La fine di un Regno/Parte I/Capitolo II
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CAPITOLO II
Sulla fine di settembre del 1852, il Re volle dare agli esercizi autunnali d’istruzione per l’esercito un’importanza maggiore del consueto, e ordinò ohe una colonna mobile, formata da due divisioni, con otto squadroni di cavalleria e venti pezzi di artiglieria, partisse alla volta delle Calabrie. Il movimento delle truppe ebbe luogo nei giorni 23, 24, 25 e 26 settembre, concentrandosi tutta la colonna nei dintorni di Lagonegro. Il Re s’imbarcò la sera del 27 settembre a Napoli, sul Fulminante, insieme al giovane principe ereditario che contava quindici anni, e al conte di Trapani. Il suo seguito era formato dal principe D’Aci, dai brigadieri Ferrari e Del Re, dai colonnelli Nunziante e De Steiger, dal tenente colonnello Letizia, dai maggiori Severino, Anzani e De Angelis, dai capitani Grenet, Schumacher e Salvatore Nunziante. Il colonnello Afan de Rivera, che era pure del seguito, comandava l’artiglieria; il brigadiere Garofalo era capo dello stato maggiore, e il maggiore La Tour seguiva, come aiutante di campo, il conte di Trapani. I direttori Scorza e Murena partirono con la posta e attesero il Re a Lagonegro. Il Re aveva seco il suo cameriere particolare, Gaetano Galizia, mentre un cuoco e un sottocuoco, con servizio completo di cucina in apposito furgone, precedevano il Sovrano di un giorno. Il Fulminante, seguito dal Guiscardo, dal Ruggiero, dal Sannita e dal Carlo III, giunse la mattina del 28 nella rada di Sapri. La sera di quel giorno, il Re dormì a Torraca, facendo la prima tappa, da Sapri a Torraca, a piedi per mancanza di strade. Alloggiò nel castello del marchese di Poppano, Biagio Palamolla: castello medioevale, con le torri merlate. Lo ricevette il vecchio marchese che, per grave caduta da cavallo, vent’anni prima si era ritirato dalle guardie del Corpo, col grado di brigadiere e portastendardo. Il Re, prima di allontanarsi, conferì all’ospite il titolo di duca di Torraca; e il marchese, a perpetuo ricordo, fece cingere con una catena di ferro l’ingresso del castello e murare sulla facciata esterna una lunga lapide latina, della quale ecco la chiusa:
ne auspicati in turrem regis adventus
excelsique tam hospitis
mnemosy non excideret
hunc lapidem oblivionis vindicem
blasio palamolla, puppani marchio
posuit
an. rep. sal. mdccclii
Fu quella la sola eccezione che il Re fece al suo proposito di non accettare, a nessun patto, ospitalità da privati. A Lagonegro, alloggiò nella sottointendenza; a Castelluccio, dai Minori Osservanti. Fra Castelluccio e Rotonda corre il fiume Mercuri. Il Re vi giunse a cavallo e trovò sulla sponda "una mobile selva di ulivi„ — leggesi nell’iperbolica cronaca ufficiale. Erano gli abitanti di Rotonda, venutigli incontro con inverosimili rami di ulivo in mano. A Morano alloggiò nel seminario, e vi fece la prima doppia tappa, perchè egli, d’accordo con lo stato maggiore, aveva stabilito che per dar riposo ai soldati, poco avvezzi a lunghe marcie, vi fosse una doppia tappa ogni tante miglia. Giunse a Castrovillari il 4 ottobre e andò nella Sottointendenza, rifiutando l’ospitalità del marchese Gallo, nipote del Nunziante, alle insistenze del quale rispose: "Mi son proposto di non fare eccezione d’ora innanzi, neanche se incontrassi per via la casa di un mio fratello„. A Castrovillari, ricorrendo l’onomastico del principe ereditario, le accoglienze furono stranamente clamorose, e molti gli archi di trionfo, gli arazzi e le bandiere. Il dì seguente, parti per Spezzano Albanese, dove per alloggio non trovò che la misera casa del giudice regio. La mattina del 6, parti per Cosenza fra le acclamazioni degli abitanti della valle del Crati, accorsi da ogni parte a fargli omaggio. Benchè la tappa fosse piuttosto lunga, giunse a Cosenza verso il tramonto, e le accoglienze furono anche colà entusiastiche. Ma non vi si fermò, proseguendo per il prossimo casale Donnici, dove passò la notte in una rozza casa di campagna, appartenente all’avvocato Orlandi e tenuta in fitto da un tale Parise, di San Stefano, fabbricante di cera, che poi divenne fastidioso pretendente di compensi, e al cui figlio, prete, il Re concesse un assegno sulla badia di San Lucido. Oggi quella casa, rifatta completamente, appartiene alla famiglia Bombini.
La dimane, 7, tornò a Cosenza, che percorse senza scorte, nè battistrada, fra nuove e più calde acclamazioni. Salito sul palazzo dell’Intendenza, fu chiamato al balcone dalle grida popolari, e vi comparve. Dette larghe udienze, fece delle grazie, largì dei sussidii e assistette la sera alla grande illuminazione, mostrando di gradir molto un enorme trasparente, che rappresentava la Calabria in atto di fargli omaggio.
Il Re ebbe in questo viaggio un contegno addirittura stravagante: fu più volte scortese senza necessità; capriccioso, mordace, caparbio e diffidente sempre; trovò facili pretesti per motteggiare sulle cose del 1848 e rimproverare in pubblico le autorità, ritenute sospette politicamente. Ne diè una prova a Cosenza, quando i giudici della Corte Criminale, in grande toga, con a capo il loro presidente Luigi Corapi, si recarono ad ossequiarlo. La Corte di Cosenza, specie il suo presidente, non erano nelle grazie del Re, il quale attribuiva al Corapi la sentenza venuta fuori, proprio in quei giorni, con la quale era messo in libertà provvisoria Donato Morelli, imputato "di cospirazioni ed attentati all’oggetto di distruggere e cambiare il governo, ed eccitare gli abitanti del Regno ad armarsi contro l’autorità reale„. Appena i magistrati s’inchinarono, il Re, con piglio severo, squadrò il Corapi e gli disse bruscamente: "Presidente Corapi, io non sono contento di voi„. Il Corapi fece un profondo inchino e nulla rispose; ma, tornato a casa, indossò l’abito nero e, ripresentatosi al Re, gli disse: "Dopo le parole di Vostra Maestà al presidente Corapi, questi non può che rassegnare, come fa, le sue dimissioni„. Ferdinando II fu scosso da tale atto di dignità; non trovò parole da rispondergli e solo ordinò a Scorza che fossero accolte le dimissioni, ma che si corrispondesse al Corapi l’intera pensione, che allora equivaleva all’intero stipendio. Il Corapi, che onorò la magistratura napoletana in tempi difficili, morì in tarda età, dopo il 1860. Era nonno materno del deputato Bruno Chimirri.
Nelle ore pomeridiane del giorno 8, il Re lasciò Donnici e giunse verso sera a Rogliano. Le altre volte era stato ospite in casa Morelli, ma questa volta preferì l’incomodo alloggio nel convento dei Cappuccini, le cui umili celle erano state addobbate con mobili, requisiti presso la famiglia Morelli da un capitano di gendarmeria. L’incidente più notevole di quella ospitalità fu la conoscenza, che il Re fece di frate Antonio "fra’ Ntoni", laico, in odore di santità, il quale dispensava ricette per guarire e si assicurava che facesse qualche miracolo. Non si lavava mai, e il sudiciume dei suoi abiti e della cella era reso maggiore dalla sua stravagante passione per un ghiro, che aveva addomesticato e gli dormiva addosso, obbedendogli come un cane. Il Re andò a visitarlo nella cella, e Fra’ Ntoni, mostrandogli il ghiro, gli disse che il popolo doveva essere al suo Re così affezionato, come il ghiro era affezionato a lui.
La mattina del 9, lasciò Rogliano alle 10. Dette udienza alla signora Morelli, madre di Donato e di Vincenzo, contro i quali era aperto il grave processo politico; ma la signora non udì rispondersi che queste secche parole: "Fate fare il giudizio„, nè risposta più confortante ebbe la figlia di Saverio Altimari. Traversò Rogliano a piedi, in mezzo al suo stato maggiore; poi montò a cavallo, e passando sotto gli archi di trionfo innalzati in suo onore nei paeselli di Carpanzano e Scigliano, giunse all’osteria di Coraci, dove una divisione delle truppe l’aveva preceduto, e dove un’altra divisione lo raggiunse. Anche Coraci fu doppia tappa, ed egli vi fece eseguire alcuno evoluzioni. Vi ricevette l’intendente Galdi, che gli era andato incontro al confine della provincia, il comandante generale Salerno e le altre autorità. Con l’intendente si mostrò assai freddo. Egli conosceva la vita intima dei suoi funzionarii, e contro il Galdi era mal prevenuto; raccoglieva volentieri pettegolezzi e maldicenze e, all’occorrenza, se ne serviva senza dignità di Re. Licenziando quei funzionarii, disse loro che li avrebbe riveduti a Catanzaro l’indomani, e quelli partirono, dopo aver presi con lo stato maggiore gli accordi circa il ricevimento in quella città, dove si calcolò che il Re non potesse arrivare prima delle 4 pom. Alle 3 antimeridiane del giorno 11, egli mosse a cavallo alla volta di Tiriolo, seguito dalle truppe. Era notte fitta. A Soveria udi la messa, e giunto a Tiriolo, non vi si fermò che per montare in vettura, ordinando ai postiglioni di sferzare i cavalli.
A Catanzaro si erano fatti apparecchi sontuosi per il ricevimento e il pranzo, e di questo aveva avuto incarico il giovane Leonardo Larussa, figlio dell’avvocato don Ignazio, che era stato deputato nel 1848, e morì poi consigliere di Cassazione e senatore del Regno d’Italia. Furono elevati per la circostanza parecchi archi trionfali con ampollose epigrafi. Eccone un saggio:
Viva Ferdinando II, il più clemente dei Re;
e quest’altra:
Sei Grande, sei Pio, sei Padre, sei Re! |
Essendo recenti i ricordi del 1848 con le relative condanne, molti speravano grazie dal Re, preceduto dalla voce che compiva quel viaggio per rendersi conto dei bisogni del Regno, e per riparare con la clemenza ai rigori dei giudici. Le autorità avevano stabilito di ritrovarsi alle due all’Intendenza; i magistrati avevano mandate le toghe e i cappelli a canalone in casa del procuratore generale Altimari, per vestirsi tutti insieme. Cittadini e funzionarii pregustavano la gioia di rivedere il Re in ora così comoda, dopo aver desinato e dormito.
Era mezzogiorno e mezzo, quando si udì un rumore insolita e strepito di cavalli; e prima che ne corresse la voce, il Re era entrato in città. La trovò deserta. Credette da principio ad un complotto politico; si turbò e ordinò di andare diritti al duomo, ma questo era chiuso e il vescovo De Franco faceva la siesta. Crebbe l’irritazione, perchè cadde un cavallo della sua carrozza. All’Intendenza non trovò nemmeno il picchetto di guardia, ma solo pochi militi urbani dei paesi vicini, venuti a prendere ordini e vestiti coi loro costumi caratteristici. Uno di essi, con lo schioppo a tracolla, si accostò al Re per baciargli la mano, e per poco non gli ruppe la testa. Chiese dell’intendente, e gli si rispose ch’era andato al duomo, come v’era corso difatti, infilandosi l’uniforme per via e gridando come un ossesso. Non trovato però il Re al duomo, tornò trafelato all’Intendenza, più morto che vivo. Catanzaro pareva una gabbia di matti. La gente si precipitava nelle vie, i magistrati correvano alla casa del Procuratore Generale a vestir le toghe e a prendere i cappelli; ma scambiando, nella confusione, toghe e cappelli, provocavano scene comiche ed episodii grotteschi. Discesi nella via, correvano come pazzi dal duomo all’Intendenza, in cerca del Re.
Questi, smontando nel cortile dell’Intendenza, licenziò le due guardie d’onore che lo avevano seguito, il barone Luca Orsini di Cotrone e il marchese Domenico Gagliardi di Monteleone, il quale, appena giunto in casa Larussa, di cui era ospite, dovè mettersi a letto, per curarsi delle gravi fiaccature riportate dal lungo trottare. Il Gagliardi, fratello minore del marchese Francesco, era un tipo eccentrico: portava costantemente gli speroni e indossava una specie di tabarro fra il militare e il borghese.
Salendo le scale, il Re vide venirgli incontro, affannosamente, la signora Galdi e le disse, con marcata ironia: " Meno male che trovo alla fine una persona, che mi addita la mia stanza da letto„; e scorgendo a poca distanza da lei un giovane piuttosto elegante, con la barba a collana, chiese bruscamente: "Voi chi siete?„, E alla risposta, che era il ricevitore generale Musitano, vivacemente replicò: " Va a tagliarti subito questa barba; qui non hai nulla da fare», lasciando capire che gli erano note le ingerenze del Musitano nelle cose intime della provincia. Entrato nell’appartamento destinatogli, volle che si chiudessero le porte, e per qualche ora regnò un silenzio pauroso, che fece diffondere la voce che il Re sarebbe partito immediatamente. Il giovane Larussa, appena vide il trattamento fatto al Musitano, si allontanò, ma più tardi fu mandato a chiamare da Alessandro Nunziante, e interrogato circa i preparativi del pranzo. Larussa rispose che si era tutto disposto, ma Nunziante gli fece intendere che il Re non accettava nulla. Difatti il cuoco reale rifiutò persino delle ottime frutta e dei pesci squisiti, fatti venire da Pizzo. Anche i piatti e i bicchieri appartenevano alla cucina reale.
Il Re fece giustizia sommaria con le autorità. Ricevè l’intendente, solo per dirgli che fra un’ora partisse per Pizzo e vi attendesse ulteriori ordini; revocò dal comando il generale Salerno e lo sostituì col colonnello Billi, che morì in Catanzaro cinque anni dopo, e che si disse aver guadagnato una forte somma, stando in rapporto coi briganti che infestavano la provincia; ma nulla fu dimostrato. La sua moglie era una Starrabba, nipote del principe di Giardinelli, vecchio intendente di Catanzaro. Ferdinando II retrocesse inoltre alla seconda classe il capitano di gendarmeria De Cicco, e altro avrebbe fatto, se per l’intervento di alcuni ufficiali del seguito, e specialmente del capitano Gerolamo de Liguoro, che aveva una sorella maritata a Catanzaro, non si fosse via via rabbonito e persuaso che non s’era trattato di complotto, o di mancanza di rispetto, ma semplicemente di un equivoco, credendosi che S. M. sarebbe arrivata tre ore dopo. Non revocò gli ordini dati, e solo concesse all’intendente di non partire per Pizzo che l’indomani, vinto, si disse, dalle lagrime della signora Galdi, la quale ne interessò anche il conte di Trapani, ma ne ebbe questa curiosa risposta: "Signora mia, son dolente del caso, ma non posso far nulla per lei, perchè Sua Maestà vuole che io l’accompagni a preferenza degli altri principi, perchè io solo non lo annoio con delle raccomandazioni„.
Il segretario generale Guerrero ebbe le funzioni d’intendente, nel tempo stesso che il Re nominava successore del Galdi il Morelli, procuratore generale della Corte criminale delle Puglie. Rimandò le autorità, compreso il vescovo De Franco, i vescovi di Squillace e di Cotrone e l’arcivescovo di Santa Severina, facendo sapere a tutti che li avrebbe ricevuti l’indomani: solo trattenne don Pasquale Barletta, presidente della Gran Corte Civile e commissario straordinario per la Sila.
Prima del tramonto uscì a piedi, e si recò a vedere i lavori della strada che si costruiva per Cotrone. Di ritomo, vide illuminata la chiesa dell’Immacolata, dirimpetto all’Intendenza e vi entrò per ricevere la benedizione. La confraternita della chiesa volle ricordare l’augusta visita con una lapide, che tuttora si legge; e poichè l’altra confraternita, detta del Rosario, ingelosita dell’onore che per caso il Re aveva fatto alla chiesa dell’Immacolata, lo acclamò suo priore onorario; quella dell’Immacolata volle a suo priore onorario il duca di Calabria. Le due confraternite erano rivali, anche perchè quella dell’Immacolata si diceva composta di liberali, e l’altra di retrivi.
Il Re tornò a casa fra le acclamazioni della cittadinanza e pranzò col seguito, al quale disse che per la stagione inoltrata aveva deciso, dopo la visita alla Mongiana, imbarcarsi a Pizzo per Napoli. Ordinò infatti che l’artiglieria e la fanteria si raccogliessero fra Monteleone e Pizzo, e la cavalleria tornasse a Napoli, seguendo la via delle Puglie. Fosse prevenzione, paura o abitudine di celar l’animo suo, egli cambiava improvvisamente risoluzioni e ordini; e poichè per mancanza di telegrafi — funzionava imperfettamente sulle coste quello ad asta — non vi era modo di eseguire i suoi contrordini, avvenivano confusioni e n’era vittima egli stesso. Così quella sera disse che non avrebbe proseguito il viaggio per Reggio e Messina, e invece lo compì sino a Catania. L’uomo era fatto cosi, e quell’arrivo precipitoso a Catanzaro fu una vera pazzia voluta da lui, per capriccio. Aggiungerò un particolare. Al punto detto della "Fiumarella„ poco prima di entrare in città, il tenente Partitario della gendarmeria a cavallo, che scortava la carrozza reale, profittando che questa, per la ripidezza della salita, aveva rallentata la corsa, mise il cavallo al galoppo per passare innanzi, ma il Re lo richiamò con queste parole: " Neh! Partità, tu cuorri pe’ porta ’a notizia a Catanzaro; torna al tuo posto„. " Maestà, rispose balbettando il tenente, son costretto a smontare per compiere un piccolo bisogno„; e il Re: "Va bene, ma sbrigati„. Tutti trovarono che le punizioni inflitte al Galdi e al Salerno erano ingiuste, ma il Re fu implacabile. Il Galdi fu più tardi richiamato in servizio nell’amministrazione finanziaria.
L’indomani cominciarono i ricevimenti. Negò l’udienza alla baronessa Eleonora Vercillo, nata De Riso; e poichè questa, mal consigliata, si trattenne in un’anticamera per dare al Re una supplica a favore del fratello Eugenio, gravemente compromesso per 1 fatti del 1848, il Re, vedendosela dinanzi, e saputo chi fosse, la respinse, onde la povera signora fu colta da uno svenimento, e fu necessario portarla via sopra una sedia. Fece grazia al marchese Vitaliano de Riso, il quale, condannato a 25 anni di carcere, vagava per i boschi da quattro anni, e vestito da prete, era giunto a Catanzaro, per presentarsi personalmente al Re. La grazia fu concessa, soprattutto perchè del marchese Vitaliano de Riso s’interessò la simpatica e intelligente sorella di lui, donna Antonuzza, moglie del maggiore Lepiane. Si disse che questa signora avesse fatta una strana dimostrazione liberale, attaccando coccarde tricolori ad alcuni suini di sua proprietà e lanciandoli per le vie di Catanzaro, mentre entravano le truppe regie, reduci dall’Angitola, dove avevano sbaragliate le squadre insurrezionali. Non era vero. Donna Antonuzza, fidanzata nel 1832 al capitano Lepiane dei Cacciatori, molto ben visto dal Re, aveva avuto l’onore di ballare col giovane Sovrano in quell’anno stesso, nel quale egli fece il suo primo viaggio in Calabria.
Il Re concesse anche grazia a 42 condannati fra politici e comuni, i quali, usciti di carcere, improvvisarono una clamorosa dimostrazione in suo onore. Ordinò che fosse arrestato un triste soggetto, certo Giuseppe Calvo, manesco e bestiale, che incuteva paura alle autorità, anzi ne vendeva la protezione e per malo animo maltrattava la moglie crudelmente. Tutta Catanzaro applaudì, ma il credito delle autorità locali non ne guadagnò punto.
Doveva esser ricevuta prima la deputazione di Cotrone, e il maggiordomo, principe di Iaci, chiamò: "La deputazione di Cotrone" — "Nossignore, gridò il Re dalla sala di udienza, quella di Pizzo". Grande sorpresa nell’anticamera. La deputazione della fedelissima città di Pizzo era formata da don Gaetano Alcalà, figliuolo di quell’ottimo agente del duca dell’Infantado, che aveva mostrata una pietosa premura per Gioacchino Murat, da don Luigi de Sanctis e dal canonico Greco, poichè un prete ci voleva. E qui lascio la parola all’Alcalà. "Mentre eravamo in attesa di essere ricevuti dal Re, il maggiore Piazzini della gendarmeria, mio intimo amico, il quale comandava il plotone di scorta, mi chiama da parte e mi disse tutto spaventato: "Sai che avvenne ieri a Musitano per l’affare della barba? Ti consiglio quindi toglierti subito la piccola mosca che hai, perchè potrebbe spiacere al Re, benchè forse a te non direbbe nulla, essendo tu un particolare„. Corsi nella stanza del colonnello Nunziante e dissi al suo cameriere: "Angiolo, dammi un rasoio, e tieni in mano lo specchio„. Angiolo ubbidì e io, in un attimo, mi tolsi la moschina e tornai al mio posto, nel momento che eravamo invitati dal Re ad entrare. Sua Maestà stava diritto in mezzo alla sala, e a due passi da lui il principe ereditario a destra, e il conte di Trapani a sinistra. Offrendo a S. M. gli omaggi di Pizzo fedelissima e pregandolo di onorare la città di una sua visita, il Re ci rispose cortesemente: "Mi dispiace, signor Alcalà, dell’incomodo che vi siete dato di venire fin qui, e mi dispiace pure che maggiore incomodo dovremo dare al vostro paese, avendo deciso d’imbarcarci tutti colà per Napoli„.
Fu chiamata poi la deputazione di Cotrone. Questa era formata dal barone Alfonso Barracco, da suo fratello Maurizio, dal marchese Antonio Lucifero e dal signor Bernardino Albani: quattro cugini, i quali rappresentavano la parte più eletta e facoltosa di Cotrone. Il barone Barracco diresse al Re un sobrio discorso di felicitazioni, invitandolo a passare per Cotrone, che sarebbe stata felicissima di una visita. Il Re rispose che sarebbe lieto di compiacere la buona popolazione di Cotrone, ma gliene mancava il tempo e sperava in altra occasione far contenti i Cotronesi. E qui lascio la parola al marchese Antonio Lucifero. "Ci domandò se dimoravamo in Catanzaro, ed alla risposta che eravamo venuti da Cotrone, percorrendo quaranta miglia solo per felicitarlo, egli ripigliò che ci volevano certamente molte ore di carrozza; e noi dicendogli che la strada rotabile non era finita, e che bisognava fare tutto il cammino a cavallo, parve che se ne maravigliasse e ci ringraziò di nuovo. Baciammo la mano prima a lui e poi al principe ereditario, del quale la mano tremava in modo da impressionarmi. Fatta la riverenza al conte di Trapani, questi, vedendo Maurizio Barracco che conosceva, gli disse, maravigliato: "Vui cca site?„1 "A rendervi servigio, Altezza„, rispose Barracco; e il principe "Io vi credeva a Napoli„.
Ecco l’impressione che del Re ebbe il marchese Lucifero: "Contava allora 42 anni appena, ma ne mostrava di più; aveva una persona, di quelle che si dicono scassate; l’abito militare negletto e vecchio, o almeno pareva tale; l’aspetto non antipatico, ma la voce aveva un suono poco gradevole e sottile, in proporzione alla grossezza del corpo.2
Compiuti i ricevimenti, il Re visitò l’ospedale e il collegio, dove fu ricevuto da tutto il corpo degli insegnanti, con a capo il rettore padre Gerolamo Giovinazzi, delle Scuole Pie. Andò prima nella sala dei ricevimenti, dove il fanciullo Felicetto Tocco recitò una poesia d’occasione. Il Tocco, oltre ad essere il più giovane degli alunni, appariva, per la statura minuscola e la figura graziosa, addirittura un bambino. Felicetto non era convittore, ma solo alunno esterno; aveva nel collegio altri due fratelli, e qualche anno dopo vi entrò anche lui. Era allora un enfant prodige, perchè dotato di forte memoria e di straordinaria vivacità. Solo Bernardino Grimaldi, anch’esso alunno del collegio, poteva rivaleggiare con lui, ma Bernardino, maggiore di età, non era bello. Dopo la poesia recitata dal piccolo Tocco, i convittori intuonarono un inno di saluto al Re. Dell’inno il Capialbi mi manda alcuni versi, probabilmente il ritornello della marcia, con la quale erano stati musicati:
.... Voi la Borbonia Stella |
Il Re si mostrò sodisfatto da questa dimostrazione, ringraziò vivamente il rettore e i padri scolopii, si fece condurre innanzi il Tocco e lo carezzò sul viso. E poiché pioveva, protrasse la visita nel collegio e volle veder tutto. In una sala, ove erano raccolti alla meglio alcuni oggetti di storia naturale, il professore Tarantini, laico, mostrò al Re una collezione di conchiglie, ad una delle quali, che egli credeva aver per il primo scoperta, aveva dato il nome di Rotopea borbonica. Essendosi poi il Re avvicinato a una finestra, il padre Giovinazzi gli mostrò un piccolo campo sottostante, dicendo che quello era l’Orto Botanico; e il Re, sorridendo, gli rispose: "Mettetece ’e lattughe!„ Nelle ore pomeridiane del giorno 13 parti per Tiriolo sotto una pioggia dirotta. Vi giunse la sera e prese alloggio nel convento dei Cappuccini. Tiriolo era il quartier generale, e il Re vi si fermò un giorno e mezzo.
A Tiriolo passò in rassegna, la mattina del 15 onomastico della Regina, le due divisioni, compresa l’artiglieria, che per isbaglio dello stato maggiore, era stata destinata a Miglierina, ignorandosi che non vi erano strade, nè sentieri per andarvi. Bisognò tornare indietro, dopo non poche avarie. Il Re ne fu irritatissimo. E per celebrare anche con atti di clemenza, la festa di sua moglie, che aveva lasciata puerpera, udì divotamente la messa, detta da monsignor Berlingieri, vescovo di Nicastro, e fece molte grazie, anche a condannati politici. Commutò a Silvio Spaventa, a Gennaro Barbarisi, a Dardano e ai fratelli Leanza e Palumbo la pena di morte nell’ergastolo, e ad Antonio Scialoja la reclusione in esilio perpetuo dal Regno. Distribuì molte elemosine, e prendendo commiato, verso mezzogiorno, dai frati Cappuccini, consegnò al guardiano cento ducati per i bisogni del convento. Acclamato dalla popolazione e seguito da un drappello di guardie d’onore e da uno squadrone di lancieri, partì col proposito di arrivare la sera a Mongiana, o almeno a Serra San Bruno. Fermandosi a Marcellinara per il cambio dei cavalli, gli si presentò il barone Saverio Sanseverino capo urbano, che portava la barba unita sotto la gola, come il Musitano, ed aveva in moglie una figliuola del marchese D’Ippolito di Nicastro, condannato per i fatti del 1848. Si era fatto credere al Re che il Sanseverino fosse proclive alle prepotenze, usurpatore di demanii e liberale. E però, come se lo vide dinanzi, lo investi con queste parole: "Voi grandi proprietari calabresi spingete con gli atti e le maniere le popolazioni al comunismo, il quale porterà il vostro danno, non quello della Corona. Va subito a tagliarti questa barba„. Gli intimò l’arresto, ma poi ordinò che andasse a domicilio forzoso in Catanzaro, dove lo fece rimanere più di un anno. Furono sequestrate tutte le armi di casa Sanseverino, non esclusi i fucili da caccia. Si scoprì poi di essersi caduto in un equivoco, perchè il Sanseverino era devotissimo al Re, e non fu poco addolorato che questi l’avesse creduto liberale. Era padre del presente deputato di Catanzaro.
Al ponte dell’Angitola, dove si arrivò poco prima del tramonto, si svolse uno degl’incidenti più caratteristici di quel viaggio. Vi erano convenute le autorità e le rappresentanze del circondario di Monteleone, col sottointendente De Nava, al quale il Re disse bonariamente: "Don Peppì, come stai?„ Al marchese Ferdinandino Gagliardi che, a nome del padre, andò a ripetergli l’invito di voler accettare la loro ospitalità a Monteleone, come le altre volte, rispose rifiutando. E ordinò che si proseguisse per Mongiana. Sarebbe stato un grave errore, poichè era tardi e la strada carrozzabile arrivava fino a Serra San Bruno. L’Alcalà, che si trovava presente con una rappresentanza di Pizzo, lo disse ai Nunziante, dei quali era amicissimo, e Alessandro ne informò il Re. Ma questi insistette; e insistendo alla sua volta il Nunziante, il Re perdette le staffe e, presente l’Alcalà, disse, tutto corrucciato: "Ho capito, partirò io con mio figlio, e voialtri andatevene a Pizzo; sapete che io mi spezzo, ma non mi piego„. E il Nunziante: "Maestà, noi vi seguiremo dovunque, anche a costo della vita„. Il duca di Sangro, il quale, benchè comandasse una brigata della colonna di spedizione, faceva parte del seguito, saputo dal Nunziante che le sue dissuasioni non eran valse a nulla, scoppiò in questa caratteristica invettiva, ma sottovoce: "Vada a farsi.... benedire una volta per sempre; ci ha bastantemente rotta la divozione in questo disastroso viaggio coi suoi capricci„.
La strada, che dal ponte sull’Angitola va a Mongiana per Serra San Bruno, valica uno dei nodi più eminenti del grande Appennino calabrese, scopre i due mari, penetra in provincia di Reggio, e per Stilo scende a Monastarace, sul Ionio. Mongiana è a più di mille metri di altezza, e per arrivarvi dal ponte sull’Angitola, occorrono oggi non meno di quattr’ore, con forti e freschi cavalli. Allora la strada finiva, come ho detto, a Serra, ed era assai mal tenuta e poi solamente tracciata fra i vetusti boschi di Serra e Mongiana. Si andava quindi incontro a un sicuro pericolo, ma il Re s’incocciò a non volerne sapere e ordinò la partenza. Avvenne però che la carrozza reale, nel fare la svoltata a sinistra, affondò malamente nell’arena del fiume. Il Re si levò in piedi, gridando ai postiglioni di sferzare i cavalli; ma questi, irritati, s’inalberarono e coi calci minacciavano di fracassar la vettura. I postiglioni protestarono che non era possibile proseguire con legni così pesanti. Vinto allora dall’evidenza, il Re ordinò di mala voglia che si proseguisse per Pizzo, dove si arrivò a due ore di notte.
Anche a Pizzo si rivelò la stravaganza del Re. Era stato disposto l’alloggio per lui nel padiglione dell’artiglieria alla Marina, vasto edifizio, già convento degli Agostiniani; ma egli, entrando in Pizzo, vista aperta e illuminata la chiesa di San Francesco di Paola, attigua ad un piccolo ospizio di Minimi, ordinò di arrestarsi, discese dalla vettura, entrò nella chiesa, fè cantare il Te Deum, e al padre correttore Tommaso Costanzo, che per cortesia gli disse: "Maestà, so che avete in questo viaggio onorati altri conventi; credo che non disdegnerete di onorare anche questa umile casa del nostro gran santo calabrese„, rispose: "Con tanto piacere„. Da principio si credette uno scherzo. Ma il Re disse al monaco: "Padre correttore, credo che avete qualche scala segreta dietro la sagristia che mena alle vostre celle„. — "Vi è, rispose il padre Tommaso, ma è molto indecente per Vostra Maestà„ — "Non importa„, replicò il Re, e salì e disse di volervi passare la notte. S’immagini la sorpresa e più la confusione del seguito. I bagagli erano stati mandati al padiglione di artiglieria, lontano due chilometri. Piccolo il convento e sfornito di tutto. Il cuoco di Corte, preparando un po’ di pranzo, chiese a un laico del carbone e dell’acqua, e ne ebbe in risposta che per il momento non vi erano. Il cuoco perdette la pazienza e napoletanamente scattò: "Embè, avete invitato ’o Re a stà ccà, e non avite fatto trova manco l’acqua„3. Intanto i canonici con tutto il clero, le confraternite e le autorità locali attendevano nella chiesa matrice la visita di Sua Maestà, e restarono con un palmo di naso. Mancando il convento anche del refettorio, s’imbandì la mensa sopra tavole rozze, in un corridoio; e dopo il pranzo, alcuni personaggi del seguito andarono a passar la notte al padiglione o in case private, e altri dormirono, con materassi per terra, nello stesso convento.
Il dì seguente, essendosi il corteo reale provveduto di legni leggieri, si partì per la Mongiana, rifacendosi il cammino sino all’Angitola. Il Re montò in un piccolo phaeton attaccato alla daumont, con un postiglione, avendo a sinistra il principe ereditario. Fece sedere nel posto di dietro il cameriere Galizia, che, premuroso e previdente, fungeva anche da maestro di casa, preparava i letti e arredava alla meglio le camere più o meno nude, dove il Re e i principi passavano la notte, coprendole, se molto sporche, con mussola bianca. A San Niccola da Crissa, dove incomincia più ripida la salita, quasi a mezza via fra l’Angitola e Serra, il corteo si fermò presso la magnifica sorgente delle cento fontane. Il Re scese a bere, e n’è rimasta la memoria. La giornata era fresca, prossimo il mezzogiorno e il Re sentiva appetito. Domandò al Galizia se avesse portato qualche cosa per la colazione, e il cameriere rispose mostrando due polli, ma dicendo di aver dimenticato il pane. Disse il Re "Non fa nulla — maggiore Piazzini, andate a procurarmi due pani di munizione„. Il Piazzini spronò il cavallo e tornò portando i due pani. Il Re ne ritenne uno per sè e dette l’altro al figlio, il quale cominciò a mangiare il pollo, ma non toccava il pane. Il Re se ne accorse ed esclamò: "Nè, Ciccì, tu magni senza pane?„ E il principe: "Papà, il pane è duro e stantìo„ . E tale era infatti, perchè confezionato da parecchi giorni. E il Re allora: "' Magnatello, e l’avarrissi sempre; ’o magnano i surdati, che so meglio ’e nui„.4 E il principe ne mangiò di mala voglia. Si arrivò a Serra San Bruno a 22 ore. Tutti gli abitanti di quell’alpestre paesello erano raccolti all’ingresso, dov’è la chiesa. Bruno Chimirri, allora fanciullo di dodici anni, ha conservato un ricordo esatto del passaggio del Re per Serra, e rammenta che lo vide arrivare, discendere, entrare nella chiesa e uscirne fra le acclamazioni. Egli era affacciato al balcone di casa sua, annessa alla chiesa. Ricorda la maestosa figura del Re, avvolto in un cappotto grigio, e quella, piuttosto meschina, del giovinetto principe ereditario. Nel tempio fu cantato il solito Te Deum e si ripartì. Ma la strada, divenuta affatto disagevole, venne tracciata dai contadini attraverso la foresta; anzi in alcuni punti dovettero i contadini sollevare di peso la carrozza reale.
A Mongiana, la grande fonderia militare e fabbrica d’armi del Regno, Ferdinando II passò due notti. Egli ne seguiva con molto interesse lo sviluppo, perchè con quello stabilimento mirava a liberarsi dalla soggezione straniera e soprattutto inglese, per la fornitura del ferro e delle armi. Si diceva pure che volesse farne il primo arsenale del Mediterraneo, come il più sicuro per la sua ubicazione. Quali fossero intanto le condizioni dello stabilimento, è riferito in questo rapporto, che, in data 17 ottobre, il comandante Pacifici diresse al D’Agostino, ispettore capo a Catanzaro:
Mongiana, 19 ottobre 1852, n, 855.
La sera del 16 andante questo Stabilimento riceveva l’onore di una visita quasi imprevista dell’Augusto Nostro Monarca, accompagnato dai ER. Principi, le LL. AA. RR. il Duca di Calabria, ed il Conte di Trapani. Ricevuti da me cogli Ufficiali tutti alle Pianure del Ninfo, procedè pel villaggio splendente di lumi, e si degnò prendere alloggio nell’umile mia dimora, esternando tutti i segni della bontà e della clemenza a Lui propria.
I primi pensieri della M. S. tuttocchè stracca pel lungo e penoso cammino furono dedicati allo Stato attuale di questo Stabilimento, ed ai mezzi di prosperarlo non solo, ma dando sfogo agl’impulsi del suo cuore benefico, mostrava la sua volontà di dar da vivere a genti moltissime, e di annuire alle immense suppliche ricevute nel suo cammino pel bisogno del ferro nelle Calabrie per gli strumenti agricoli. La sera stessa si benignava esprimere, che il dì appresso avrebbe rese liete le officine della sua Reale presenza.
Infatti questa visita desiata ebbe il suo compimento, e la M. S. tenendo presenti le posizioni, in cui è lo Stabilimento, rimase soddisfatto di tutto e di tutti: notò i progressi fatti dopo la sua prima venuta, si compiacque delle macchine o dei loro congegni. La Sovrana ispezione fu penetrante e minuta; fu notato lo stato delle fabbriche, delle cadenti coperture, dei canali, delle prese, di tutto. E quella grande intelligenza scovrì immediatamente che le condizioni attuali finanziarie, lungi dal poter fare immegliare i processi delle manifatture, non erano valevoli a riparare i tanti danni.
La Maestà del Re si compiaceva quindi esternarmi le sue intenzioni. Esse si riducono alle seguenti, che ho l’onore qui appresso di consegnarle, signor Ispettore:
1° Apertura di una strada per le miniere, passando per lo stabilimento di Ferdinandea, affine di diminuire il prezzo delle materie prime;
2° Traversa di congiungimento colla strada dell’Angitola, per la facilità dei trasporti delle produzioni;
3° Attivazione della Ferdinandea, senza trascurare in nulla la Mongiana, nello scopo di dare da vivere agli abitanti di quei con vicini paesi;
4° Ritornare all’esplotazione della Grafite di Olivadi per lo stesso scopo;
5° Vendita del ferro duttile nelle tre Calabrie, onde appagare le numerose suppliche ascoltate dalla M. S. per la fabbricazione degli strumenti di Agricoltura, ed altro;
6° Riduzione della Mongiana a Colonia Militare, come S. Leucio, in vista di rendere anche questo punto un Nucleo di difesa;
7° Apertura delle Filiazioni;
8° Essere scarso il numero degli Uffiziali qui adibiti atteso lo sperperamento delle officine.
La M. S. inoltre per le suppliche dei creditori della gestione 1848 e 1849, porzione del quali hanno contro mandato di arresto, ed alla mia risposta, con cui le feci noto per quanto stragiudizialmente io sapeva, Ella con favorevole avviso avea inoltrato i rendiconti di questi anni, comandava che colla massima sollecitudine venissero liquidati.
Il Re N. S. esternò anche il desiderio che la Chiesa fosse convenevolmente ingrandita e decorata.
Da ultimo la prelodata M. S. nel congedarsi la mattina del 18 m’impose di manifestare all’ordine del giorno il suo pieno contento, così per le varie officine dello Stabilimento, come per la tenuta di questa truppa di artiglieria.
La sera del 18 si giunse a Monteleone, senza fermarsi a Pizzo. Erano colà convenuti i vescovi di Mileto, di Tropea e di Squillace. Questi vescovi, il sindaco Mannella, quasi tutta la popolazione con le confraternite, precedute dai rispettivi stendardi, uscirono fuori del paese ad incontrare il Re, mentre le campane delle chiese suonavano a festa. All’ingresso era stato costruito un arco trionfale, e piccole bandiere bianche coi gigli d’oro erano agitate dalla folla che ingombrava la via Forgiari. Attraversata questa via, il Re e i principi infilarono il Corso e andarono direttamente al duomo, dove furono ricevuti dal Capitolo, che cantò il Te Deum. Il Re restò seduto sul trono, coperto con gli antichi arazzi della famiglia Dominelli.
Dal duomo si andò alla Sottointendenza, addobbata con mobili mandati da casa Gagliardi, anzi il sottointendente De Nava, ignorando che il Re portasse seco, in apposito furgone, tutto ciò che serviva alla sua cucina particolare, richiese il Gagliardi anche di commestibili, ma il vecchio marchese rispose che questi egli li dava in casa propria e se ne faceva responsabile, ma fuori di casa, no. Il De Nava era zio del presente deputato. Dalle finestre il Re assistette allo spettacolo di fuochi pirotecnici e alle clamorose dimostrazioni dei cittadini di Monteleone. Il giorno appresso, visitò il collegio Vibonese, dove fin dall’aprile di quell’anno insegnavano i padri delle Scuole Pie. Ferdinando II non volle sedere sul trono, e rimase familiarmente in mezzo agli alunni, i quali, sull’aria del coro dei Lombardi, cantarono un inno, le cui strofe finivano col ritornello:
Di Fernando la fronte sublime |
Per ricordare l’avvenimento, vennero murate sull’ingresso del collegio due lapidi in marmo, le quali nel 1860 furono stupidamente coperte e poi tolte addirittura.
Il Re ricevette alcune deputazioni e fra esse, quella del comunello di San Gregorio. E qui avvenne un altro incidente caratteristico. Avendo la deputazione chiesta la grazia di aumentare la sovrimposta fondiaria per un solo anno, al fine di riparare una strada e spendervi non più di 60 ducati, il Re si mostrò di ciò così irritato, che la commissione ne fu impaurita e lasciò di corsa la sala di ricevimento, suscitando le risa di lui e dei principi. Promise che avrebbe impiantato a Monteleone un orfanotrofio maschile; e l’orfanotrofio venne infatti inaugurato il 30 maggio dell’anno dopo, onomastico del Re, con un discorso del sottointendente De Nava, e un’elegante poesia di Carlo Massinissa Presterà, poeta monteleonese.
Nelle prime ore pomeridiane, il Sovrano parti con una parte minima del suo seguito. Ordinò che gli altri tutti, militari e borghesi, lo attendessero a Pizzo, al ritorno dalla Sicilia. Pizzo divenne una caserma di generali e di ufficiali di stato maggiore. Accompagnarono il Re i fratelli Nunziante, De Sangro, Afan de Rivera Schumacher e i direttori Scorza e Murena. Si sperava di arrivare la sera a Bagnara, ma la notte innanzi si scatenò una bufera che rese impraticabile la strada; tanto che in alcuni punti le popolazioni accorsero, con zappe e badili, a sgombrare la terra ammassata, e così le carrozze poterono passare. A Mileto si fè sosta pochi minuti, per vedere il celebre duomo, fondato da Ruggiero, e anche meno, a Rosarno, a Gioia e a Palmi. Si giunse a Bagnara nel cuore della notte e sotto un diluvio. Il Re rifiutò, come al solito, qualunque ospitalità privata e preferì andare nell’unica locanda, tenuta da un tale Vincenzo Pino: locanda per modo di dire, perchè era una casetta di due piani, con poche camere nude affatto e alle quali si accedeva mercè una piccola scala di legno. Alloggiò al secondo piano, e sotto i suoi passi pareva che si sfondasse il pavimento, perchè la casa, mal costruita, tremava tutta. Il locandiere volle procurare della biancheria fine, ma il Re, toccate le lenzuola, disse alla moglie di lui: "Questa non è la biancheria che dai a tutti i passeggieri; no, no, io voglio roba ordinaria; devi trattarmi come tutti gli altri„. E strappò le lenzuola dal letto. La locandiera rifece allora il letto innanzi al Re, che le disse: "Così mi piace; questi sono i più bei giorni della mia vita„. La stanza, dove dormì il Re, fa chiusa dal Pino e mostrata, a quanti vi capitavano, con le parole: "questa è la stanza del Re„; ma dopo il 1860 non lo disse più.
Ferdinando II giunse a Reggio nelle ore pomeridiane del 20 ottobre.
Da Villasangiovanni a Reggio il Re passò sotto molti archi di frasche, disposti lungo la strada, specialmente nei villaggi di Santa Caterina e dell’Annunziata. Lo seguiva una scorta di guardie d’onore. Erano ad attenderlo all’Intendenza parecchi gentiluomini del paese, col sindaco alla testa e, tra questi, diversi che avevano avuto taccia di liberalismo ideale. Mentre costoro stavano nella prima sala del palazzo, sopraggiunse Alessandro Nunziante che precedeva il Re di qualche ora. Entrò nella sala senza nemmeno rispondere ai saluti, cercò d’aprire una porta, e poichè questa resistette, anzichè ritentare la prova, l’apri con un calcio. Pareva un forsennato. "Ma questi è pazzo„, disse don Diego Logoteta, e si avanzò forse per fermarlo; ma il barone don Antonino Mantica afferrò l’amico per la coda della marsina e lo trattenne, dicendogli: " Ma che volete compromettervi?„.
Il Re, come giunse, si recò difilato al duomo, e tornandone, proprio di fronte all’Intendenza, successe un fatto veramente strano. Tre persone fermarono i cavalli della carrozza reale, mentre una quarta si avvicinò audacemente allo sportello, e levando in alto un pane di terza qualità, e battendo colla mano sul ginocchio del Re, gli disse: "Maestà, ecco il pane che mangia il popolo„. Il Re, riavutosi dalla prima sorpresa, lo afferrò per il collo, e dicendogli: "Nè, caprè5 — alludendo alla barba che portava sotto il mento — vedi che ti faccio dà ’e legnate„ lo consegnò alle guardie. Era un tal Pellicano, soprannominato paddazza, cocchiere del consigliere d’intendenza Giacinto Sasso, devotissimo al Re. Il fatto fece molto rumore. Si credette ad un attentato, e Alessandro Nunziante intimò al capitano di guardia sul portone del palazzo: "Arrestate chiunque vi si ordinerà di arrestare; sia pure l’arcivescovo„. Il Re, però, saputa la verità dell’incidente non ne fece gran caso; ma la sera non intervenne allo spettacolo di gala al teatro.
Il giorno appresso tenne udienza. Gli fu presentata dal cavaliere Cesare Monsolini, capo plotone delle guardie d’onore, la signora Marianna Plutino, moglie di Agostino Plutino, profugo politico. Ella condusse i suoi figliuoli, il maggiore dei quali, Fabrizio, era appena dodicenne. La povera signora domandò che venisse tolto il sequestro dai beni del marito; ma il Re, di mala grazia, le rispose: "La vostra famiglia è pericolosa alla Società; dovete avere quanto vi basta per vivere; andate„. I bambini scoppiarono a piangere, ma il Re non si commosse. Visitò il collegio e l’educandato femminile, e verso sera uscì in carrozza col principe ereditario, che gettava qualche tarì ai monelli. La mattina del 23, presi gli accordi col generale Filangieri, che gli era venuto incontro fin dal giorno innanzi, partì sul ' Tancredi per Messina. Il principe di Satriano lo precedette di alcune ore.
A Messina i preparativi erano stati condotti a termine con febbrile attività. Venne costruito un ampio sbarcatoio, la città fu tutta imbandierata e la gente si riversò in folla sulla banchina. Appena fu visto il Tancredi staccarsi dal lido di Reggio, prima l’Ercole e l’Ettore Fieramosca, navi da guerra ancorate nel porto, e poi la cittadella e i forti cominciarono le salve. Il Tancredi si accostava lentamente. Il Re era in piedi, a poppa, tra il figlio e il fratello. Sullo sbarcatoio lo aspettavano le autorità, col generale Filangieri alla testa, e i notabili. Le grida festose arrivavano al cielo. Il Re coi principi e l’intendente montò in un calesse monumentale, foderato di damasco giallo, offerto dal negoziante Mauromati. La moltitudine tentò di staccare i cavalli e trascinare il legno a braccia, ma egli lo impedì. Sul predellino della carrozza era salito un impiegato dell’Intendenza, certo don Giuseppe Grosso, che urlava a squarciagola: Viva l’eroe delle Due Sicilie! Il Re se ne seccava. Saputo chi fosse, non si potè tenere dall’esclamare: "Quanto è f....„. E il Castrone, volendo fare dello spirito adulatorio e plebeo, rivolgendosi al Grosso: "Nè, Grò, ma’ si f. . . co’ decreto reale„. Grosso rise di compiacenza e seguitò a urlare: Viva l’eroe delle Due Sicilie! Il Re visitò prima il duomo, dove fu ricevuto dal cardinale arcivescovo Villadicani, il quale presentò a lui e ai principi la croce a baciare. Fu cantato il Te Deum, e ricevuta la benedizione, il Re si recò all’antico palazzo del Priorato, dov’è oggi la sede del prefetto e vi ricevè le deputazioni, venute da quasi tutti i comuni della provincia, ammettendole al baciamano.
Si recò poi a vedere i nuovi lavori di fortificazione nella cittadella e al forte del Salvatore, e dopo pranzo andò al teatro, dove c’era spettacolo in suo onore. Nel teatro furono sparse migliaia di cartellini con questi motti: La riconoscenza dei popoli è il trionfo della sovranità — Chi più riconoscente all’augusto Ferdinando II del popolo di Messina? E udite quest’altro: Ci ridonaste l’ordine e la pace — Sire — Ora ci concedete grazia novella — La presenza vostra augusta — I nostri voti son paghi — Viva il Trajano delle due Sicilie. Si rappresentò un’allegoria musicale, scritta da Felice Bisazza, messinese, cantore d’occasione. L’allegoria aveva per titolo: Il voto pubblico. Erano interlocutori: Messina, il Genio dell’industria, il Genio dell’ilarità, con cori di donzelle e di giovani. L’argomento era la venuta del Re, tanto sospirata. La musica fu composta dal maestro Laudamo e un coro cantava:
Pari ad angel, che sta nelle sfere, |
Il "Genio dell’ilarità„ soggiungeva:
Iddio ci arrise — della bella Aschene |
E la scena si chiudeva con la discesa dal cielo di due piccoli genii, i quali sostenevano una fascia d’oro che portava scritto: Viva Ferdinando II, mentre tutti cantavano:
Salve, o magnanimo |
Quando il Re si levò per uscire, si rinnovarono, manco a dirlo, le acclamazioni. Scese per la magnifica scala di marmo messa a ghirlande e a festoni, e andando al porto per imbarcarsi, ammirò, a San Leone, un gran trasparente, il quale rappresentava Re Ruggiero nel suo ingresso a Messina. La facciata del nuovo teatro era coperta da altro immenso trasparente, che rappresentava Ferdinando II, il quale stendeva la mano al commercio per sollevarlo. Alle 10 e mezzo s’imbarcò sul Tancredi col duca di Calabria, che diceva d’aver sonno. Il conte di Trapani accompagnato dall’intendente, partì per Catania in vettura, e Filangieri partì anche lui sul Tancredi.
Catania non si dimostrò inferiore a Messina. Non era la prima volta che il Re vi andava; vi era stato anzi varie volte, ma in nessuna ebbe, come allora, così entusiastiche accoglienze. La città lo aveva invitato durante la sua dimora in Reggio, col seguente indirizzo:
- Sire!
Nella felice occasione che la Maestà Vostra trovasi in luogo così prossimo alla Sicilia, si avviva nel petto de’ Catanesi il desiderio di vedere onorata la loro Città della Augusta Vostra Persona. Il Decurionato per ciò, prostrato a piè del Real Trono, osa intercedere, che a colmo di benefici si degni la Maestà Vostra render pago questo fervido voto della popolazione, che rappresenta, ond’essa poter più da vicino rassegnarvi l’omaggio della sua alta devozione, fedeltà e gratitudine.
Questo indirizzo portava la firma di tutti i componenti il Corpo della città. Era patrizio titolare il cavalier Gioeni, ma, per l’assenza di lui, funzionava da patrizio Tommaso Paternò Castello di Bicocca; ed erano senatori, il dottor Francesco Fulci, Francesco Moncada, Francesco Zappalà, Vincenzo Marletta e Carlo Zappalà Bozomo. Al Fulci nacque in quei giorni un bambino, che chiamò Ferdinando.
Il Re arrivò a Catania alle ore 7 antimeridiane del 24 ottobre. Era domenica. Scese prima il principe di Satriano e si pose alla testa delle autorità locali, le quali, con l’intendente Panebianco, attendevano sotto un elegante sbarcatoio. La folla gremiva il molo, e il porto era coperto di barche che circondavano il Tancredi. La gente acclamava a perdita di fiato, e il Re per ringraziare si toglieva il berretto. Pareva commosso da quelle accoglienze che forse non si aspettava. Andò al duomo tra una calca di popolo plaudente. Le vie erano tappezzate di arazzi e sparse di fiori, e lo finestre gremite di gente. Al duomo venne cantato l’immancabile Te Deum, e la benedizione fu data dall’arcivescovo Regano. Quando il Re mosse per andare ai Benedettini, dove aveva il costume di prendere alloggio, le campane della città suonavano a festa e il Tancredi faceva salve dal porto. I benedettini gli erano devotissimi. La famiglia monastica, la quale possedeva una rendita di ducati 82 600, pari a lire 360 626, era formata da 42 sacerdoti, da 14 novizii e da 22 conversi. Il monastero, vasto quanto una città e ricco d’influenza economica e morale, era fonte di beneficenza inesauribile. L’appartamento dell’abate, che occupava il Re, era degno di lui. Abate era don Enrico Corvaja, il quale, a capo della comunità, ricevette il Re ai piedi del magnifico scalone. Ferdinando fu scherzoso ed arguto con lui e coi monaci, dei quali conosceva parecchi, chiamandoli per nome, e ripetendo il solito suo saluto agli ecclesiastici: bacio le mani. Ricevute le autorità, ascoltò la messa. Scendendo in chiesa, volle che si sonasse l’organo, affermando che, pur avendolo udito altre volte, se ne sentiva sempre commosso. Cavò di tasca un libro di preghiere, pieno di immagini sacre, fra le quali fu vista quella di San Francesco di Paola. Quando, voltando le pagine, gli veniva innanzi qualcuna di quelle effigie, egli la baciava, e un monaco, tuttora vivo, assicura di averlo veduto anche piangere. Dopo la messa ci fu il ricevimento delle deputazioni.
Visitati i lavori del porto e l’ospedale militare e civile, tornò al monastero per il pranzo. Nell’attraversare un corridoio, gli si fece incontro un giovinetto, figlio di Gabriello Carnazza, il solo della provincia di Catania, che fosse stato escluso dall’amnistia, e con commosse parole perorò la causa del padre. Ferdinando II, impressionato dalla sveltezza del giovane, promise di provvedere, ma poi non ne fece nulla, e Gabriello Carnazza restò in esilio fino al 1860. Il giovinetto di allora, Giuseppe Carnazza Puglisi, fu poi deputato di Noto e Siracusa e sindaco di Catania, ed oggi è professore in quell’Università. Venne ricevuto dal Re anche il professore Catalano, il quale, insieme ai colleghi Marchese, Geremia e Clarenza Cordaro, era stato rimosso dal suo posto d’insegnante, per i fatti del 1848. Il Catalano disse coraggiosamente al Re, che come suo sovrano poteva fargli troncare il capo, se colpevole; ma non poteva rimuoverlo da una carica, che si era acquistata con lunghi studii. Il linguaggio franco e dignitoso del professore non fu senza effetto, perchè il Re ordinò che fosse il Catalano richiamato alla cattedra, ma i colleghi di lui non ottennero nulla. Il Marchese fu richiamato più tardi.
Alle nove il Re uscì in carrozza, accompagnato dal duca di Calabria, dal conte di Trapani e dal principe di Satriano, per godere lo spettacolo della città illuminata. Lampade di cristallo pendevano da tutti i balconi e le botteghe erano illuminate a cera. Sul piano di Sant’Agata sorgevano quattro trofei e altri quattro in piazza dei Quattro Cantoni; e fra i trofei, tele colorate a trasparente. Altro grandissimo trasparente era sul palazzo di città e rappresentava, in misura quasi doppia del vero, Ferdinando II. "Quella grande effigie — leggesi nell’accurata e inedita cronaca dell’avvocato Benedetto Cristoadoro — appariva, da lontano, come quella del Nume tutelatore che vegliava sulla città„. Mentre si tornava al monastero, giunta la carrozza al piano di Sant’Agata, da tutti i punti della piazza s’innalzarono a un tempo globi luminosi e si accesero fuochi. La folla si accalcava attorno alla carrozza del Re, acclamandolo pazzamente. Lasciò Catania a mezzanotte. Ebbe, lungo il percorso, altre rispettose accoglienze ad Acireale, a Giarre, a Giardini, a Letoianni, a Fiume di Nisi. La strada era perlustrata dai militi a cavallo, che fecero in quell’occasione un servizio perfetto. Durante le sette ore di viaggio, il Re non chiuse occhio; accolse benevolmente le numerose deputazioni che incontrò per la strada e giunse a Messina alle 7 del giorno 26. Vi entrò fra i due capitandarmi Raimondo e Saverio Pettini, i quali cavalcavano ai lati della carrozza. Riposò quattro ore, alle 11 e mezzo senti la messa, e dopo aver ricevuto altre deputazioni, andò, per la strada del Ringo, al piccolo tempio della Madonna della Grotta e assistette alla benedizione.
Un curioso aneddoto della dimora di Ferdinando II in Messina riguarda il percettore delle imposte, Francesco Marchese, un brav’uomo, popolare per la sua eloquenza enfatica. Egli si accostò al Re, gridando: "Maestà, grazia„. E il Re, che lo conosceva: "Oh, Marchese, mi ricordo di tuo padre; era un galantuomo; e tu che vuoi?„ "Maestà — riprese lui — dovete riparare a una ingiustizia: alla tassa sulle finestre„ — "Non l’ho messa io, ve l’avete posta voi stessi„. — "Sì, Maestà, rispose il Marchese; ma tanto paga la casupola del povero, che ha una o due finestre che il palazzo di V. M.; inoltre Messina ha un forte attrasso di fondiaria, come debbo riscuoterla io? debbo vendere i pagliericci della povera gente?„ "Bene, bene, disse il Re, fammi una domanda„. E il Marchese:"Dove potrò più vedere V. M.?„ "Vieni alle 11 alla chiesa di S. Giovanni di Malta„. L’istanza fu consegnata, e con due rescritti da Napoli il Re escluse dalla tassa le case, che non avessero più di tre finestre e condonò l’arretrato.6 La sera ci fu il gran ballo alla Borsa, le cui sale erano sfarzosamente addobbate e la scala coperta con magnifici tappeti, che prestò il monastero di San Gregorio. Per rendere il ballo più grandioso, fu occupato un altro quartiere, attiguo al palazzo. Dirigeva le danze Matteo Saya, giovane elegantissimo, che era stato capitano della guardia nazionale nel 1848. Il Re si trattenne qualche minuto con lui; e poi, a bruciapelo, gli chiese: "Ne’ Saya, tu eri capitano ’o quarantotto?„ Il Saya si strinse nelle spalle e non ebbe più voglia di divertirsi.
La deputazione della Borsa, che organizzò la festa magnifica e rappresentava il Circolo, era formata dall’avvocato Santi di Cola, col quale il Re si trattenne più lungamente a parlare, nella sala del bigliardo, sulle condizioni della città; dal Mauromati, che aveva ofrerta al Re la vettura per l’ingresso; da Antonio Flores, tuttora vivo e da Giuseppe Urso, uno dei maggiori eleganti del suo tempo. Fu quella la prima volta che il duca di Calabria assistesse ad una festa da ballo; come per la prima volta, nella stessa Messina, aveva assistito, la sera del 23, a uno spettacolo teatrale. Si mostrava più imbarazzato che compiaciuto. Ma non ballò, e la voce che egli pure avesse ballato, nacque forse perchè le danze furono aperte dal conte di Trapani, con la bella signorina Angelina Pettini, figlia del sottointendente di Acireale e che poi sposò il marchese di Condagusta, Antonio Villadicani. Il conte di Trapani si mostrò grazioso con le più belle signore e partecipò largamente alle danze. Poco dopo la mezzanotte, il Re lasciò la festa, e passando per l’altro portone del palazzo, che dà sulla marina, andò ad imbarcarsi. Salito sul Tancredi e prendendo commiato dalle autorità, la marchesa di Cassibile, moglie del sindaco, gli disse: "Maestà, vi raccomando Messina„; e il Re: "Messina mi starà sempre a cuore„. Ad un’ora il Tancredi fece rotta per Pizzo.
Non finirono con la partenza del Re le feste in suo onore, in Sicilia. Continuarono a pervenire istanze di città e di paesi, che sollecitavano l’onore di presentare al Sovrano i loro omaggi. Erano così numerose le insistenze, che il luogotenente fu costretto a diramare, il 28 ottobre, agli intendenti e sottointendenti dell’Isola questa circolare:
Da tutti i Comuni di questa parte dei Reali Dominii mi giungono delle suppliche per l'organo dei Decurionati, nelle quali, manifestandosi il vivo entusiasmo, destatosi nelle popolazioni allo annunzio che S. M. il Re S. N. avea visitato Messina e Catania, si chiede la permissione di potersi spedire in questa delle Deputazioni per mettere ai reali piedi gli omaggi della loro devozione e della loro fedel sudditanza.
Non potendosi per ora esaudire questo desiderio pel ritorno di già fatto dal Re nel continente, Ella farà sapere ai suoi Amministrati, ch'io sottometterò alla Maestà Sua questa loro ardente brama, nella non lontana speranza che il Monarca, onorando di Sua Augusta presenza questa città ed altre dell'isola, potranno le Deputazioni venire a tributarle le felicitazioni e gli omaggi.
Si noti lo studio del Filangieri di far intendere che il Re sarebbe tornato in Sicilia, onorando di sua presenza questa città, cioè Palermo.
Nè basta. Alcune concessioni relative al commercio provocarono da parte della nuova Camera di Commercio e del Senato messinese due indirizzi quasi ridicoli per la loro esagerazione, che un’apposita e numerosa commissione andò a presentare a Napoli. Ne fecero parte il marchese Cassibile, il senatore Giuseppe Cianciafara, il barone Giuseppe Calfapietra, decurione, il principe della Scaletta, il marchese Gerolamo de Gregorio Scotti e il giudice di tribunale Tommaso Cassisi, figlio del ministro, oltre ai rappresentanti della Camera di Commercio: una folla addirittura. Fu chiesta al Re l’autorizzazione di coniare una medaglia commemorativa per tanti beneficii! Messina veramente non ebbe misura in quella circostanza. Ci fu anche una tornata solenne dell’Accademia Peloritana, per commemorare la dimora reale nella città, ed ebbe luogo il 14 novembre. Nell’atrio dell’Accademia si leggeva un’ampollosa iscrizione. Presedette la tornata il cardinale arcivescovo, e il Mistretta, procuratore generale della Gran Corte Civile, recitò un discorso, nel quale parlò così del periodo rivoluzionario: "Ei venne e vide i suoi popoli riposarsi di già ricollocati e felici sotto l’antico scettro de’ Borboni, riconsecrato dall’amore più che dalla vittoria: vide questa terra or sono cinque anni tradita, venduta, trafficata da traditori e da stranieri, dopoché giacevasi come cadavere, senza scintilla di vita propria, senza indizio visibile di futura risurrezione risorgere più avventurosa, e innalzare l’inno della trasformazione sulla sepoltura, in che l’avevano precipitata in un periodo di crisi morale, gente che la tenne a strazio, da stancare Iddio e gli uomini; gente appestata, senza pure esagerare, d’irreligione, di egoismo, di ladronecci, di menzogne sociali e peggio„.
Al pazzo più che ridicolo discorso del procuratore generale fece riscontro un’ode saffica di Felice Bisazza, professore d’italiano all’Università. Di rado la servilità ispirò prose e versi più stravaganti. È vero che, con decreto del febbraio 1849, il generale Filangieri ripristinò il porto franco, ma le concessioni fatte dal Re, dopo la sua partenza da Messina e concernenti la diminuzione del dazio sui cotoni colorati, furono veramente povera cosa. Ma allora la gente si contentava di poco e applaudiva largamente. La proporzione del beneficio, o, come si diceva allora, la bonifica, variava curiosamente; e mentre il massimo era concesso alle Provincie di Messina, Catania, Caltanisetta e Noto nella misura dell’8 al 10%, per Trapani e Girgenti la concessione fu del 5% e per la città di Palermo del 2%. I rancori per Palermo erano tuttora vivi, e benché il principe di Satriano disapprovasse quella differenza, il Re non dava retta che a Cassisi e a Murena. Il decreto porta la data del 2 novembre 1852, con le firme dei ministri Troja, D’Urso e Cassisi. Il Re si riserbò di fare altre concessioni doganali a Messina, quando ne fosse compiuta la cinta murata, ma non ne fece più. Nondimeno, a giudicare dalle apparenze, la conciliazione tra Ferdinando II e le due città, bombardate quattro anni prima, apparve così piena e sincera, che Odillon Barrôt, presente a tutte quelle baldorie, potè scrivere enfaticamente a un giornale francese: "Spectacle sublime! c’est la plus eclatante réconciliation du légitime souverain avec son peuple!„
Quel viaggio fu il maggior trionfo di Filangieri, ma fu anche l’inizio delle sue disgrazie. Partito il Re, venne tolto lo stato di assedio nelle città di Catania e Messina, imposto con decreto del 28 marzo 1849, e Filangieri indirizzò un napoleonico ordine del giorno ai comandanti delle compagnie d’armi, per manifestare loro la compiacenza del Re e sua. Veramente il servizio fu perfetto.
Il Re arrivò al Pizzo l’indomani, 26 ottobre, e questa volta prese alloggio nel padiglione dell’artiglieria alla Marina, con tutto il seguito. Restò in Pizzo due giorni, occupandosi dei bisogni delle truppe, conversando napolitanamente con tutti, facondo qualche grazia, dando qualche sussidio; e alle 2 di notte del 28 ottobre, dopo aver assistito alla partenza delle ultime compagnie, s’imbarcò coi principi e col seguito sul Tancredi che fece rotta per Paola. Sbarcò all’alba del 29, per visitare quel tempio di San Francesco, ed alle 10 rimontò a bordo, giungendo in Napoli alle 2 e mezzo del mattino del 30 ottobre.
Cosi ebbe termine quel viaggio, che fu l’ultimo compiuto da Ferdinando II nelle Calabrie e in Sicilia. Esso non arrecò alcun reale vantaggio alle provincie calabresi, le quali seguitarono ad essere divise dal mondo e separate fra loro da distanze assurde. Il compassionevole abbandono, in cui il Re ritrovava, dopo otto anni, quelle provincie, prive di strade, di ponti, di telegrafi e di cimiteri, non lo commosse e assai meno lo turbò. Gli stessi pericoli, ai quali egli fu esposto per il pessimo stato delle vie, e i lamenti, per quanto umili e rispettosi, delle deputazioni che corsero a ossequiarlo, gli strapparono soltanto risposte sarcastiche, o promesse burlesche, ma non gli aprirono la mente sui bisogni di quelle contrade. La malaria fu fatale alle truppe, anche perchè vennero male alloggiate e mal nutrite, e non erano avvezze a marcie lunghe e disastrose. Morirono parecchi soldati e due ufficiali della Guardia Reale, molti gl’infermi e moltissimo il malcontento che quel viaggio lasciò nei soldati. Il generale Garofalo diceva, con ingenua tristezza ai fratelli Alcalà dei quali era ospite a Pizzo: "Ma non valeva la pena per una passeggiata sacrificare tanta gente; se si fosse trattato di una campagna di guerra ci saremmo rassegnati„. — Il Re, dopo qualche giorno, aveva tutto dimenticato, e solo si compiaceva rammentare gli aneddoti più caratteristici di quel viaggio singolare, felicitandosi di non aver fatto spendere nulla ai Comuni, alle Provincie e ai privati per ricevimenti; di aver messe a posto alcune autorità inette o prepotenti; date lezioni ricordevoli a parecchi capuzzielli calavrisi; fatta arrabbiare parecchia gente, con ordini e contrordini; decretato il restauro di molte chiese e monasteri e concessi sussidii per oltre dieci mila ducati, distribuiti da lui personalmente, perchè egli davvero non si fidava di nessuno. Ricordava, con comico terrore, di aver ricevute 28 000 suppliche per impieghi e soccorsi, e si compiaceva di essere stato molto parco nella concessione di onorificenze, nonostante le infinite richieste, non avendo difatti decorato che pochi sindaci e pochissimi capi urbani nelle Calabrie. Dopo qualche anno, anche queste ultime tracce erano nel suo animo cancellate. L’uomo era fatto cosi, e per le Calabrie e la Sicilia ebbe, finchè visse, un sentimento di diffidenza che non riusci mai a comprimere, e neppure a nascondere.
Note
- ↑ Voi qui siete?
- ↑ Il marchese Antonio Lucifero, morto a Cotrone nell’inverno scorso, fu uomo di molta probità, di vivace ingegno e padre dei miei amici, Alfonso, deputato al Parlamento, e Alfredo, comandante di fregata. Altri particolari del viaggio in provincia di Catanzaro, e quelli concernenti la deputazione di Pizzo, li devo al cavalier Gaetano Alcalà, che ebbi la fortuna di conoscere in Pizzo, nel maggio scorso. Questo bravo vecchio, che ha una memoria portentosa, mi ha scritto una lunga relazione di quel viaggio. Altre notizie di Catanzaro mi furono fornite dal conte Ettore Capialbi, il lodato scrittore della Fine di un Re, e da Vincenzo Parisio, la cui cultura è pari soltanto alla caratteristica e geniale pigrizia. Questi miei cari amici erano convittori nel collegio di Catanzaro in quell’anno.
- ↑ Ebbene, avete invitato il Re a star qui, e non avete fatto trovare neppure l’acqua.
- ↑ Mangialo, così tu l’avessi sempre. Lo mangiano i soldati, che sono migliori di noi.
- ↑ Capretto.
- ↑ Questo particolare ed altri, circa la dimora del Re a Messina e a Reggio mi sono stati riferiti dal mio carissimo Cesare Morisani, direttore della biblioteca di Reggio Calabria: uomo, per l’animo e la cultura, degno di miglior sorte.
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