La persuasione e la rettorica (1915)/L'illusione della persuasione/II

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PARTE PRIMA
DELLA PERSUASIONE

II
L'ILLUSIONE DELLA PERSUASIONE

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PARTE PRIMA
DELLA PERSUASIONE

II
L'ILLUSIONE DELLA PERSUASIONE
L'illusione della persuasione L'illusione della persuasione - III


 
 II



Ma il mondo è fermo finché l’uomo si tiene in piedi – e l’uomo si tiene in piedi finché nel mondo ha dove fondarsi – μένει γὰρ αὐτῷ ἅπερ ἂν αὐτὸν μένῃ.

La realtà è per lui le cose che attendono il suo futuro.

Questo è il cerchio senza uscita dell’individualità illusoria, che afferma una persona, un fine, una ragione: la persuasione inadeguata, in ciò ch’è adeguata solo al mondo ch’essa si finge. – A ognuno il suo mondo è il mondo: e il valore di quel mondo è il correlativo della sua valenza, il sapore il correlativo della sapienza. Il mio mondo non è che il mio correlativo: il mio piacere. Onde dice il filosofo: ὀνομάζεται καθ ’ἡδονὴν ἑκάστου (Eraclito). – Ognuno sa quanto vuole vede quanto vive: quanto il suo piacere ogni volta prevedendo avvicina delle cose lontane. Tanto ne comprende quanto ne può prendere.

La stessa cosa è il mio vivere e il mondo che vivo.

Così dice Parmenide: τωὐτόν ἐστι νοεῖν τε καὶ οὕνεκέν ἐστι νόημα.

Il fine certo, la sua ragione d’essere, il senso che ha per lui ogni atto, non è nuovamente altro che il suo continuarsi. La persuasione illusoria per cui egli vuole le cose come valide in sé ed agisce come a un fine certo, ed afferma sé stesso come individuo che ha la ragione in se – altro non è che volontà di sé stesso nel futuro: egli non vuole e non vede altro che sé stesso: ἄνθρωπος ἐν εὐφρόνῃ φάος ἅπτει ἑαυτῷ (Eraclito).

Ma se mancando di se stesso nel presente egli si vuole nel futuro – questo egli non può che per la via delle singole determinazioni organizzate a farlo continuar a voler così anche nel futuro. Egli si gira per la via dei singoli bisogni e sfugge sempre a sé stesso. Egli non può possedere sé stesso, aver la ragione di sé, quanto è necessitato ad attribuir valore alla propria persona determinata nelle cose, e alle cose delle quali abbisogna per continuare. Ché da queste è via via distratto nel tempo. – Il suo avvenire alla vita mortale: il suo nascere è nella altrui volontà; il pernio intorno cui si gira gli è dato, e date gli sono le cose ch’ei dice sue. Poiché egli non le ha più che non sia avuto, s’anche per l’organizzazione delle determinazioni la sua coscienza per affermarsi non viene assorbita.

Ma la sua potenza nelle cose in ogni punto è limitata alla limitata previsione. Se dalla relazione con la cosa egli non trae il possesso, bensì la sicurezza della propria vita – ma anche questa è in breve cerchia finita; e la brevità dell’orizzonte è attuale in ogni punto nella superficialità della relazione. Così mentre il possesso della cosa gli sfugge, gli sfugge la padronanza della propria vita, che non può affermarsi infinitamente, ma solo in rapporto alla cerchia finita; che non puo riposare nell’attualità, ma è trascinata dal tempo ad affermarsi nei limiti dati sempre avanti, né può per più girare, prender più delle cose e giunger nel possesso di queste al possesso attuale di sé: alla persuasione. Così adulandolo il dio della φιλοψυχία si prende gioco di lui.

E l’uomo, pur mentre gioisce dell’affermazione, sente che questa persona non è sua, ch’egli non la possiede. E al di là della cerchia della sua previsione che procura la vicinanza della data lontananza, che supera le date contingenze, alle quali la sua persona è sufficiente, egli sente l’agitarsi d’altre infinite volontà nella cui contingenza ancora sono le cose che sono nella sua coscienza e alle quali inerisce il suo futuro.

Al disotto della superficialità del suo piacere egli sente il fluire di ciò che è fuori della sua potenza e che trascende la sua coscienza. La trama nota (finita) dell’individualità illusoria che il piacere illumina, non è fitta così che l’oscurità dell’ignoto (infinito) non trasparisca. E il suo piacere è contaminato da un sordo e continuo dolore la cui voce è indistinta, che la sete della vita, nel giro delle determinazioni, reprime. Gli uomini hanno paura del dolore e per sfuggirlo gli applicano come empiastro la fede in un potere adeguato all’infinità della potenza ch’essi non conoscono, e lo incaricano del peso del dolore ch’essi non sanno portare. Il dio che onorano, cui danno tutto, è il dio della φιλοψυχία è il piacere; questo è il dio famigliare, il caro, l’affabile, il conosciuto. L’altro l’hanno creato e lo pagano perché s’incarichi di ciò che, ogni volta trascendendo la potenza del singolo, apparisce ad ognuno come il caso, e sorvegli la casa mentre essi banchettano, e volga tutto al meglio. Anche questo abilmente ha macchinato il dio famigliare per meglio aver in sua mano gli uomini. «Se tu ci sei» egli soffia all’orecchio d’ognuno «sei ben certo per lo meglio, e bisogna ormai che quella Provvidenza che t’ha messo al mondo provveda a ciò che tu sia sicuro in questo mondo fatto per te, e purché tu viva contento non te ne incaricare».–

– Ma la sorda voce dell’oscuro dolore non però tace, e più volte essa domina sola e terribile nel pavido cuore degli uomini.


Come quando affievolendosi la luce nella stanza, l’imagine delle care cose, onde il vetro vela l’oscurità esterna, si fa più tenue, e più visibile si fa l’invisibile; così quando la trama dell’illusione s’affina, si disorganizza, si squarcia, gli uomini, fatti impotenti, si sentono in balìa di ciò che è fuori della loro potenza, di ciò che non sanno: temono senza saper di che temano. Si trovano a voler fuggire la morte senza più aver la via consueta che finge cose finite da fuggire, cose finite cercando.

I bambini – quasi vite in provvisorio – hanno molto meno definita la trama, molto più varia e disordinata, qui densa e luminosa, lì sottile e oscuro-trasparente. Essi hanno gioie vive che gli uomini non conoscono più, e molto più spesso che gli uomini sono in balìa di questi terrori. Nelle tregue delle loro imprese, dei loro piani, quando sono soli, e da nessuna cosa di ciò che 1i attornia sono attratti o a frugare, o a rubare, a rompere, o a discorrere o a tutte quelle altre loro occupazioni, si trovano con la piccola mente a guardare l’oscurità. Le cose si sformano in aspetti strani: occhi che guardano, orecchi che sentono, braccia che si tendono, un ghigno sarcastico e una minaccia in tutte le cose. Si sentono sorvegliati da esseri terribilmente potenti, e che vogliono il loro male. Non fanno più un gesto senza riflettere ad «Essi». Se lo fanno con una mano; lo devono far anche con l’altra. «Oppure non lo devo fare? ‘Essi‘ vogliono ch’io lo faccia – ma io non lo farò, non obbedirò – ma non lo faccio allora solo perché penso a ‘Loro’ – allora lo faccio...». Quando passano una camera oscura, sembra ai bambini che questi «Essi» gridino mille voci, che con mille mani li abbranchino, che in mille guizzi ghigni il sarcasmo nell’oscurità, si sentono succhiati dall’oscurità; fuggono folli di terrore e gridano per stordirsi.

Poi la vita s’incarica di stordirli; l’esser vivi si fa un’abitudine – le cose che non attraggono non si guardano più, le altre sono strettamente concatenate, la trama si fa uguale – il bambino si fa uomo – le ore degli spaventi sono ridotte al sordo continuo misurato dolore che stilla sotto a tutte le cose. Ma quando per ragioni che non stanno in loro, il lembo della trama si solleva, anche gli uomini conoscono le spaventevoli soste. Li visitano i sogni nel sonno – quando rilassato, l’organismo vive l’oscuro dolore delle singole determinazioni impotenti ognuna per sé di fronte a ogni contingenza, per cui, fatta più sottile la trama dell’illusione, più minacciosa appare l’oscurità. Ἄνθρωπος ἐν εὐφρόνῃ φάος ἅπτει ἑαυτῷ· ἀποθανὼν ἀποσβεσθείς. Ζῶν δὲ ἅπτεται τεθνεῶτος εὕδων (Eraclito). Il riso sarcastico turba, guasta, corrompe le tranquille imagini famigliari ch’essi invano vorrebbero trattenere, e li grava con oscure imagini di biasimo e di minaccia; στάζει δ’ἐν θ’ὕπνῳ πρὸ καρδίας / μνησιπήμων πόνος καὶ παρ’ ἄ- / κοντας ἦλθε σωφρονεῖν (Esch., Ag., 179 sgg.). Si destano dal sonno, sbarrano gli occhi nell’oscurità... e il soccorrevole fiammifero ridona loro la pace – allato è la dolce consorte – qui i vestiti con l’impronta del corpo, qui nei ritratti le note facce dei parenti – tutte le care, care cose conosciute – «va bene, va bene – che ora è? uh! tardi – e domani devo levarmi, accidenti ai sogni – dio che sogni! – dunque domani... vediamo di dormire un po’ in fretta». E rassicurati rifanno l’oscurità; ma le imagini rimaste negli occhi si scompongono, – i piani pel domani e il dopo domani si arrestano – l’uomo si trova nuovamente senza nome e senza cognome, senza consorte e senza parenti, senza cose da fare, senza vestiti, solo, nudo, con gli occhi aperti a guardare l’oscurità. – Ἀποσβεσθεὶς ὄψεις ἐγρηγορὼς ἅπτεται εὕδοντος (Eraclito). Ogni sensazione si fa infinita; sembra loro che davanti ai loro occhi dei punti s’allontanino infinitamente, che cose piccole diventino infinitamente grandi e che l’infinito li beva; cercano angosciati una tavola di salvezza, un punto saldo, tutto si scompone, tutto cede, fugge, s’allontana e tutto domina il ghigno sarcastico: «ùuùuùuùu... niente, niente, niente, non sei niente, so che non sei niente, so che qui t’affidi ed io ti distruggerò sotto il piede il terreno, so quello che riprometti a te stesso e non ti sarà mantenuto, come tu hai sempre promesso e mai tenuto, non hai mai tenuto – perché non sei niente, e non puoi niente, io so che non puoi niente, niente, niente...». Il tempo gli passa infinito e gli preterita il suo volere; egli ha l’angoscia di non aver fatto, per poter ora fare in giusto tempo, mentre s’avvicina e lo stringe da ogni parte quello ch’egli non sa. Egli si sente arretrato nel tempo e si sente dissolver come si dissolve un cadavere conservato in un ambiente senz’aria se viene esposto all’aperto, che non anche esposto è già in polvere.

Egli sente d’esser già morto da tempo e pur vive e teme di morire. Di fronte al tempo che viene lento inesorabile, egli si sente impotente come un morto a curar la sua vita, e soffre ogni attimo il dolore della morte.1 Questo dolore accomuna tutte le cose che vivono e non hanno in sé la vita, che vivono senza persuasione, che come vivono temono la morte. E stillante in ogni attimo della vita nessuno lo conosce, ma lo dice gioia; assorbente nei terrori della notte e della solitudine ognuno lo prova, ma nessuno lo confessa, che alla luce del giorno si dice contento e sufficiente e soddisfatto di sé. Ma esso è nell’opinione e nella bocca di tutti quando è fatto manifesto nei fatti singoli, dove l’impotenza apparendo causata da una cosa determinata, è giudicata anch’essa definita e limitata a quel riguardo; e si dice allora rimorso, malinconia e noia, ira, dolore, paura, gioia «troppo» forte.–

Il rimorso per un determinato fatto commesso, che non è pentimento finito per quel fatto, ma il terrore per la propria vita distrutta nell’irrevocabile passato, per cui uno si sente vivo ancora e impotente di fronte al futuro, è il cruccio infinito che rode il cuore.

La malinconia e la noia che gli uomini localizzano nelle cose come se ci fossero cose melanconiche o noiose, e sono lo stesso terrore dell’infinito quando la trama dell’illusione in qualunque modo per quelle cose è interrotta, così che l’uomo provi il dolore di non essere e si senta sperso in balìa dell’ignoto a volere impotentemente.2

La paura che gli uomini credono limitata al dato pericolo, ed è invece il terrore di fronte all’infinita oscurità di chi in un dato caso si esperimenti impotente: poiché è portato fuori dalla sua potenza. L’infinito tempo dell’impotenza è qui manifesto a ognuno: gli uomini muoiono di paura o, se non muoiono, in 5 minuti invecchiano di decenni; e la distruzione della persona è manifesta in ciò che la paura le toglie affatto ogni potenza (Lucr., III, 157: concidere ex animi terrore videmus / saepe homines), per cui essa non fa neppur ciò che potrebbe fare – o fa il contrario: per non poter sopportar il pericolo gli uomini si gettano a certa morte, come le galline che folli di terrore pel passaggio d’una bicicletta, dal sicuro orlo della via piombano nei mezzo, starnazzano disperatamente davanti alla ruota e si fanno schiacciare.3

L’ira, che impotente di fronte al fatto compiuto o alla maggior forza altrui, cresce di sé stessa infinitamente, onde dice il filosofo: χαλεπόν θυμῷ μάχεσθαι· ψυχῆς γάρ ὠνέεται (Eraclito).

Il dolore per una perdita, un danno determinato, che gli uomini credono limitato a questo, ed è invece il terrore per la rivelazione della impotenza della propria illusione; è il tale accidente, la tal malattia, è la morte, è la rovina, la catastrofe di cose date conosciute: – ma è il mistero che apre la porta della tranquilla stanza chiara e scaldata a sufficienza per la determinata speranza, e ghigna: «ora vengo io, da te che ti credevi sicuro, e tu non sei niente”.

E la gioia «troppo» forte infine, che mettendo in un tratto nel presente tutto ciò per cui uno viveva e a cui attribuiva assoluto valore, gli toglie la ragione di vivere, mentre non saziandolo del tutto lo fa voler ancora senza saper più cosa: impotentemente.4 E se lo strappo alla trama prodotto da una perdita si ricuce e gli uomini s’illudono ancora e si riadattano alla qualunque vita – la troppa gioia toglie la ragione davvero, fa impazzire o morire – onde si dice: ἐλαίου δέων ὁ λύχνος σβέννυται, ἐλαίου δέ φλέοντος ἀπεσβέσθη.–

Dappertutto lo stesso dolore della vita che non si sazia e crede di saziarsi, reso perspicuo per la qualunque contingenza dell’una coscienza col fluire delle altre coscienze, per cui alla breve illusione si manifesti la sua impotenza ed essa si trovi a volere disperatamente: senza riposare sulle date cose che sicure aspettavano il suo futuro.

E interrotta la voce del piacere che le dice tu sei – sente solo il sordo mormorio del dolore fatto distinto che dice: tu non sei, mentre pur sempre essa chiede la vita.


Note

  1. Elettra all’annuncio della morte d’Oreste che le aveva tolta la ragione di vivere sulla quale confisa essa aveva fino allora guardato al futuro, non dice rettoricamente «mi sento morire», o «muoio», ma: ὄλωλα τῆδ’ ἐν ἡμέρᾳ — e poi più forte: ἀπωλόμην δύστηνος, οὐδέν εἰμ’ ἔτι (Soph., El., 674, 676).
  2. Occasioni della noia melanconica: 1) la monotonia che esaurisce il valore delle cose per l’individuo e fa sentire infinito il tempo; 2) il riconoscimento dell’altrui individualità come illusoria quando questa abbia un manifesto contatto con la propria – (poiché altrimenti il carradore che passa di notte pei villaggi addormentati compiange gli uomini chiusi in quella cerchia che per lui non ha valore, e si rallegra nel suo cuore della propria meta sicura – e d’altronde l’uomo che veglia in una stanza d’una delle case d’uno dei villaggi lieto della propria veglia laboriosa ed utile o del prossimo riposo, compiange quell’uomo oscuro sulla via, che va, che va, e il suo andare non ha fine); 3) riveder le impronte della propria vita d’un tempo ricca d’infinita speranza, poi per comodità, per viltà, per adattamento, ridotta, abbandonata, venduta: d’una vita per la quale in ogni modo il futuro era di tanto più ricco di quanto tempo sia da allora trascorso.
  3. Il ribrezzo non è altro che la paura. Si prova ribrezzo per quelle cose che ci toccano o ci possono toccare, e di fronte alle quali siamo impotenti anche s’esse siano più deboli di noi. Intendo le piccole rapide bestiole, che s’avvicinano in modo inquietante e sono tenere o viscide o sudice al tasto o svelte negli scarti così che sono inafferrabili. – Il ribrezzo di fronte ai mali, il deliquio alla vista dei mali, è proprio della nostra impotenza di fronte a quei mali, che già ce li fa sentir adesso.
  4. Le vite al bivacco, in provvisorio <gli infanti, i militari> (alle quali [per] un termine fisso da altrui volontà è prorogata l’attualità del bene che sperano; e intatta è quindi la speranza) soddisfatti i bisogni elementari, compiti i doveri finiti: non sanno come sfogare la loro gioia. Onde l’αὐθαδία giovanile. Lo stesso effetto ha il vino che soddisfi troppo e finge la realtà della qualunque illusione del momento. –