspri furori
     Usi venir da lui, poi che pur troppo
     So come crudi sono, et che fierezza
     Piove dal volto del’acerbo Dio,
     Mentre’l lume perduto, e cieco affatto

[p. 26v modifica]

     Dal mal nato furor, di rado, ahi lasso,
     Misura l’aspre pene con l’offese.
     Ben lo veggio sovente, et men vorrei
     Ne i raggi del mio Sol, ch’un lieve fallo
     Di quest’anima ancella, à gli occhi stanchi
     Fa si fosco tallhor, che tutta avolta
     Fra tenebre mia vita, in pianti e’n doglie
     Attende dal furor de i santi lumi
     L’ultimo giorno che men danno fora.
Ma del tutto cagion sei tu mal nata
     Ira, peste di cor, velen ch’attoschi
     Suo dritto à la ragion; furor che mentre
     Sei breve, à lungo mal conduci altrui,
     Furor, che mentre regni et hai possanza,
     Tal raffiguri il petto acceso quali
     Son’à veder’i Corybanti, e gli altri
     Ministri di Lyco, che sciocche voci
     Et atti privi di saper, sol hanno
     Per testimon de le lor menti insane.
     Non è cosa ch’allhor te freni e arresti,
     Quando tu frenesia pessima hai forza,
     Ne mille spade anchor, ne mar, ne fuoco,
     Ne Giove co’l suo tuon potria terrore
     Darti, ò por freno; onde ben mostri vero,
     Come à l’huomo primier da Prometheo
     Di limo fatto et qualità diverse

[p. 27r modifica]

     Nel’albergo del petto egli ripose
     Del rabbioso Leno lo sdegno atroce.
     Ecco che senza dir le gran ruine
     Di tanta arse Cittá, di tante straggi
     Et d’altri horribil casi al mondo conti,
     Fatti per te, di stigge horrida figlia,
     Et senza dir come nel Cielo anchora
     (Se nel Ciel però alberga ira nel sdegno)
     Hai commossi i celesti et sommi Dei
     A’ vendicar lor onte in mille guise,
     Hor hai spinto Cupido à riputare
     L’offesa immensa, et di vendetta degna,
     L’offesa, che dal gioco, onde ella nacque
     Dando à Venere aiuto in mezzo i fiori,
     Et dal sincero pio debito affetto,
     Cortesia giusta esser pensar dovea
Così, mentre crescea l’allegra festa
     De le presenti Ninfe, à lui crescendo
     L’irato fuoco, riguardata in volto
     L’aversa Ninfa, e in lei crollando il capo,
     Più volte con la man toccò, s’a i fianchi
     Havesse il crudel’arco, et visto al fine
     Ch’era di lunge la faretra, e l’arme
     che lassar gli convenne al giuoco entrando,
Ahi Ninfa (à dir comincia) che nimica
     Cosi stata d’Amor, schernite hai tanto

[p. 27v modifica]

     Le forze, che’n Amor pur sai per fama
     Quante sieno maggior tra tutti Dei.
     Ma tu non schiferai più quel ch’i sia
     Et pagarai la pena ch’al fallire
     Debita si conviene, et hoggi in tutto
     Del tuo manto mortal spogliata, havrai
     Se non la morte, almen vita di morte
     Peggiore assai, tra gli animai vivendo,
     Habbi Venere poi per nume, et habbi
     Venere à i voti tuoi, che non havrai
     Sembiante più di Donna, che lei cerchi
     Seguire in mio disnor. Et così detto
     Bollendo più che mai l’ira furente,
     Mosse ver lei sdegnato, che tremando
     Tutta di tema, a Cytherea ne giva
     Pietà chiedendo, e intorno à i piedi suoi
     Come suol fido Cane appresso fare
     Del’amato Signor, quando altri il caccia,
     Tutta si raggirava l’infelice,
     Ma nulla al fine i lunghi giri, et nulla
     Valsero i prieghi, ne le voci humili
     Che Venere per lei spandea, basciando
     Tallhora il figlio, et con sorriso insieme;
     Cingendo al collo suo le care braccia;
     Perche, come dal Ciel fulgore mosso
     In cui contrasto alcun non val, ne quanto

[p. 28r modifica]

     S’opponga al suo furor, ratto pigliola
     Per i biondi capelli et presa in alto
     Subito si levò, che nel cadere
     Parve in giro rotar, non senza fare
     Humidi gli occhi et angosciosi i cori
     Di quante Ninfe ivi vedean suo caso,
     Caso di maraviglia et di pietate,
     Poi che, si come ogniun pietoso n’era,
     Cosi n’era ciascun pien di stupore.
     Ma lo stupor fù più de l’infelice
     Peristera, che in se medesma visto
     Non senza horror, che s’apprestava il corpo
     A’ tor novella forma, e in un pensando
     Ch’augel dovea apparir, là dove Ninfa,
     Anzi apparire in guisa d’alta Dea
     Era solita prima, trasse al Cielo
     ll più caldo sospir, di quanti mai
     Da sventurato cor fur tratti à forza,
Ahi, s’innocente infin’adhor son vissa,
     (Dicendo poi) s’unqua non feci offesa
     Ne à te Giove immortal, ne à chi pur teco
     Hà stanza costa su, come à tal fine
     Son’io condotta, senza haver commesso
     Fallo che’l meriti? Dunque il fallo solo
     Che meritar ciò fammi, è sol’havere
     Á Venere mia Dea mostrato un segno

[p. 28v modifica]

     Del divoto mio cor, del mio servire,
     Et di cosa cercar ch’a lei gradisse.
     Questo dunque è l’error, se perche sia
     Picciolo et nulla, per minore anchora
     Si trova che voi Dei (fiere sentenze
     Et non conformi à la pietà del Cielo)
     Havete in terra à stratio horrido, e a scempi
     Condotti mille che non n’eran degni.
     In che peccò d’Autonoe il buon Figlio
     Che de i suoi proprij can fù preda ingiusta?
     Vide Dittinna senza veste à caso,
     L’odor seguendo de le fiere, e i boschi,
     Sol di quel suo disio semplice havendo,
     La mente ingombra, à disgombrar gli affanni.
     Che fè Tiresia l’infelice vate,
     Che visse à guisa d’orbo senza lume?
     Già non è ver ch’egli à si grave scempio
     Fusse dannato, per haver già data
     Sentenza ch’à Giunon tanto spiacesse,
     Men fallo ei fece, se di fallo nome
     Merta, poi che Minerva vide, mentre,
     La Gorgonea lorica à terra posta
     Igniuda era in un fonte. Alettrione
     Di Marte gia compagno et fido amico,
     Come per poco fallo anch’ei divenne
     Crestato augel, che à l’hora matutina

[p. 29r modifica]

     Il Sol’accusa, se cangiato vive
     Fuor de la sua propria figura vera,
     Perche dal sonno soprapreso, fece
     Men guardia, ove fortuna al fin tramise
     Il suo fiero destin, com’ella suole.
     Almen, ò se d’Apollo il Messaggiero
     Per sdegno, fù di bianco in nero volto,
     Se di Piero anchor hebbero le Figlie
     D’augei sembianza, et Ascalafo il simile,
     Et se d’Almon e pur la figlia, priva
     De la lingua restò, le lingue loro,
     Per volere accusare il fallo altrui,
     Per dare inditio di secrete cose,
     Et fare offesa che punir si debba,
     Ricondusser gli autori a degna pena
     Et à merto giustissimo. Et in somma
     Se l’immodesta Figlia di Nitteo
     Fu fatta augel consorte de la Notte,
     Per la lascivia almen ne fù ben degna
     Co’l Padre havendo le mal nate voglie
     Disfogate d’Amor. Ma io d’Amore
     Hebbi voglie mai sempre honeste, et traggo
     Da li sdegni d’Amor si fiero danno.
     Dunque è ben vero ò misera mia vita
     Ben’è dunque verissimo in effetto;
     Ch’ogni piciola colpa contro i Magni

[p. 29v modifica]

     Celesti Dei, si può nefando errore
     Riputar tra mortai, se pena tanta
     Riporto per fallir di pena indegno,
     Et per haver tra fior posta la mano,
     Fior mal tocchi per me, fior che’l crudele
     Serpe ascoso tenendo, il cor m’havete
     Morso, sol’attoscando, et non la vita
     Troncando, come à me caro sarebbe
     Per Euridice haver compagna eterna.
     Ò velenosi fior senza veleno
     Come senza fallir cangiate vita.
     Havesti almen ne i campi di Thessaglia
     Le pestifere piante, e i Sassi, e l’herbe
     Nocenti, per nocere altrui, già colte,
     Se per giovare à chi giovar dovea,
     Fior innocenti à più innocente vita
     Tolgon la vita, senza dar la morte.
     Felice Circe et tu Medea sei dunque
     Se maliosi sughi, e iniqui semi
     Per far sol’opre micidial, potete
     Raccor ne i vostri prati, con Amore
     Pace trovando, e se pur mai v’adduce
     Amor ne i vostri cor’ dolor, et pruova
     Solita uscir da le sue man, ne pena
     Ch’a lui sconvenga oìme, ne nuova à fare,
     Si come in me già fa. Deh fier Cupido

[p. 30r modifica]

     Troppo sdegnato contro il mio riposo,
     Men t’era havermi il cor traffitto, et posta
     Tra tuoi vivi soggetti, à tuoi triomphi.
     Ferir la tua saetta usa i nimici
     Et i rubbelli cor, ch’adamantino
     Vestono smalto, et in me fida ancella
     Di chi t’é madre, tal saetta adopri
     Ch’à te si disconvien, se converrebbe
     Crescer l’impero tuo non già scemarlo,
     Ne mutar corpo in piume, ma di ghiaccio
     Far fuoco i corpi, et allacciar li sciolti,
     E’mpregionar chi’n libertà si truova.
Più cercava parlar l’anima afflitta,
     Ma’l tutto le vietava il suo bel corpo,
     Che di candide piume à poco à poco
     Se medesmo copriva, onde in un punto
     Sparver le belle man, mentre le braccia
     D’ale forma prendean, che’n van movendo
     Per Venere abbracciar, resto di poi
     Più impedita nel duol, vedendo à un tempo
     I vaghi piedi haver gli adunchi diti
     Non senza piume, et pur pennuta coda
     Farsi l’accolta vesta, che à lei spesso
     Percoteva il tallon candido, mentre
     Per soverchio affrettar le destre piante
     Seguiva l’orme de la Dea di Cipro.

[p. 30v modifica]

     Sol’il volto restava et sol la voce
     À la trasfigurata sua persona,
     Ma tutto al fin restò cangiato, et come
     Scabbia suol fare che possanza prende
     E’ à poco à poco il già corrotto corpo
     Occupa, et à le parti lese aggiunge
     La parte, ch’a veder men’era offesa,
     Cosi il distin de la novella vesta
     L’avanzo del suo volto et de la voce
     Fece conforme al corpo, et quel che dianzi
     Era un bello viso, et voce d’Angioletta
     Che sonava divin, non che mortale,
     D’accuto becco prese guisa, e augello
     Restò del nome suo, vera Colomba
     Candida et pura, come allhor premuto
     Latte, over neve in un bel chiuso colle
     Usa fioccar, che’l Sol non tocchi mai.
Ò vera fede d’anima sincera
     Verso chi più pregiava, et vero istinto
     Che lassa impresso la Natura Madre,
     Poi che come tallhor usa il fanciullo
     Gittarsi in braccio de la madre, o vero
     Ne la gonna cercar viluppo, udita
     Voce di lupo, ò pur di Can d’apresso,
     Cosi al primo spiegar il nuovo augello
     Hebbe ricorso à la sua Dea presente,

[p. 31r modifica]

     E'intorno il lembo de la vesta, prima
     Fatti suoi giri, con mandar di fuori
     In lagrimevol voce un mormorare,
     Quasi ricordo del primier suo stato,
     Poi ne le braccia sue volando, à tutti
     Mostrò de la sua fè pegno immortale.
Tenera tutta fatta l'amorosa
     Donna del terzo giro, mille volte
     Et mille la basciò, ne le mammelle
     Poi si stretta la tenne, ch'indi forse
     Invidia à mille Ninfe e à mille Amori,
     Che d'ardor sfavillando, e di Pietate,
     Tutti correano à gara ad involare
     Almen'un bascio al leggiadretto augello,
     Peristera dicendo, ò la mia dolce
     Peristera, e'n quel dir ciascuna voce
     Si sforzava lassar tronche parole,
     Come s'usa al bambin, che è in culla avolto
     Da chi, di lusingar cerca à suoi vezzi.
Ma perche di parlar dava segnale
     Venere à la Colomba c'havea in braccio,
     Tutte d'intorno à lei le Gratie e l'Hore
     Si fermar ad udir quel che dicea
     Tacitamente, ò s'aprestava à dire,
     Quando fatto tra lor silentio queto,
     Rivolta al bianco augel Venere al fine,

[p. 31v modifica]

Ò diletto mio ben, ben mio diletto
     (Disse con modi da infiammare i sassi)
     Beltà che’n Donna amai, hor’in augello
     Amo et sempre amerò, però non piango
     Il doglioso tuo fin come vorrei,
     Perche non lice, et è disdetto al pianto
     Bagnar celesti aspetti. Et però l’opra
     Mia non ti giova, in farti al primo stato
     Tornar, si come i bramo, perche à nullo
     Lice tra tanti Dei, far van fatti
     D’alcun tra tanti Dei. Ma quel ch’i posso
     Donarti, dono, onde dal nume mio
     Havrai scudo cotal, ch’eternamente
     Non mi farai men cara, ne men sacra,
     Che caro et sacro à Phebo è il Cigno, e à Giove
     L’Aquila si pregiata, et à Minerva
     La Nottola, et à gli altri i loro augelli.
     Anzi, come pe’l mar l’usata conca
     Tallhor mi mena, così in terra e in Cielo
     Vedrai carro guidar miei gran viaggi
     Da due Colombe à fren gionte tirato.
     Non si vedrá più mai, che da Gradivo
     Tolga carro et destrier, si come tolsi
     Per gire al Ciel, dal mio nimico Greco
     Percossa, che’l ricordo anchor mi coce.
Ne à pena hebbe ciò detto, ch’al suo carro

[p. 32r modifica]

     Giunse i candidi augelli, et tal che forti
     Fussero in trar la disusata soma,
     D’un sacro medicame ambi consperse
     Che con secretto sugo hà tal virtute.
     Questo è quel gran licor, con che si dice
     Soler spruzzar la Luna i suoi Giovenci
     Et con che pur il Sol fece à Phetonte
     Humido il viso, per che forte fosse
     In patir il calor de l’alta fiamma.
     Anzi di cotai goccie è fama chiara
     Che d’Eleuso la Dea, bagnò le faci
     Notturne, accio il splendor vivace et fermo
     Durasse al suo infinito errore immenso
     Più vivace splendor fesser per via.
Cosi Venere al Ciel drizzato il corso,
     Mostrò nuovo triompho, e al suo camino
     Iri scarsa non fù, di rugiadose
     Stille l’aria bagnar fra dolci tempre,
     Fin che poi gionta al cerchio del Gran Padre
     Diè non poco stupor con la bellezza
     Et co’l novello carro unqua non visto,
     À cui di Giove il nero augello et gli altri
     Di Marte et di Giunon fer lieto honore.
     E Amore in tanto, ch’à si degna impresa
     Vidde alzata Peristera nimica,
     De la presa vendetta non contento,

[p. 32v modifica]

     Indi partisse, et per sfogar lo sdegno
     Scorse il mondo leggier, mille e mill’alme,
     Et mille cor, et mille saettando
     Da tutti lati, che mai scempio tale
     Non fece, qual’il di nero per noi,
     Sventurati mortai, segno à suoi strali.
Amorosa potenza, quanto in somma
     Sei tu somma fra tutte, hor non contenta
     De l’arme tue, mutar’anche in augelli
     Cerchi i corpi qua giù, fuor del tuo regno
     Volendo signoria, la’ve devrebbe
     Bastarti, con che puoi, l’arco et la face,
     Come il fulgore à Giove, et basta à Marte
     À Minerva et à gli altri haver l’usate
     Armi, del lor poter famosa insegna.
     Ma come si potria dir che tu poi
     Cio che à te piace, se’l mutarne anchora
     Non fusse al tuo poter concesso? hor tutto,
     Tutto é proprio signor de fati tuoi
     Far, che dal volgo rozzo huom tratto, altro huomo
     Divenga di quel ch’era, et io pur uno
     Roco mormorador di corti, et nato
     À vender sol parole, hor per te, Cigno
     Fatto in parte gentil, se non hò voce
     Ch’á par di tanti Cigni udir si facci,
     Tanta almen me n’inspiri, et me n’impetra

[p. 33r modifica]

     Il desio di piacer à duo begliocchi,
     Che di Cigno hò pur nome, hor ch’à la morte
     Gionto da colpi tuoi, battendo l’ale
     In mezzo l’onde del mio pianto, canto
     Non men l’esseguie mie, che’l tuo valore:
     Valor, che può pur tanto in me la vita
     Prolongar con la speme, che’l terreno
     Carcer non lasserò dove son chiuso,
     Senza far noto anchor con altri versi
     Quanto le forze tue ponno ò Monarcha
     Vittorioso, e invitto, almo et eterno.

Il fine de la Favola di Peristera.

COMINCIA QUELLA

DI ANAXARETE.