La mia vita, ricordi autobiografici/XXVIII
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XXVIII.
Manfredo Baccini.
Quando, dopo la morte del babbo, della mamma, dell’Egle, rimasi sola, e ad amareggiare di più la mia solitudine concorse una inattesa risoluzione dell’Ebe su cui parlerò più diffusamente a tempo e luogo, potè solo consolarmi il raggio di luce che aveva perennemente rischiarata la mia giovinezza non lieta, quel biondo e pensoso bambino, che oggi nel fiore della gioventù è il mio conforto e il mio aiuto più grande, e al quale volli dedicate queste pagine che riassumono tutta la mia vita di donna e d’artista.
Egli, che non un giorno ha mai abbandonato il mio fianco, e che delle mie cure affettuose e vigilanti dice, con bontà eccessiva, di non poter essermi mai sufficientemente grato, è oggi il mio alter ego più somigliante, il mio segretario più attivo, il mio discepolo più valente, la mia ombra più fedele.
Educato fino dai primissimi anni a tutte le squisitezze del sentimento, anche ora (e percorre omai il venticinquesimo anno) è di una finezza e di una delicatezza quasi femminile. Egli, da fanciullo, fu lasciato sempre libero, non compresso in nessun desiderio, non contrariato in nessuna voglia; tanto che nè la fanciullezza nè l’adolescenza dettero luogo a possibili reazioni da parte sua. Di più, l’ambiente in cui ha vissuto e gli studi fatti gli hanno enormemente giovato, tanto che è raro trovare nei giovani della sua età una conoscenza così perfetta della vita e un ingegno nel tempo stesso così acuto e così vasto.
Manfredo Baccini ha fatto tutti gli studi classici agli Scolopi di Firenze, e quegli studi, che io non saprò mai abbastanza raccomandare come supremi raffinatori dello spirito e singolari ampliatori dell’intelligenza, contribuirono a sviluppargli il gusto estetico e a inoculargli nell’animo i germi di quelle mirabili armonie che in un giorno, che mi auguro non lontano, il suo ingegno luminoso potrà esplicare.
Quantunque assai intelligente, egli non rivelò fin verso i quindici anni un vero e proprio ingegno, tanto che io non avrei mai creduto di poterlo veder salire così rapidamente. Percorse in breve tempo le cinque classi del ginnasio e le tre del liceo; a sedici anni con un esame eccellente prese la sua licenza, e a vent’anni aveva già terminati i quattro anni di università, nell’Istituto Superiore di Firenze... senza uscirne laureato, e quantunque egli giuri e spergiuri di volersi... quanto prima addottorare, sono più che sicura che il titolo accademico non gli farà mai gola, nè s’ingegnerà mai di conquistarlo.
Come mai questa stranezza? Io aveva già notato in Manfredo, fino dalla primissima adolescenza, un singolare spirito di ribellione. Egli recava un minuziosissimo spirito critico in tutte le discussioni; non voleva accettare passivamente il mondo morale in cui viveva, e mi tormentava con istranissime domande su tutti quanti gli argomenti, da’ più fanciulleschi ai più ardui, mettendomi spesso in un imbarazzo non lieve. Si cominciò a formare nella sua mente l’architettura di una mirabile logica, tanto serrata e coerente, che anche oggi nella discussione è difficile resistegli. Ed egli conosce tanto e valuta questo suo pregio che spesso ne abusa, e siccome — come ho scritto spessissimo — nessun uomo è tanto antipatico come quegli che ha sempre ragione, così io spesso tempero e freno il suo ardore consigliandolo a una maggior mitezza e ad una più dolce serenità di spirito.
Appena l’ammissione all’Università gli concesse la libertà delle letture (gli studenti possono aver contemporaneamente libri in prestito da quattro biblioteche) scoppiò la tempesta. Tutte le discipline gli piacevano ugualmente; egli leggeva con lo stesso ardore e con lo stesso entusiasmo volumi di economia politica, d’arte, di critica, di storia religiosa, filologia, di filosofia. E da’ sedici ai venti anni fu un’orgia di letture, specialmente filosofiche: Kant, Hegel, Comte, Shopenhauer, Hartmann, Darwin, Rosmini, Renan gli autori più... diversi e più opposti, riddavano nei suo cervello, e caricano il suo tavolino. La mia biblioteca, non scarsa, fece il resto, e molti romanzieri e poeti francesi — mio supremo diletto intellettuale — furono in breve anche il suo.
Ma tutte queste letture, se giovavano non poco alla sua coltura e sviluppavano il suo spirito, non gli rendevano davvero più facile la carriera universitaria. I valenti professori dell’Istituto gli riconoscevano l’ingegno, ma non potevano naturalmente menargli per buone le sue originalissimo ribellioni. E Manfredo si presentò a tutti quegli esami che gli lasciavano libertà e ampiezza di giudizio, ottenendo buonissimi voti, tanto, che due illustrazioni della nostra letteratura, Guido Mazzoni e Pasquale Villari gli levarono dalla strada più di un impaccio; ma non volle sapere d’altro. Era d’obbligo allora scrivere la tesi annuale in latino, ma Manfredo a cui non andava a genio il metodo critico del professore, e trovava assurdo — nella nostra epoca — il pensare e lo scrivere in una lingua morta, scrisse al professore chiedendo di esser dispensato da quella prova. Il chiaro uomo gli rispose gentilmente, ma, com’era naturale, non consentì.
Allora Manfredo, messo alle strette, scrisse in un latino a dir vero non molto elegante, una tesi in cui propugnava un metodo d’insegnamento diverso da quello adoperato dal professore. L’eccellente insegnante, non discusse le idee audacissime del giovane studente, criticò il latino, nè volle concedergli l’approvazione. Allora Manfredo, piuttosto che rinunziare a quello che egli credeva la verità, voltò le spalle all’Istituto di studi superiori, nè vi rimise mai piede, se non nella Biblioteca. Da tutto quel conflitto di sentimenti e di idee, che io non ho mai, neppure una volta discusso, tanto mi dispiace il contrariare le naturali inclinazioni, nacque un acuto saggio critico, serrato e violento, intitolato «La fabbrica dei dottori» e che io pubblicai non è molto, nella mia Cordelia. Ed ecco come mai Manfredo, che ha ingegno e cultura quanta forse non ne hanno molti pazienti ed eruditi dottorini, non è ancora dottore, nè lo diventerà forse mai.
⁂
Io capii subito che l’orgoglioso e irruento studentino sarebbe diventato forse un buon giornalista ed anche uno scrittore originale; e lo incoraggiai nei suoi slanci, aprendogli le colonne della mia rivista. Egli cominciò la carriera con un focoso articolo «sull’inutilità della letteratura infantile». Aveva appena diciotto anni. Quell’articolo, a dire il vero, non costituiva precisamente un complimento per me; ma io, attratta dall’originalità e bizzarria del caso lasciai fare. A quell’articolo ne successero altri; due, tre, cinque, dieci, venti, tutti vibranti, tatti focosi, tutti giovani, tutti improntati a un disprezzo sconfinato per qualunque convenzione della società umana. Io pubblicavo nella Cordelia quelli che mi parevano confacersi al carattere del mio giornale, e scartavo regolamento tutti gli altri, con grande disperazione del giovinetto sociologo, che dichiarava allora — con grande umiltà — di essere una bestia. Un giorno, mentre eravamo in viaggio, mi domandò a bruciapelo se io lo avessi creduto capace di scrivere una bella novella. Gli risposi che non lo credevo sufficientemente artista. Per ismentirmi subito, egli afferrò un piccolo fascio di cartelline, e scrisse, tutta di getto, senza un pentimento o una cancellatura, una splendida novella, ch’io non potei finir di leggere, tanto la commozione mi stringeva la gola. Allora cominciarono a fioccar le novelle; novelle ardite, originali, molto dense di pensiero, qualche volta oscure; ma che rivelavano sempre un ingegno strano e potente. Per quelle novelle, che fra poco vedranno la luce in volume, i più chiari scrittori d’Italia ebbero parole di viva lode, ed anche ultimamente uno dei grandi artisti d’Italia, Antonio Fogazzaro, me ne parlò con compiacenza.
Questa straordinaria versatilità nell’ingegno del mio Manfredo sì è accentuata con gli anni, e glie ne hanno per così dire aumentata l’ampiezza, la bontà naturale dell’animo, la larga condiscendenza e pietà per tutte le sventure umane, la nessuna acredine del suo spirito che superiore ormai a qualunque gretteria, o pettegolezzo e piccineria della vita, spazia negli orizzonti sereni della Bellezza e del Bene.
Da qualche tempo, Manfredo è uno de’ principali redattori della mia Cordelia e a lui e alla sua avvedutezza molto volentieri mi affido. Questo giovane di ventiquattr’anni che ha cominciato come molti si augurerebbero di finire, oltre agli articoli e alle novelle originali che formerebbero, come formeranno certo, due grossi volumi ha già sulla sua coscienza di... scrittore quattro volumi di traduzioni e un romanzetto alla Verne, pubblicato dal Sandron che gli procurarono i primi, modesti guadagni. Ma egli, che è di buon gusto, e sa qual valore attribuire a certi lavori della primissima gioventù, non parla mai di «certa roba» o se è costretto a parlarne, ne dice poche parole, biasimandoli e deridendoli col suo spirito caustico e fine.
Dolce e buon figliuolo! Io t’auguro, Manfredo mio, ogni fortuna migliore, e sarò lieta che l’opera dell’ingegno procuri agiatezza alla tua casa e gloria al tuo nome, ma il mio più vivo e ardente desiderio è quello che tu rimanga sempre — attraverso le crude lotte della vita, attraverso tutte le infamie del destino e degli uomini — puro, libero, forte, generoso e sdegnoso come oggi tu sei!
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