La mia vita, ricordi autobiografici/XII

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Capitolo XII. Cuore e testa

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XI XIII
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XII.

Cuore e testa.

Qualche altro episodio. Spesso l’insieme di tutti questi piccoli fatti serve a tratteggiare un carattere con maggiore efficacia d’uno studio analitico a base scientifica.

Mia madre mi aveva avvezzato prestissimo ad uscir fuori sola: non per passeggiare, si capisce: ma per quelle mille piccole necessità sì frequenti anche nelle famiglie dove non mancano le persone di servizio. Andavo sola dal cartolaro, dal merciaio e qualche volta — di nascosto a tutti! — da un certo sor Giovanni pasticciere che aveva la bottega in piazza Santi Pietro e Paolo, a due passi dalla scuola. Anche a scuola andavo sola e ne uscivo sola.

Da via degli Elisi non ci erano che due passi! Ah come mi piaceva quel vedermi per la strada senza accompagnature, padrona di star ferma davanti a una bottega anche per cinque minuti di seguito!

Qualche volta davo degli appuntamenti a dei piccoli condiscepoli a cui consegnavo il componimento o il problema bell’e fatto, in compenso d’un balocco, d’un dolce, d’un gingillo qualsiasi. Quante chicche ho mangiato ad un certo P...., un bravo bimbo zuccone che mi adorava! Un giorno dunque, in cui, reduce dalla scuola, avevo già infilato il portone di casa, sentii dietro a me uno scalpiccìo discreto accompagnato da un mugolìo. Mi volto e mi trovo tête à tête con una bambinuccia della mia età, dal visino violaceo dal freddo. [p. 77 modifica]

— Signorina — mi sussurra — un pò di carità. Guardi in che stato sono! — E con un atto sublimemente impudico, alzò un lembo della gonnelina stracciata e mi fece vedere che era scalza e ignuda, in pieno febbraio.

— Aspetta! — dissi posando sopra uno scalino la cartella e il paniere della merenda — si rimedia subito. — Mi alzai i panni, mi sciolsi la sottana di flanella, mi levai calze e scarpe e in men che si dice ne vestii la povera che mi guardava come estatica senza dire una parola.

Poi, lesta lesta, salii i miei tre piani e suonai il campanello con quanta forza avevo. Il ghiaccio della pietra mi dava allo stomaco. Ricorderò sempre finchè vivo la faccia della Giovanna e il suo grido desolato che fece accorrere la mamma. Io ero già a sedere sul letto, col cappello in capo e i piedi ignudi, ciondoloni.

Esposi brevemente il caso, abbassando il capo sotto la imminente valanga dei rimproveri che io reputavo inevitabili. Sorpresa del silenzio della mamma che intanto mi aveva coperto i piedi con un lembo della coperta, la guardai e le vidi gli occhi pieni di lacrime.

— Oh mamma! — le dissi — ho fatto dunque molto male! — E lei, stringendomi forte sul cuore:

— Hai fatto bene... Ma non lasciarti trasportare più così dal tuo buon cuore. Potresti imbatterti in qualche imbroglione, eppoi...

— Eppoi, mamma?

— Eppoi, vedi? Non si può disporre che di quanto è assolutamente nostro: frutto, cioè, del nostro guadagno o delle nostre ricchezze particolari: e la tua robina appartiene... al babbo!... [p. 78 modifica]

Quest’ultima dichiarazione mi fece una impressione spiacevole e fin d’allora cominciai ad almanaccare sul modo di possedere una cosa proprio mia, frutto del mio guadagno.

La mamma aveva gettato nella mia giovane anima i germi di quell’alta e dolorosa sete d’indipendenza a cui debbo i gaudii più intensi e i dolori più vivi della mia povera vita travagliata.

Parrebbe strano e non credibile forse che la precocità onde s’informavano tutti i miei atti e le mie sensazioni non si fosse esplicata anche in quei primi palpiti misteriosi, dolcissimi, appena avvertiti, che sono il preludio della trionfale sinfonia dell’amore.

In casa mia veniva di tanto in tanto a farci visita un giovinotto sui vent’anni, nipote di quell’Augusto Pontecchi socio del babbo, di cui ho fatto cenno in uno degli scorsi capitoli. Non era bello e brutto neppure: una faccia buona e insignificante. Impiegato al magazzino militare, vestiva con sufficente spigliatezza la divisa di sottotenente.

In quell’epoca (1863) io leggevo i romanzi del visconte d’Arlincourt: Il Rinnegato e Carlo il Temerario. Quindi avevo l’anima singolarmente disposta alla mestizia e alla... sentimentalità.

Una sera — non so come, nè perchè mi venissero certe idee — volli fingere a me stessa che il buon Augusto (si chiamava anche lui come il suo nonno) intento a giuocare pacificamente a scopa con mio padre e altri due signori, fosse Carlo il Temerario e io... Elodia, la fanciulla amante del tenebroso signore. E cominciai [p. 79 modifica] a guardarlo con l’espressione dolorosa e strana che dovevano avere gli occhi della sventurata eroina.

Sul primo, Augusto non ci badò, poi mi guardò meglio meravigliato, in atto d’interrogazione muta: e siccome io continuavo il mio giuoco con un curioso senso di emozione non mai provato e che ero lontana dall’aspettarmi, egli tornò a guardarmi e diventò rosso, poi pallido, poi rosso di nuovo, come di chi fa una strana scoperta a cui non era preparato. Io... ebbi pietà di Carlo il Temerario e mi misi a leggere. Ma sentivo gli occhi di Augusto fissi su di me.

Finita la partita, quando fu il momento di congedarsi, mi si avvicinò e accarezzando dolcemente con un atto che gli era familiare le mie lunghe e grosse treccie castagne, mi disse con voce un po’ commossa:

— Ma sai, Ida, che sei diventata una vera ragazzina! Presto ci vorrà marito, signora Ester! — Aggiunse voltandosi verso la mamma che sorrideva di compiacenza.

Rimasi male, molto male. Io avevo voluto tentare una piccola esperienza e non avrei davvero saputo che farmi d’un marito. E le mie bambole?

Ma Augusto cominciò davvero a prendermi sul serio e a scagliarmi delle occhiate... alle quali non risposi, perchè m’imbarazzavano e mi davano noia: tanto che finii col dirlo alla mamma e col pregarla a farmi andare a letto ogni qualvolta la sera fosse comparso Carlo il Temerario. La mamma ci rise e mi contentò. Dopo cinque o sei mesi di questo idillio abbozzato. Augusto fu trasferito in un paesetto del mezzogiorno e non ne ho più sentito parlare.