La persuasione e la rettorica (1915)/La costituzione della rettorica/II

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PARTE SECONDA
DELLA RETTORICA

II
LA COSTITUZIONE DELLA RETTORICA

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PARTE SECONDA
DELLA RETTORICA

II
LA COSTITUZIONE DELLA RETTORICA
La costituzione della rettorica La costituzione della rettorica - III


 
 II


«Ma noi non guardiamo le cose con l’occhio della fame o della sete; noi le guardiamo oggettivamente», protesterebbe uno scienziato.

Anche l’«oggettività» è una bella parola. Veder le cose come stanno, non perché se ne abbia bisogno, ma in sé: aver in un punto «il ghiaccio e la rosa, quasi in un punto il gran freddo e il gran caldo», nella attualità della mia vita tutte le cose, «l’eternità raccolta e intera»...

È questa l’oggettività?

Sulla carta si può rivolgere a chi si vuole una simile domanda, ma chi la rivolgesse proprio a viva voce a uno scienziato, non ne uscirebbe sano. Con questa arrischierebbe infatti d’avere nuovamente tutto il sapere nel presente o di non averlo affatto; e la sua cara speranza, il suo assoluto, il suo Dio: il lavoro sarebbe distrutto.

Eppure se «oggettività» vuol dire «oggettività», veder oggettivamente o non ha senso perché deve aver un soggetto o è l’estrema coscienza di chi è uno colle cose, ha in sé tutte le cose: ἓν συνεχές, il persuaso: il dio.

La «coscienza delle cose per sé stesse e non pel mio bisogno» bisogna per forza che sia tutta in un presente; e questo presente l’ultimo presente – ché altrimenti le cose non sarebbero per sé stesse ma pel continuare: per un qualche bisogno.

Dunque l’oggettività del lavoro scientifico nella quale gli scienziati vivono floridi κῆρα δὲ τότε δέξονται

ὁππότε κεν δὴ

Ζεὺς ἐθέλῃ τελέσαι ἠδ' ἀθάνατοι θεοὶ ἄλλοι


non può esser quella oggettività catastrofica, ché altrimenti il loro esperimentare sarebbe un affermarsi simile a quello dell’ape quando pungendo muore – e il primo esperimento, il battesimo della scienza, sarebbe il battesimo della morte.

«Ma noi non vediamo – noi guardiamo oggettivamente» protesterebbe ancora lo scienziato. Ma guardare anch’esso è un verbo e se pur verbo vuole il soggetto. E poiché gli scienziati non possono uscir impunemente dalla loro pelle come i bachi da seta, per guardar come son fatte le cose, ci è forza ammettere che l’oggettività è τρόπον τινά una soggettività. – E allora bisogna andar all’altro estremo: se non è il dio, è il sasso. Se non è l’identità della mia coscienza colla coscienza delle cose, è l’infinitesimale coscienza della relazione infinitesimale; e in questa l’illusione dell’assenza d’ogni assenso1 individuale; poiché del tutto l’assenso non si può togliere.

Per fare esperienza oggettiva io devo guardare le cose che non vedo: poiché quelle che vedo, le vedo per l’assenso della mia persona intera. E guardare vuol dire procurare all’occhio la vicinanza che risvegli il suo assenso: non come occhio che serve al mio corpo ma come occhio, come insieme di lenti: l’assenso inorganico.


Io vedo un’altra turba di gente su questa stessa via che mena all’assenso inorganico. E so che male sopporterebbe la sua vicinanza la dignitosa schiera degli scienziati – se pur la vedesse. Ma gli occhi preoccupati dal guardare non vedono.


È questa la turba dei gaudenti: che cercano il piacere pel piacere, e nel punto che lo cercano, già non l’hanno più (v. II P., c. l°) e la loro persona si dissolve. Se la bocca non gode più in ciò che sa che è buono pel corpo, ma vuol ripetere questo godimento se anche esso sia dannoso al corpo – essa non è più la mia bocca, ma una bocca che vuol viver per sé. – Ma perché essa ricerchi e moltiplichi quelle cose, che le facevano piacere prima nel servizio del corpo, ora non giunge a cavarne il dolce sapore; quella dolcezza apparteneva al corpo e alla sua continuazione – e 1a bocca soffre l’amara delusione che il pane le è insipido e insipida la carne: allora essa cerca il dolce per sé, e il salato, e il piccante e l’uomo così procura alle determinazioni chimiche del proprio organo la vicinanza delle cose necessarie alla loro affermazione e prende la persona di quella vita quasi atomica. Così avviene di tutti gli altri sensi nella degenerazione del piacere.2 Così avviene nella ricerca del sapere pel sapere, che si giunge alla sapienza degli organi per loro stessi e non come organi della mia persona e si ricerca il sapore del mondo in riguardo all’assenso inorganico.3


Provatevi a guardar le cose che non vedete, e vedrete: linee linee, corpi corpi, colori colori; cosa sono, non lo saprete poiché già non l’avrete visto – e l’occhio per sé non lo sa, la lente non lo sa. Ma l’occhio sa quello che sa solo in quanto vostro occhio. Mettetevi, ad esempio, a guardar oggettivamente la faccia dell’amico nella quale ora vedete «una bocca turpe e un’espressione che non va» e provatevi a ritrovar la nobiltà del naso e della fronte, che prima amavate – troverete linee e angoli e curve e prominenze d’una data forma, ma delle quali non saprete dir niente; la parola nobile detta di nasi e di fronti si farà per voi vuota d’ogni significato: il naso e la fronte dalla linea nobile vi saranno indifferenti e incomprensibili. –

Oppure ad esempio una punta: noi tutti sappiamo che la punta punge: ma invano vorrei ridur questo mio sapere a un’esperienza oggettiva: l’occhio vedrebbe una forma puntiva conficcarsi in una mano e goccie di sangue sortirne – e la mano sentirebbe una spiacevole impressione, ma io non saprei che la punta punge, poiché l’occhio non ha da esser il mio occhio, la mano la mia mano, s’io pur voglia esser oggettivo; e la contemporaneità delle due esperienze per l’osservatore oggettivo deve esser un caso, che egli ben si guardi dal costituire a regola – appena dopo ripetute energiche esperienze egli potrebbe azzardare l’ipotesi che forse le due cose dovrebbero avere un certo «legame di causa». –

M’accadde di veder dei bambini divertirsi (– molto filosoficamente –) con dei cartoni dipinti a figure rosse e azzurre sovrapposte. Guardandoli con vetri rossi e azzurri, che a volta [a volta] eliminavano le figure dello stesso colore, essi s’ingegnavano a riprodurre disegnando le altre così ricavate.

Ma uno se ne stava in disparte e dispettosamente gittati i vetri colorati s’affaccendava a copiare con tenace cura linea per linea il groviglio delle figure sovrapposte.

Ecco, pensai, questo sarà uno scienziato – che già ora il suo gioco sacrifica all’oggettività, e guarda e copia quello che egli non ha visto, quello che non ha senso per lui.

Infatti gli scienziati nelle loro esperienze la cecità degli occhi, la sordità delle orecchie, l’ottusità d‘ogni loro senso esperimentano. Invano ha ammonito Parmenide:

Μηδέ σ’ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω
νωμᾷν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουὴν
καὶ γλῶσσαν

A rendere più intensa questa ottusa vita autonoma dei sensi la scienza moltiplica la loro potenza con ingegnosi apparati. – Ma questa intensificazione non è che la ripetizione della stessa vicinanza, il render più vasta la stessa unica determinazione. Come se si prende l’idrogeno non in riguardo al cloro ma in riguardo al carbonio; che dell’uno s’accontenta ogni atomo con un atomo d’idrogeno, nell’altro ogni atomo è capace di 4 atomi d’idrogeno. Ma è sempre la stessa vita atomica, la stessa impotenza a procurarsi la vicinanza; l’idrogeno è la stessa realtà puntuale per entrambi. La vicinanza s’intensifica soltanto per la presenza delle determinazioni future, che nel presente ogni volta procura la vicinanza futura: questa è la vicinanza delle cose lontane (v. P. I, 2° c.). L’altra non è intensificazione ma moltiplicazione.

L’occhio nudo vede lo stesso che il telescopio o il microscopio; l’orecchio lo stesso che il telefono o il microfono. – Così anche tutti gli altri apparati che registrano colla delicatezza dei loro ingegni, i segni di minime relazioni che per la vicinanza moltiplicata sono portate vicine – non più ne prendono.

Degli scienziati moderni direbbe {{{Testo}}}: «Hanno microscopi e non vedono, hanno microfoni e non sentono».


C’è un esperimento, che uno scienziato che voglia l’oggettività può fare: si metta in un pericolo mortale e, invece di perder la testa per l’infinita paura, abbia il coraggio di non aver paura fino all’ultimo: allora taglierà la vita nel grosso e s’affermerà finito in quell’infinito dove gli altri sono straziati dalla paura, e conoscerà che cos’è la vita. Consigliabile per esempio l’esperimento di Gilliatt nei Lavoratori del mare quando si lascia uccidere dall’acqua che monta, seduto sullo scoglio. La viva marea mortale gorgoglia intorno all’uomo sullo scoglio – e lambendolo monta; sempre più lenta, poiché non per un corpo monta, ma per l’infinita volontà di permanere. Fino a che nell’ultimo attimo infinitesimale il tempo si fermi infinitamente. E l’uomo allora che non avrà levato la testa nemmeno d’una linea per prender nuova aria e continuare ancora, si potrà dire in possesso finito dell’infinita potestas: egli avrà conosciuto sé stesso e avrà l’assoluta conoscenza oggettiva – nell’incoscienza; avrà compiuto l’atto di libertà – avrà agito con persuasione e non patito il proprio bisogno di vivere. –

Ma questa sarebbe nuovamente l’oggettività catastrofica – d’altronde non è necessario architettare ad arte una tale situazione: – è nella vita d’ognuno quello scoglio che la marea sommerge, quell’aria alla quale ognuno si protende, per continuare ancora sempre avanti a credersi in sicuro: poiché la nascita è l’accidente mortale e nella vita può ognuno mostrare quanto sia ciecamente in balìa delle cose o quanto abbia in sé di ragione e veda la propria e l’altrui sorte.

Ognuno può finir di girarsi nella schiavitù di ciò che non conosce – e, rifiutando l’offa di parole vuote, venir a ferri corti con la vita.

Note

  1. Uso «assenso» per dir «attualità della persona nell’affermazione presente». Adsensus: così Cicerone traduce la συγκατάθεσις di Zenone Stoico, Acad. pr. II 144: ...cum extensis digitis adversam manum ostenderat «visum» (δόξα) inquiebat «huiusmodi est». Deinde cum paullum digitos contraxerat «adsensus huiusmodi».... – Joh. v. Arnim, Stoicorum veterum Fragmenta, vol. I, Lipsiae, 1905. –
  2. Forse per significar questo dissolversi, questo perder la solidità, questo «versarsi» della persona, i latini dicevano liquida voluptas. –
  3. L’organo è organo solo in ciò che è organo dell’organismo. –