La giovinezza e studi hegeliani/La giovinezza/XXVIII. Il genere narrativo

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La giovinezza - XXVIII. Il genere narrativo

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XXVIII

IL GENERE NARRATIVO

Questa storia di bassi fondi non giungeva sino a noi. Quello che c’era di novità non ci attirava, perché già da lungo tempo ci eravamo messi in una nuova atmosfera letteraria, con serietà d’intenti e di studi, e ci parevano ridicoli i pretesi novatori, non vedendo in loro che ignoranza e superficialità. L’inverecondia delle polemiche ci moveva disprezzo e disgusto. La persona di Basilio Puoti c’era divenuta più veneranda, appunto per le basse contumelie di cui era fatto segno.

La conclusione fu che ci demmo con più ardore agli studi, cercando con avidità tutti i libri nuovi intorno ai problemi letterari, di cui allora si parlava molto più con presunzione che con competenza. Questi libri circolavano nella scuola, se li prestavano, ne disputavano; io i miei li prestavo volentieri, e ne parlavo sempre, e non tacevo mai le fonti ove attingevo.

Quest’anno il mio corso fu intorno al genere narrativo, sotto [p. 172 modifica]il quale compresi il poema epico e la leggenda, il romanzo e la novella, la storia e la biografia, il romanzo storico. Continuavo lo stesso metodo. Prima era l’esame del contenuto in sé e nelle sue condizioni di tempo e di luogo, da cui si derivavano le forme, cioè a dire la situazione e l’ordine, i caratteri, lo stile, ecc. Per dare un concetto adeguato del poema epico nelle sue vicissitudini, feci una specie di quadro storico dell’umanità, andando dalla famiglia al comune, dal comune alla nazione, dalla nazione ai grandi centri di civiltà. Cosi classificai Omero, Virgilio, Dante, Ariosto, Tasso, Milton, Klopstock. Toccai del Camoens come tipo di poeta nazionale.

Precedettero alcune considerazioni generali:

i. Derivando le forme dal contenuto, nessun poema può essere tipo e modello di tutti gli altri, perché ciascuno ha un contenuto suo, e perciò forme sue.

2. In poesia non ci sono tipi, ma individui, e nessun individuo somiglia a un altro. I tipi sono astrazioni della critica. Il tipo è una data qualità accentuata, com’è anche nella vita reale. Il poeta non deve avere innanzi tipi, ma individui. Il carattere tipico è insito nella persona poetica, senza consapevolezza del poeta. Dire che Achille è il tipo della forza e del coraggio, e che Tersite è il tipo della debolezza e della vigliaccheria, è inesatto, potendo queste qualità avere infinite espressioni negl’individui. Achille è Achille, e Tersite è Tersite, e appunto per questo sono compiute persone poetiche, le quali possono giovare ai poeti, non come esemplari da copiare, ma come ispirazione a invenzioni simili, a quel modo che la natura ispira i poeti, e i modelli sono utili ai pittori.

3. Parimente l’umano, l’homo sum, fondamento assoluto e perciò immutabile di tutta la vita umana, reale e artistica, non esiste in natura e non esiste in arte. Gli elementi etici e patetici che fanno di sé bella mostra nelle rettoriche, non sono che astrazioni: tolti dal vivo dov’erano incorporati, non sono che pezzi di anatomia, frammenti cadaverici. L’uomo, come il tipo, è insito in ciascuna persona poetica, e senza coscienza dell’artista. [p. 173 modifica]4. Le regole sono anch’esse lavoro posteriore all’arte, e perciò sono anch’esse astrazioni. Le regole più importanti non sono le generalità, che si accomodano ad ogni contenuto, ma sono quelle che traggono il loro succo ex visceribus causae, dalle viscere del contenuto.

5. Perciò il vero in arte non è assoluto come nella scienza ma è relativo al contenuto, nelle condizioni in cui lo concepisce il poeta. Le rappresentazioni poetiche sono vere, anche quando il contenuto è riconosciuto falso. Gli Dei non esistono più innanzi alla nostra coscienza, ma restano immortali in Omero.

6. Il poema epico suppone una storia tradizionale, contemperata con l’atmosfera sociale in cui vive, il poeta, e con le qualità del suo ingegno. Suppone anche tutto un ciclo di poesie anteriori, una lunga e lenta elaborazione della materia, alla quale esso dà l’ultima forma.

Queste considerazioni, ch’io trovo nei sunti lasciatimi dai miei discepoli, sembrano oggi luoghi comuni. E questo è il progresso. Ciò che un giorno è una tesi lungamente dibattuta e studiata, fra venti anni diventa un luogo comune, che sarebbe pedanteria dimostrare e illustrare. A quei tempi queste cose parevano bestemmie a molti; e io mi trovavo tra due fuochi, tra i classici e i romantici, o quelli almeno che si decoravano con questo nome senza alcuna serietà di studi. L’impostura è cosa vecchia. Anche allora si empivano la bocca di autori neppur leggicchiati, e si apriva facile mercato di scienza raccolta negli indici e ne’ dizionari.

A quel tempo correvano certe opinioni tenute dogmi, nelle quali io stesso era cresciuto. Lascio le più dozzinali e pedantesche, che si connettono ai primi anni de’ miei studi scolastici. Pochi anni più tardi ero pieno di molte opinioni apprese nella scuola del Puoti, e ancora più nelle rettoriche e poetiche dal Cinquecento in poi. Il discorso del Tasso sul poema epico era per me un oracolo; mi piaceva anche la Perfetta poesia del Muratori, leggevo le opere del Castelvetro, e mi stillavo il cervello in quelle sottigliezze. Pure ressi alla fatica, e v’imparai molti fatti peregrini, grammaticali e poetici. La Ragion poetica del [p. 174 modifica]Gravina mi parve un avvenimento, per novità e finezza di osservazioni e per chiarezza di esposizione, che mi dava quasi una illusione di posatezza e coerenza scientifica. Il Marchese lo ammirava molto, e finalmente trasfuse in me la sua ammirazione. Poi mi vennero a mano le polemiche sull’unità di tempo e di luogo, e lessi con avidità i giudizi di Pietro Metastasio, il cui fare libero e spregiudicato mi piaceva; ma studiavo di occultare questa mia impressione al Marchese, al quale Metastasio era antipatico. Anche celatamente divorai le opere del Bettinelli, dell’Algarotti, del Baretti, del Cesarotti, scrittori barbari al dir del Marchese, ma ne’ quali sentivo più piacere che in que’ faticosí cinquecentisti. Al contrario non mi fu possibile leggere sino alla fine il Napione e il Perticari, cosí cari al Marchese. Tirai fino a Vincenzo Monti, le cui polemiche con la Crusca mi riuscirono gustose. Queste letture avevano prodotto un guazzabuglio nella mia mente. Molte opinioni e pregiudizi furono scossi, ma non cancellati.

Cominciò in me l’età benefica del dubbio e dell’esame. Il progresso naturale del mio spirito, e più che altro la mia abitudine alla meditazione, il non fissarmi in alcuno scrittore, e il pensare da me, mutarono in gran parte le mie impressioni e i miei giudizi. Sentivo nelle sottigliezze del Castelvetro il lambiccato e il falso, e nella gravità del Gravina il presuntuoso e il pedantesco. Nelle opere spigliate o scorrette del Metastasio, del Bettinelli, del Monti sentivo leggerezza e superficialità, con un odore talvolta di ciarlataneria. Quando cominciò la mia scuola, mi capitarono le critiche del Galilei sulla Gerusalemme liberata. Alcune mi parvero stiracchiate; ma in altre trovai garbo e buon senso più che in nessun altro nostro scrittore, e capii l’eccellenza dell’Ariosto sopra i suoi precursori e imitatori, e sopra il Tasso. Fino a quel tempo leggevo l’Ariosto come un poeta piacevole nella sua stranezza, e non ci avevo mai pensato sopra, e talora mi domandavo, maravigliato, in che fosse superiore all’Amadigi o all’Orlando innamorato, ch’io leggevo con ugual piacere, e perché molti lo ponessero innanzi al Tasso, delizia dei miei primi anni e modello di perfezione agli occhi miei. Basti dire che [p. 175 modifica]sapevo a memoria dal primo all’ultimo verso la Gerusalemme, e dell’Orlando furioso appena alcuni brani mi rimanevano impressi. Debbo al Galilei un concetto più sano e più preciso dello scrivere poetico.

Questo era lo stato del mio spirito, quando diedi principio alle mie lezioni. Intorno a me si aggirava il rumore delle vecchie opinioni. L’unità d’azione, di tempo e di luogo era un assioma; l’Iliade era il modello immutabile di tutti i poemi possibili. C’erano regole fisse, dalle quali non era lecito scostarsi. Sotto nome di principii correvano generalità applicabili a tutt’i casi, come certe ricette. La Divina Commedia non era un poema, l’Orlando furioso neppure: poesie divine si, ma contro alle regole; e non sapevano raccapezzarsi sotto qual genere andassero allogate. C’era la gran lite degli episodi, e si pretendeva che la Divina Commedia fosse una serie di episodi, e non si leggevano che alcuni di essi, stimati più belli. Dante era poco meno che un barbaro. Poco si leggevano gli stranieri; Shakespeare passava addirittura per barbaro, e Lope de Vega per un ciarlone. Rousseau e Voltaire erano nomi scomunicati. Ignoti quasi una gran parte degli scrittori dal secolo decimottavo in poi. Poco si leggeva, meno si studiava, molte erano le chiacchiere. La nostra ignoranza degli scrittori stranieri dava proporzioni eccessive al merito degli Italiani. Alfieri era superiore a tutti i tragici, e Goldoni a tutti i comici, e la Basvilliana veniva comparata alla Divina Commedia: non si distingueva il mediocre dall’eccellente.

Queste tendenze erano pure nei miei scolari, e si può comprendere il perché di quella mia introduzione, che oltrepassava nei suoi intenti il poema epico, e abbracciava tutta l’arte. A tale generalitá di regole e di modelli io sostituiva la particolarità di un contenuto determinato dalle condizioni esterne e dalle facoltà del poeta. Ciascun contenuto ha la sua situazione, la sua forma organica, e in quell’organismo bisogna cercar la sua regola. Il contenuto è come un individuo il quale, appunto perché individuo, è dissimile da ogni altro, e ha nel suo organismo il segreto de’ suoi pensieri e delle sue azioni. Facevo notare del pari la grande analogia tra le formazioni poetiche e le formazioni naturali [p. 176 modifica]. Come la materia, determinata dalle sue forze o leggi e dalle condizioni esterne, raggiunge una forma vitale; così il contenuto poetico, la materia cioè o l’argomento, determinato dalle forze del poeta e dalle condizioni esterne in cui egli vive, si specializza, prende una data situazione, acquista la sua forma, diviene un organismo. La poesia, come la natura, è un lavoro di concentrazione e di diffusione insieme, e lo paragonavo a un circolo, dove la concentrazione nel centro produce la diffusione ne’ raggi,e anche al sole, luce concentrata che si diffonde nei pianeti.

Io metteva molto calore in queste lezioni, con un moto di braccia, con una energia d’accento, come se avessi un avversario dinanzi a me. La gioventù mi seguiva con attenzione religiosa, come s’io fossi un predicatore di culti nuovi. Certo, in quella estetica improvvisata, ch’io andava predicando da tre anni, c’era un tantino di esagerazione. Invaghito della individualità di ciascun contenuto, davo poca importanza alle specie e a’ generi, al comune e all’universale, alle relazioni, alle somiglianze, a’ contrasti. Ma la conseguenza fu buona. I giovani si avvezzarono a far getto delle vuote generalità, a metter da parte regole e modelli, a studiare gli scrittori, inviscerandosi in essi. C’era meno presunzione e più studio.

Quelle generalità non erano solo nella scuola antica o classica. Peggio facevano certi novatori, i quali cercavano il segreto dell’arte nei concetti e ne’ tipi. Si fondavano sul Vico, che cercava nell’arte le idee e i tipi, e giudicavano il valore delle opere poetiche secondo la verità e la grandezza delle loro idee e l’eccellenza de’ loro tipi, trascurando in tutto la forma e l’espressione. Perché s’era abusato delle forme, essi le cancellavano, e riducevano la poesia a concetti e tipi generici. Questo pareva a me una esagerazione peggiore, perché, se quelli guardavano nella poesia le forme più grossolane, questi le sottraevano tutta la parte viva, sì che ella vanía in astrazioni filosofiche. Ora io combattevo anche con maggior calore queste esagerazioni. Non potevo con pazienza sentir dire che l’Iliade rappresenta lo stato di famiglia, e che Achille rappresenta la forza. Mi pareva che tutte queste rappresentanze fossero generalità astratte, e che a [p. 177 modifica]dir questo non si dicesse ancor nulla che valesse a darci un giudizio adeguato dello scrittore. Mi trovavo tra i retori e i filosofi, e mostravo il viso agli uni e agli altri, studiando di tenermi in bilico tra i due estremi, coi miracoli del mio contenuto. E mi messi a studiare l’organismo de’ poemi, derivandolo dal contenuto cosí com’era situato e formato nella mente del poeta.

Quel mio quadro storico dell’umanità dava il contenuto in sé o astratto; ora io considerava la sua vita nelle forme poetiche. Analizzai il contenuto pre-omerico, secondo le orme di Vico, e ne dedussi che Omero era la mente di quel contenuto. Escludevo che l’Iliade fosse compilazione di rapsodie, fatta da qualche erudito. Le grandi poesie hanno le loro fonti in cicli poetici anteriori, perché tutto si lega, e la storia, come la natura, non procede per salti: gradazioni progressive generano da ultimo il gran poeta, che dà a tutta la serie la forma definitiva. Cosi Dante è il gran poeta delle visioni religiose; Petrarca è il gran poeta dei trovatori; Ariosto dié l’ultima mano alla serie cavalleresca. Chiamare compilazioni le ultime e grandi poesie, solo perché non sono creazioni miracolose, ma produzioni di lunga e lenta elaborazione, è una esagerazione manifesta. Come l’uomo è l’ultima e più progredita forma della serie animale, così le grandi figure g storiche danno, ciascuna, l’ultima mano alla elaborazione de’ secoli. Citavo il motto del mio caro Leibnizio, che il presente è figlio del passato e padre dell’avvenire. Esposi la potente unità organica dell’Iliade, e, ricordando un detto del mio buon maestro Fazzini, dicevo: essere così impossibile che quel poema fosse un accozzamento di rapsodie, come è impossibile che il mondo fosse un accozzamento fortuito di atomi. Venendo a’ tipi omerici, dicevo che bisognava tenere un procedimento contrario a quello del Vico. Vico tirava dal vivo della poesia i tipi e le idee, perché costruiva una scienza della storia; noi dovevamo rituffare nella forma quei tipi e quelle idee, per avere l’intendimento dell’arte. Perciò polverizzavano l’arte quelli che la riducevano a concetti puri, fraintendendo il Vico. Mostrai che Achille non era un tipo generico ed esemplare, ma un tipo individualissimo, prodotto da que’ tempi, come gli Dei e gli eroi, [p. 178 modifica]foggiato dal poeta in quell’atmosfera, della quale viveva egli medesimo; perciò non possibile ad imitarsi in altri tempi e da altri poeti. Raffrontai quella forza barbara, indisciplinata e appassionata, co’ sensi umani e anche delicati di Ettore, e commossi la scuola, leggendo il famoso addio di Ettore, dove si rivelano il marito, il padre e il patriota.

Di Virgilio lessi il sogno del terzo libro e il fatto d’Eurialo e Niso, tirandone argomento a varie osservazioni di stile, giudicando io Virgilio come il più grande stilista dell’antichità. Feci l’architettura della Divina Commedia, mostrando quanta serietà di disegno era in quel viaggio, base sulla quale si ergeva l’edificio della storia del mondo, e più particolarmente italiana e fiorentina. Notai nel l’Inferno una legge di decadenza sino alla fine, e nel cammino del poema una legge di progresso sino alla dissoluzione delle forme e alla conoscenza della immaginazione, superstite il sentimento. Mi preparai la via, combattendo i metodi de’ più celebri comentatori, che andavano a caccia di frasi, di allegorie e di fini personali. Notai che la grandezza di quella poesia è in ciò che si vede, non in ciò che sta occulto. Lessi la Francesca, il Farinata, l’Ugolino, il Pier delle Vigne, il Sordello, l’apostrofe di San Pietro e altri brani interessanti, facendovi sopra osservazioni che non dimenticai più, e furono la base sulla quale lavorai parecchi miei Saggi critici. Posso dire che la mia Francesca da Rimini mi usci tutto di un getto in due giorni, e fu l’eco geniale di queste reminiscenze scolastiche. È inutile aggiungere che queste lezioni novissime sulla Divina Commedia destarono vivo entusiasmo. I sunti, fatti da’ miei discepoli e rimastimi, ne rendono una immagine pallidissima e, come dice Dante, fioca al concetto.

Originali furono pure le mie lezioni sull’Orlando furioso. Analizzando le qualità di quel contenuto cavalleresco, ne dedussi che quello che la turba chiamava disordine era ordine, e quello che la turba chiamava irregolarità era regola. Tirai da quel contenuto la situazione e la forma di quella vasta varietà; e, posta quella situazione, trovavo regolare quella pluralità di azioni, che a’ più sembrava un peccato mortale. Confutai [p. 179 modifica]le argomentazioni del Tasso nel suo Discorso sul poema epico, e chiamai lo scrittore un gran poeta e un mediocre critico. Questo mi tirò addosso una tempesta. Stefano Cusani, Giambattista Ajello, soprattutto Stanislao Gatti, dal piglio impertinente e ironico, me ne vollero, quasi avessi profferita una bestemmia. Non potevo patire che il Tasso chiamasse l’Orlando furioso un poema senza principio e senza fine, e ci sentivo quella pedanteria che lo condusse alla Gerusalemme conquistata. La controversia s’infuocò, e fini con un distinguo, ammettendo io che il Tasso era un critico valoroso secondo que’ tempi.

In quella varietà ariostesca mostrai che avevano la lor parte legittima il licenzioso ed il ridicolo, dato sempre quel contenuto e quella situazione. Notai che quel suo cotal riso a fior di labbra, quasi volesse prendersi beffe del suo argomento, era una ironia spontanea e incosciente di tempi adulti, che si rivelò con chiarezza riflessa nel Don Chisciotte. Notai infine l’inesauribile varietà de’ suoi colori, la limpidezza delle sue fantasie e delle sue forme, la forza fresca e allegra della produzione. Lessi la famosa scena della Discordia, l’entrata di Rodomonte in Parigi, la morte di Zerbino, la pazzia di Orlando, l’andata di Astolfo alla luna, il combattimento di Biserta, Olimpia e Bireno, Cloridano e Medoro, la morte di Rodomonte. In queste letture io ero minuto ne’ più delicati particolari dello stile e della lingua, e dicevano ch’era un altro, perché pareva che dalle più alte contemplazioni scendessi nelle più umili sfere. La verità è ch’io mi sentivo sempre il maestro, sempre in contatto co’ discepoli, e in quelle letture m’ingegnavo d’accostarmi più a loro, di dir cose che non avevano trovato luogo nelle lezioni.

Esaminando il contenuto nella Gerusalemme, m’incontrai nella grossa questione dell’influenza del Cristianesimo sull’arte. Allora non conoscevo ancora i fanatici panegirici, mescolati con sottigliezze dottrinarie, di Guglielmo Schlegel, e m’aiutavo da me. Notai il carattere cosmopolitico, universale, cattolico della nuova religione, che oltrepassava le nazioni e creava l’umanità; i grandi centri di popoli, che allargavano l’orizzonte del poema epico; il concetto di fratellanza e di carità, che aboliva la schiavitù [p. 180 modifica] e stringeva in un solo patto tutti i figli di Eva; la consacrazione del dolore e del sacrificio, come via di redenzione; l’emancipazione dello spirito dalla materia; l’aspirazione a forme più elevate e più musicali, sino al puro sentimento. Questo fu materia di parecchie lezioni. E mi ci scaldai tanto che, dovendo padre Juppa, mio discepolo e uomo serafico per mansuetudine e innocenza di costumi, fare una predica su’ benefizii del Cristianesimo, volli fargliela io medesimo, e riuscì un bello e dotto panegirico, molto lodato. Mostrai quanta potenza l’idea cristiana ebbe nello spirito di Dante, e come la Divina Commedia fosse appunto la storia ideale del Cristianesimo. Da questo desunsi i caratteri del contenuto che il Tasso avea scelto per argomento. Ma il Tasso non si obbliò in esso, e non lo fece suo, come Dante fece nella Divina Commedia, e come fece l’Ariosto nell’Orlando furioso. Il Tasso non vi entrò con animo libero, e portò seco appresso le regole di Aristotile e la voga cavalleresca. Cresciuto in mezzo a’ retori, che si vantavano critici, volle fare un poema secondo le regole, e, scegliendo una materia nuova, volle innestarvi la parte cavalleresca. Voleva in somma conciliare Omero e l’Ariosto, fare un Ariosto corretto e regolare, più conforme alle leggi del verisimile e al senso storico. Fu punito, perché trovò critici più severi di lui, che accusarono il poema di scorrezione, e non Io trovarono né omerico, né aristotelico. La parte cavalleresca fu trovata una intrusione e una dissonanza in argomento sacro, e si aggiunse che, diminuendo le proporzioni di quella fantastica cavalleria, per ridurle più vicine al probabile, immeschini la materia, senza farla più corretta. Cosi avvenne che parecchi gli preposero per regolarità il Trissino, e, quanto alla cavalleria, l’Ariosto gli rimase al di sopra. E poiché il suo spirito partecipava a quella critica ne’ punti fondamentali, dopo vana resistenza, vi si rassegnò; e per correggere gli errori del poema, volle rifarlo di pianta, e scrisse la Gerusalemme conquistata. Il poeta era scomparso sotto la rigidità del critico. Volendo accostarsi più al verosimile e allo storico, guastò la verità poetica, e correndo dietro all’ombra di bellezze teologiche, [p. 181 modifica]fece olocausto di bellezze profane, ch’erano la parte più geniale del poema. Seguendo regole convenzionali, perdette d’occhio le regole eterne dell’arte. Non corresse, ischeletrì il poema.

Il l’asso era un poeta geniale, di molta immaginazione e sensibilità, dotato più di dolcezza che di forza, e attissimo a far sue tutte le idee cristiane, la cui nozione fondamentale è la carità. Abbattutosi in quel contenuto cristiano, ebbe poca virtù di trasfondersi in esso e cercare ivi le sue ispirazioni. Si fece trascinare dalla moda e dalla critica, e, spirito poco resistente, visse in perpetua lotta tra questi elementi ostili. Volle sottoporre a modelli omerici un contenuto di natura affatto diversa, e la moda, tirandolo appresso a’ poeti cavallereschi, e tormentandolo con l’immagine rivale dell’Ariosto, gli velò in parte la novità e la divinità del suo contenuto. Quando, in età più matura, volle porvi rimedio, era troppo tardi, e non attinse del nuovo contenuto che le parti esteriori e accidentali. Nondimeno si deve alla ispirazione cristiana la parte più eletta del suo poema: il fatto di Sofronia, la morte di Clorinda, e un cotal poco anche il suo Tancredi. Lessi l’episodio di Sofronia, e mostrai l’intima sua commessura col poema, indicando la vanità di quella rassegna militare a imitazione omerica, ch’egli vi sostituì nella Gerusalemme conquistata. Notai certi moti psichici, indizio di una intimità rara nei nostri poeti. Cosi Tancredi prende superbia a vedere in maggior copia il sangue del suo nemico; Solimano piange alla vista del suo paggio ucciso; Argante, cominciando il duello, guarda a Gerusalemme caduta. Anche è notevole una certa serietà di sentimento, quantunque l’espressione sia rettorica, com’è ne’ lamenti di Tancredi e ne’ furori d’Armida. L’organismo del poema, come tessitura, è perfetto, e l’ottava, se non ha l’onda melodica del Poliziano e dell’Ariosto, è però più nutrita e s’imprime più facilmente nella memoria. Nel vezzoso e nel molle non ha eguale, come si vede anche nell’Aminta. Il suo viaggio alle Isole fortunate è un capolavoro e le molli lascivie di que’ giardini e di que’ palagi magici sono una vera magia di stile. Conchiusi che il Cristianesimo [p. 182 modifica], nella sua ingenuità e spontaneità, aveva avuta la sua poesia nel Vangelo e che quel contenuto, calato in mezzo a un’atmosfera ostile, impregnata d’indifferenza, di superstizione e d’ipocrisia, sperduto tra elementi poetici e critici, alieni dalla sua natura, non poté assimilarsi uno spirito entusiasta e malato, naufrago fra quelle correnti.