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La mia prima vita

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A Genova varcando di notte i gioghi alla volta della città Il poeta e i suoi pensieri
Questo testo fa parte della raccolta II. Dai 'Canti lirici'
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IV

LA MIA PRIMA VITA

     Non io su questi floridi
colli la bocca ai primi baci ho sciolta
     tra le lombarde vergini
non nacque il sogno del mio primo amor
     5non è qui che sentii la prima volta
l’aura del canto susurrarmi in cor.


     I casti padri e il tacito
nido e l’altare ebbi in deserte spiagge;
     fu dei torrenti al sonito
10che balzò la mia mente all’avvenir;
     e uscí col grido di canzon selvagge
l’innamorato mio primo sospir!


     Vivida allor nell’intime
vene col sangue l’armonia mi corse;
     15una convulsa lacrima
il bruno delle mie guance solcò;
     e un mondo nella nova anima sorse
di strani amori, ch’io narrar non so.

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     Lunga una febbre il giovane
20mio cor suggeva; e dal tumulto ho tòrti
     gli occhi, schifando; e piacquemi
la nuda terra e i giorni senza sol;
     e fu mia gioia, sotto ai rami morti,
pestar le foglie inaridite al suol;


     25e su nevose imprimere
pianure il passo; e d’una rupe in alto
     giú dirizzar la folgore
del mio moschetto al sottoposto pian,
     e perigliar dietro la fiera il salto,
30perché piagata io non l’avessi invan!


     E cosí solo e immobile
stetti talvolta, sul morir del giorno,
     da bruna punta inospita
qualche errante fiammella a contemplar
     35giú nella sparsa valle, a cui d’intorno
poi s’avvolgea di gravi nebbie un mar.


     Dimmi, o pastor: tra i lucidi
massi e le ghiaie, ove diroccia il fiume,
     mai non udisti un súbito
40fischio e di passi un concitato suon?
     Quei cupi accordi, delle stelle al lume,
eran gli accordi della mia canzon!


     Cantai, come nell’anima
venivan gli estri, e, distillanti i crini
     45per le rugiade, all’erema
falda io sedea d’un tacito castel;
     e m’ispirava il crepitar dei pini,
e l’ombra e il vento e della notte il vel;

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     e mi fingea quegli árbori
50stuol di guerrieri, or furibondi or lieti,
     dalle gualdane all’orrida
polve dei campi, sibilando, andar;
     e a’ rai di luna i tremoli canneti
in irte lance si parean mutar.


     55Anch’io fremea con torbida
gioia, balzando sui dirotti sassi:
     e difranar per ripide
chine mi piacque e i vertici salir;
     e dietro al suon degli agitati passi
60l’urlo e la fuga delle volpi udir.


     E qualche volta, i languidi
membri adagiati d’una siepe accanto,
     con malinconica estasi
stetti a mirar per lungo tempo un fior;
     65e in silenzio finivano col pianto
i solitari tremiti del cor.


     Oh! molto io piansi. I garruli
giuochi per me non ebber gioia mai.
     Un duro vel di tenebre
70fu gittato su’poveri miei dí;
     finalmente una rosa anch’io trovai...
ma si ruppe la terra, e la inghiotti.


     O Elisa, come un candido
raggio, che vien dai piú quieti cieli,
     75io ti mirai discendere
pei declivi d’un florido sentier:
     eri soletta, e il fluttuar de’ veli
piacque tanto al soletto passeggier!

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     E m’accostai... Non facile
80era la scesa, e lunge la pianura.
     T’offersi il braccio... Ahi povera!...
perdona s’io t’ho stretta al mio destin!...
     Non credeva di trarti in sepoltura
con sí giovani fiori ancor sul crin!


     85Miseri a noi, se celere
troppo la freccia del dolor ci assale!
     Or sulle labbra un gelido
riso, la mente a rivelar, mi sta;
     e poca gloria a ristorar non vale
90le amare piaghe d’una lunga etá...


     Io cosí vissi; e vario
non è da quello il mio presente stato.
     Di me non curo; agli uomini
fede non presto e alle lusinghe lor;
     95e son, come su giogo inabitato,
un nudo tronco: eppur lacrimo ancor.


     Miseramente io lacrimo,
se alcuna incontro per le vie del mondo
     voce d’amor, che susciti
100qualche speranza benedetta in me.
     Ma tutto è morto; e gli occhi io mi nascondo
per non veder dove cammina il piè.


     Sapessi almen se un angelo,
d’amor parlando, m’ha parlato il vero!
     105Sapessi almen se un’ultima
memoria cara accompagnar mi può!
     se negli arcani d’un gentil pensiero
qualche mesto ricordo io lascerò.

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     Un dí narrai d’incognita
110donna, che il peso d’un obblio sopporta.
     Ella mi volse i pallidi
tremanti occhi un istante; indi chinò
     il mesto capo e disse: — Io sarei morta! —
e, sospirando, la mia man serrò.


     115Ah! se mentía la perfida,
piena cosí d’angelica dolcezza,
     l’ira mortal d’un aspide
per anni lunghi le consumi il cor;
     sin che, perso l’ingegno e la bellezza,
120senza lacrime muoia e senza amor.