La persuasione e la rettorica (1913)/La rettorica

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La rettorica

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Via alla persuasione La rettorica - Un esempio storico

[p. 59 modifica]l.° — La Rettorica. »',7i~,3av Y*f :r,v ìó?av :wv xvfyù-ov jxàÀXov rj-so Tr,v 3ó!-av toù iHoù . (S. Giovanni.) Ma gli uomini si stancano sii questa via, si sentono mancare nella solitudine: la voce del dolore è troppo forte. Essi non sanno più sopportarla con tutta la loro persona. Guardano dietro a sè, guardano intorno a sè, e chiedono una benda agli occhi, chiedono di essere per qualcuno, per qualche cosa, che di fronte alla richiesta del possesso si sentivano mancare. Di essere per qualcuno e per qualche cosa persona sufficiente con la loro qualunque attività, perchè la relazione si possa ripetere nel futuro, perchè il correlato sia per loro sicuro nel futuro. La loro potenza si finge finita, finito il possesso che volevano; la [oro volontà persuasa nella qualunque attualità "che si ripete. Di fronte alla qualunque relazione limitata finita essi non la vivono come semplice correlativo, ma da uomini che hanno la persuasione ; al di sotto della relazione elementare che li vince —


Ἠγάπησαν γὰρ τὴν δόξαν τῶν ἀνθρώπων
μᾶλλον ἤπερ τὴν δόξαν τοῦ θεοῦ.
(S. GIOVANNI)


Ma gli uomini si stancano su questa via, si sentono mancare nella solitudine: la voce del dolore è troppo forte. Essi non sanno più sopportarla con tutta la loro persona. Guardano dietro a sé, guardano intorno a sé, e chiedono una benda agli occhi, chiedono di essere per qualcuno, per qualche cosa, ché di fronte alla richiesta del possesso si sentivano mancare. Di essere per qualcuno e per qualche cosa persona sufficiente con la loro qualunque attività, perché la relazione si possa ripetere nel futuro; perché il correlato sia per loro sicuro nel futuro. La loro potenza si finge finita, finito il possesso che volevano; la loro volontà persuasa nella qualunque attualità che si ripete.

Di fronte alla qualunque relazione limitata finita essi non la vivono come semplice correlativo, ma da uomini che hanno la persuasione; al di sotto della relazione elementare che li vince [p. 60 modifica]per la loro paura della morte, essi fingono un correlativo alla persuasione che si fingono d’avere. Un valore stabile che non s’esaurisce nel giro delle relazioni particolari, ma permane di sotto fermo immutabile. Essi hanno bisogno per la loro φιλοψυχία d’attribuir valore alle cose nell’atto stesso che le cercano, e nello stesso tempo bisogno di dir la loro vita non esser in queste, ma esser libera nella persuasione e fuori di quei bisogni. Perciò il valore di quelle cose non confessano essere in riguardo al loro bisogno finito; ma sotto sotto c’è il valore assoluto nel quale essi s’affermano come assoluti.

Sono ancora cosa fra le cose, schiavi del più del meno, del prima del dopo, del se del forse, in balìa dei loro bisogni – paurosi del futuro, nemici a ogni altra volontà, ingiusti a ogni altrui domanda; affermano ancora in ogni punto la loro inadeguata persona. Ma questo è tutto apparenza, questa non è la loro persona; sotto, sotto permane la loro persona assoluta, che s’afferma assolutamente nel valore assoluto, che ha il valore assoluto: la conoscenza finita. L’uomo si ferma e dice: io so.



Le cose egli non le vive soltanto come ogni altra coscienza più o meno, affermandosi in ogni attualità. Ma egli sa «anche» cosa sono in sé queste cose: egli mangia, beve, dorme, ha peso, cammina, cade, si rialza, invecchia; ma la sua [p. 61 modifica]persona non è nel saper mangiare, bere, dormire, pesare, camminare, più o meno bene, non è la persona che invecchia: – egli sa «anche» tutte queste cose. E pel suo sapere egli è fuori del tempo, dello spazio, della necessità continua, egli è libero: assoluto. Egli vive di ciò che gli è dato, di cui non ha in sé la ragione, ma nella sua conoscenza assoluta egli ha la Ragione; se il fine delle sue affermazioni vitali è in ogni punto paura della morte, ma nel suo Assoluto egli ha il Fine; se egli è in balìa delle cose e non ha niente, e se pur questo niente difende come valevole con ingiustizia verso tutte le altre cose, ma nell’Assoluto egli ha la Libertà, il Possesso, la Giustizia. Cosi egli porta intorno l’Assoluto per le vie della città. Egli non è più uno ma sono due: c’è un corpo, o una materia, o un fenomeno o non so cosa, e c’è un’anima, o una forma, o un’idea. E mentre il corpo vive nel basso mondo della materia, nel tempo, nello spazio, nella necessità: schiavo; l’anima vive libera nell’assoluto.

Ma se vogliamo chiamar corpo il sasso che mi casca sulla testa, è corpo il mio dolore, è corpo la mia paura di nuovi sassi, corpo la mia potenza e corpo le potenze che la mia potenza trascendono: corpo il caso e corpo il suo figlio primogenito: Iddio. Ma è anima Iddio? allora è anima il padre, anima il fluire delle potenze, anima la mia potenza, la mia paura, il mio dolore, la testa, il sasso. Se sapessi che cosa vuol dir corpo e cosa vuol dir anima, prenderei animosamente [p. 62 modifica]partito per una delle due parti – ma non lo so. Che sia corpo o anima il pane, quando ho fame lo mangio, e il mio stomaco, corpo od anima che sia, si sazia come si sazia. Il cibo è buono o il cibo è cattivo ma il sapore non so se sia corpo o anima, materia o forma. Una persona vale, io ho piacere di parlar con lei, le voglio bene, ma questa persona, questo valore, questo piacere, questo bene, se siano corpo o anima io non so.

Questo so che se l’assoluto abita nell’anima gli resta poco posto in ogni caso poiché o cominciamo di sotto e la materia prepotente snida l’anima fin dagli ultimi ricoveri della coscienza. O cominciamo di su e allora l’anima dà essa stessa ricovero a tante cose che finiscono per cacciar del tutto l’assoluto. – Come conosco l’assoluto se non conosco nemmeno il corpo, dite voi? – L’assoluto, non l’ho mai conosciuto, ma lo conosco così come chi soffre d’insonnia conosce il sonno, come chi guarda l’oscurità conosce la luce. Questo so che la mia coscienza, corporea o animale che sia, fatta di deficienza; che l’assoluto non l’ho finché non sono assoluto, che la Giustizia non l’ho finché non sono giusto, che la Libertà, il Possesso, la Ragione e il Fine non li ho finché non sono libero e finito in me stesso e non manco di niente, che mi si finga a fine nel futuro, ma ho il fine ragionevole ora qui tutto nel presente, non aspetto, non cerco, non temo, ma sono persuaso.

Ma gli uomini non hanno più bisogno d’ [p. 63 modifica]esser persuasi, poiché da quando sono nati, qualunque cosa facciano o dicano, hanno già il privilegio d’un’anima immortale che 1i accompagna dalle braccia della balia, dai primi passi, [dal]le prime cadute per tutto il triste giro della loro ansia, del dolore, della paura; per tutte le illusioni e le delusioni – le transizioni, gli accomodamenti: fino al letto di morte. – E nello sguardo umido e supplichevole che invoca dal dottore la continuazione qui sulla terra e dal prete la continuazione oltre tomba, dove dà l’ultimo guizzo la paura della morte, essa ancora è là l’anima immortale che ha tutto in sé, che tutto conosce. – O se non l’anima che per certuni è parola antiquata, «lo spirito», «la ragione», o «il pensiero» anche soltanto – che ne fanno le veci e per i quali sempre l’uomo pur nella sua impotenza, nella sua distretta partecipa dell’assoluto: «sa», per cui sono in due: la sua vita, e il suo sapere.



Ma come s’afferma questo sapere accanto alla vita che in ogni punto s’afferma come s’afferma? Quando l’uomo dice «questo è», afferma direttamente la propria persona, la propria realtà (modo diretto).1

Quando l’uomo dice «so che questo è», egli si afferma di fronte alla propria realtà (modo congiunto).1 [p. 64 modifica]

Nel primo caso egli vuole qualche cosa, egli afferma il modo, la persona della sua volontà. Nel punto ch’egli mette una cosa come reale fuori di sé, egli dice il sapore che hanno per lui le cose, la sua coscienza, il suo sapere – quale esso anche sia. Per la sua illusione egli dice che «è» quello che «è per lui»; lo dice buono, cattivo quanto gli piace o gli dispiace.

Quando l’uomo dice «io so che questo è», egli «vuole sé stesso volente»: egli afferma nuovamente la sua persona di fronte a un elemento della realtà che non è altro che l’affermazione della sua stessa persona. Egli mette la sua persona nella sua qualunque affermazione come reale fuori di sé.

Ma se la sua persona fosse reale (avesse in sé la ragione), la cosa ch’essa afferma sarebbe – come suo correlativo – come essa stessa reale assoluta ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει, Parmenide), sarebbe per sé affermata: ma in ciò che egli ha bisogno di riaffermarla coll’affermazione del suo sapere, egli la dà come non per sé stessa reale – e la propria persona, come correlato di quella, insufficiente.

Ora con la riaffermazione della sua persona insufficiente egli presume attribuir valore a questa che essendo per lui non è. – Ma mentre l’affermazione diretta, che vive le cose – come le vive – attribuisce loro il valore relativo alla persona: le sa quanto le vuole; la riaffermazione di questa persona non aggiunge niente alla realtà. – La prima è sufficiente alla relatività di ciò che vive; la seconda che vuol metter questa relatività come [p. 65 modifica]assoluta, è insufficiente del tutto, è fuori della vita, fuori della sua potenza: è impotente. La prima sa se una cosa è buona o cattiva per la sua persona; la seconda non sa più niente se non che vuol sapere: esser persona finita.



Per sé stesso un uomo sa o non sa; ma egli dice di sapere per gli altri. Il suo sapere è nella vita, è per la vita, ma quando egli dice «io so», «dice agli altri che egli è vivo» per aver dagli altri alcunché che per la sua affermazione vitale non gli è dato. Egli si vuol «costituire una persona» con l’affermazione della persona assoluta che egli non ha: è l’inadeguata affermazione d’individualità: la rettorica.2

Gli uomini parlano, parlano sempre e il loro parlare chiamano ragionare; ma ὁποῖα ἂν τίς ποτε λέγῃ οὐδὲν λέγει ἀλλ’ ἀπολογεῖται- qualunque cosa uno dica non dice, ma attribuendosi voce a parlare si adula.

Come il bambino nell’oscurità grida per farsi un segno della propria persona, che nell’infinita paura si sente mancare; così gli uomini, che nella solitudine del loro animo vuoto si sentono mancare, s’affermano inadeguatamente fingendosi [p. 66 modifica]il segno della persona che non hanno, «il sapere» come già in loro mano. – Non sentono più la voce delle cose che dice loro «tu sei», e nell’oscurità non hanno il coraggio di permanere, ma cerca ognuno la mano del compagno e dice: «io sono, tu sei, noi siamo», perché l’altro gli faccia da specchio e gli dica: «tu sei, io sono, noi siamo»; ed insieme ripetono: «noi siamo, noi siamo, perché sappiamo, perché possiamo dirci le parole del sapere, della conoscenza libera e assoluta». - Così si stordiscono l’un l’altro.3

Così poiché niente hanno, e niente possono dare, s’adagiano in parole che fingano la comunicazione: poiché non possono fare ognuno che il suo mondo sia il mondo degli altri, fingono parole che contengano il mondo assoluto, e di parole nutrono la loro noia, di parole si fanno un empiastro al dolore; con parole significano quanto non sanno e di cui hanno bisogno per lenire il dolore – o rendersi insensibili al dolore: ogni parola contiene il mistero – e in queste s’affidano, di parole essi tramano così un nuovo velo tacitamente convenuto all’oscurità: καλλωπίσματα ὄρφνης: «Dio m’aiuti» – perché io non ho il coraggio d’aiutarmi da me. – [p. 67 modifica]


Hanno bisogno del «sapere» e il sapere è costituito. Il «sapere» è per sé stesso scopo della vita, ci sono le parti del sapere, e la via al sapere, uomini che lo cercano, uomini che lo danno, si compra, si vende, con tanto, in tanto tempo, con tanta fatica. Così fiorisce la rettorica accanto alla vita. Gli uomini si mettono in posizione conoscitiva e fanno il sapere. –

Ma poiché il sapere è in questo modo necessario, è necessario anche che ci sia sempre richiesta. Altrimenti gli uomini che sanno per chi saprebbero? Che cosa sarebbe un infermiere se non ci fossero gli ammalati? e che strano animale sarebbe il medico allora! Ma gli ammalati si creano. – Quando i giovani batton l’ali per levarsi dalla vita consueta, quando esce loro dal cuore, strano e incompreso a loro stessi, il grido della vita, quando chiedono d’esser uomini veramente – questo non è che «sete di sapere», si dice – e con l’acqua del sapere si spegne la loro fiamma. Il fine certo, la ragione d’essere, la libertà, la giustizia, il possesso, tutto è dato loro in parole finite che si applicano a cose diverse e da queste poi si astraggono. Se in ogni cosa essi chiedono la vita, d’ogni cosa vien dato loro in risposta «a questa curiosità» l’ὄνομα ἐπίσημον (Parmenide): il nome che sia per segno convenuto. Poi la rettorica «coinvortica» come la corrente d’un fiume ingrossato, che uno non si può tener presso la [p. 68 modifica]sponda ma è trascinato nel mezzo. «Dai un dito al diavolo e ti prende tutta la mano», dice il popolo. Infatti abituarsi a una parola è come prendere un vizio.

«La curiosità che chiede il nome» – diceva un elegante filosofo – «è il primo segno della virtù filosofica». Veramente!come egli definiva bene la «filosofia» – più che non credesse.

– In fatti il primo segno che uno dà della sua rinuncia a impossessarsi delle cose – per «amor del sapere», è l’accontentarsi al segno convenzionale che nasconde l’oscurità per ognuno in vario modo inafferrabile; in questo segno per questa convenzione presumendo d’avere il sapere, ogni volta un piccolo brandello di sapere che, congiunto poi e subordinato, per vario e mirabile concatenarsi della curiosità filosofica, ad altri brandelli, formi un sistema di nomi e gli costituisca l’inviolabile possesso dell’’assoluta conoscenza.

In questo il suo ben macchinato cervello è libero e assoluto padrone, che può scendere dai più generali ed astratti ai più particolari e vicini, e con non minor agevolezza – da questi a quelli salire, che può a qualunque richiesta su una cosa dare il nome e a questo nome o colla salita o colla discesa per la via dei simili o della definizione fingere un vasto raggio di luce.

Il sistema dei nomi tappezza di specchi la stanza della miseria individuale, pei quali mille volte e sempre avanti infinitamente la stessa luce delle stesse cose in infiniti modi è riflessa. Se la [p. 69 modifica]

fame resti insaziata, se il tempo distolga ogni bene da ogni presente, se il dolore si continui muto inafferrabile, se fuori l’oscurità vieppiù stringa – che importa? noi riflettiamo: noi siamo nella libertà del pensiero quando le sue forme applichiamo alle cose: cogitamus ergo sumus. Il resto sono inezie della vita individuale: pel pensiero non c’è deficienza, non c’è oscurità: nel sistema della conoscenza vive la libertà assoluta dello spirito...
Oh vanità, cinta di querce!



Ma cogito non vuol dire «so»; cogito vuol dire cerco di sapere: cioè manco del sapere: non so. Ma per gli uomini volere una cosa è averla, voler conoscere è conoscere, esser sulla via della conoscenza, aver in sé modi e mezzi finiti per la conoscenza. Se già conoscessero non si muoverebbero più, non avrebbero più bisogno d’affermarsi; se non avessero via alla conoscenza non si muoverebbero come coloro che non avrebbero via per muoversi: Sappiamo o non sappiamo: ἢ πάμπαν πελέμεν χρεών ἐστιν ἢ οὐκί (Parmenide). Ma la necessità per gli uomini è appunto il muoversi: non bianco, non nero, ma grigio; sono e non sono, conoscono e non conoscono: il pensiero diviene. I dati per sé non sono niente, dicono gli uomini: noi dobbiamo ora prenderli, considerarli sub specie aeterni, contemplarli, e pensando andare verso la conoscenza. Il valore, la [p. 70 modifica]la realtà è la via: la macchina che muove i concetti: l’attività filosofica.

Ma se pensare vuol dire agitare concetti, che appena per questa attività devono divenire conoscenza: io sono sempre vuoto nel presente e la cura del futuro dove io fingo il mio scopo mi toglie tutto il mio essere. Cogito = non-entia coagito, ergo non sum.

Ma questa è la vita che la rettorica finge all’uomo accanto alla vita come vita d’una cosa che dicono intelletto – che se tale fosse non vivrebbe più. – E questa vita è la più nobile, è la più alta, è l’unica virtuosa, è quella che ci leva dalle miserie umane insieme e dal dovere d’esser uomini in questo mondo mortale, poiché per questa vita noi già partecipiamo alla divinità. Tu t’informi ai concetti, ai modi, al sistema, entri nel metodo delle classificazioni, delle definizioni, o in quello più raffinato delle superazioni, e lavori; per questo tuo lavoro che t’è dato, nelle vie battute dagli altri per questo tu sapendo e non sapendo: saprai, o altri sapranno per la tua fatica.

Ma non fai niente, non sai niente, non dici niente, fosse anche la via dove credi di trovarti la via del più saggio uomo sulla terra. Che se a lui t’affidi e lo incarichi di ciò che pesa a te, resti invalido sempre. Le sue parole in cui ti fingi un valore assoluto sono per te un arbitrio che tanto ne comprendi quanto ne puoi prendere. – Non c’è cosa fatta, non c’è via preparata, non c’è modo o lavoro finito pel quale tu possa [p. 71 modifica]giungere alla vita, non ci sono parole che ti possano dare la vita: perché la vita è proprio nel crear tutto da sé, nel non adattarsi a nessuna via: la lingua non c’è ma devi crearla, devi crear il modo, devi crear ogni cosa: per aver tua la tua vita. – I primi Cristiani facevano il segno del pesce e si credevano salvi; avessero fatto più pesci e sarebbero stati salvi davvero, ché in ciò avrebbero riconosciuto che Cristo ha salvato sé stesso4 poiché dalla sua vita mortale ha saputo creare il dio: l’individuo; ma che nessuno è salvato da lui che non segua la sua vita: ma seguire non è imitare, mettersi col proprio qualunque valore nei modi nelle parole della via della persuasione, colla speranza d’aver in quello la verità. Si duo idem faciunt non est idem. Non quello che l’occhio vicino vede di ciò che uno ha fatto, è il senso della sua attività; ma la mente con cui l’ha fatto, che soltanto con ugual mente si può rivivere e riconoscere anche nel più piccolo segno. Ma per l’occhio miope quel segno non è che un segno che nasconde oscurità che lo trascendono. Egli sa dell’organismo vivo quello che una formica sa del corpo dell’uomo quando per le ignote pianure e gli avvallamenti di questo corpo passeggia. Chi a quei segni s’accontenta, e del ripetere quella vicinanza che sa, si fa un lavoro sufficiente, non è salvato, ma perduto. Il suo lavoro gli è un oscuro tormento, una fatica bruta, che non ha [p. 72 modifica]per lui in sé la ragione nel punto che egli lo fa, ma è per aver fatto, è per la lontana speranza. «L’opera dello stolto, lo stanca – che non sa la via della città» (Ecclesiaste).

La via della persuasione non è corsa da «omnibus», non ha segni, indicazioni che si possano comunicare, studiare, ripetere. Ma ognuno ha in sé il bisogno di trovarla e nel proprio dolore l’indice, ognuno deve nuovamente aprirsi da sé la via, poiché ognuno è solo e non può sperar aiuto che da sé: la via della persuasione non ha che questa indicazione: non adattarti alla sufficienza di ciò che t’è dato. I pochi che l’hanno percorsa con onestà, si sono poi ritrovati allo stesso punto, e a chi li intende appaiono per diverse vie sulla stessa via luminosa. La via della salute non si vede che con gli occhi sani ὅσον τ’ ἐπὶ θυμὸς ἱκάνοι (Parmenide).



Voi che cercate la prudenza, che cercate il sapere, l’affermazione assoluta, voi che cercate la pace della conoscenza, l’acutezza dello sguardo, che cercate il piacere:
il piacere è il fiore del dolore, il dolce è il fiore dell’acerbo, l’acutezza è il fiore della profondità, la pace è il fiore dell’attività, l’affermazione è il fiore della negazione, il sapere è il fiore della fame, la prudenza è il fiore del coraggio; poiché il dolore non cerca il piacere ma il possesso, la profondità non cerca l’acutezza ma la [p. 73 modifica]vita, l’attività non vuole la pace ma l’opera, la negazione non vuol affermare ma negare, la fame non vuol il sapore ma il pane, il coraggio non vuol la prudenza ma l’atto.

Io sto recitando litanie – ma questo non può cambiar niente alla cosa: certo è che nel punto che uno si volge a guardar il proprio profilo nell’ombra, lo distrugge. Così l’uomo per volgersi al sapere, che è la persona, la coscienza attuale dell’onesta volontà della persuasione, distrugge questa per sempre.

S’io parlassi d’altri piaceri che l’uomo – nel punto che li cerca – distrugge, – tutti sarebbero d’accordo, ma poi direbbero: ma qui è un’altra cosa. Invece è proprio la stessa cosa:

Οὐδὲ καλᾶς σοφίας ἐστὶν χάρις
εἰ μή τις ἔχει σεμνὰν ὑγίειαν
. . . . . . . . . . . . . . .
τὶς γὰρ ἁδονὰς ἄτερ
θνατῶν βίος ποθεινὸς ἢ ποία τυραννίς;
τᾶς δ' ἄτερ οὐδὲ θεῶν ζαλωτὸς αἰών.
(Simonide)


Il piacere è l’attualità di tutta la mia persona come determinata potenza, nell’affermazione presente: il cibo m’è dolce quale e quanto conviene alla mia persona (v. P. I. cap. 2°, I).

L’uomo quando sente l’insufficienza della sua persona e si sente mancare di fronte a ciò che esce dalla sua potenza, si volge a ricercare quelle posizioni dove il senso attuale della sua persona [p. 74 modifica]lo aveva altra volta adulato colla voce del piacere: «tu sei», o in quelle che prodighe di piacere agli altri egli conosca. Ma nel punto ch’egli fa questo, già è fuori del giro sano della sua potenza, che non più cerca il cibo, o la donna, o il vino come necessari alla continuazione della sua potenza, alla sua salute, e nella misura a questa conveniente, ma cerca il sapore pel sapore. Egli cerca quello che già non è più nel punto che lo cerca. Euridice che gli dei infernali concessero ad Orfeo, era il fiore del suo canto, del suo animo sicuro. Quando egli nell’aspra via e oscura verso la vita, si volse, vinto dalla trepida cura, già Euridice non era più.

Per quanto uno provi e riprovi «i piaceri», si metta e si rimetta nelle posizioni note, le troverà, come inconvenienti, insipide o spiacevoli. Egli ha perduto la salute. Il sapore era l’attualità della sua stessa persona, che voleva essere ed in questa attualità godeva l’illusione dell’individualità: volendo questa come valore a sé, egli si sdoppia, si guarda nello specchio, egli vuol goder due volte di se stesso5 e per vanità sempre più vano facendosi degenera. Il piacere non è più il suo piacere, ma è il luogo comune, sono «i piaceri». E verso quelli egli si afferma sempre inadeguatamente, che non ha più il criterio ma è fuori della propria potenza: è la rettorica del piacere. [p. 75 modifica]

Così gli artisti impotenti che cercano «l’impressione» mettendosi e rimettendosi nelle posizioni note, che come la cercano così non l’hanno, ma hanno solo la propria volontà d’averla e sfruttano invano nella pietosa rettorica il loro prezioso organismo dalle sensazioni raffinate.6

Così i ricercatori della verità che per la paura dell’oscurità si fingono una vita assoluta nell’elaborazione del sapere e dicono: γλυχὺ τὸ γνῶναι, sono già vinti dall’oscurità, sono già fuori della vita e della qualunque salute del loro organismo, già non hanno più la dolcezza d’alcun sapere. E, consumando il loro tradimento verso la natura che nell’Uomo finito vuol giungere alla persuasione, hanno già tradito sé stessi. La loro coscienza non è più un organismo vivo, una presenza delle cose nell’attualità della propria persona, ma una memoria: un aggregato inorganico di nomi legato coll’organismo fittizio del sistema.7 In questo [p. 76 modifica]modo l’uomo per la sua rettorica non solo non procede ma ridiscende la scala degli organismi e riduce la sua persona all’inorganico. Egli è meno vivo di qualunque animale. Ben felici le bestie che non hanno «anima immortale» che le getti nel caos dell’impotenza rettorica, ma si mantengono nel giro sano della loro qualunque potenza.8

Ma l’inadeguata affermazione degli uomini, che vogliono aver persona sapiente, non ha criterio, non ha limite. Come non hanno né criterio né limite le altre voci dell’impotenza: la voce dell’ira, della precauzione, la voce del vino e dell’impertinenza giovanile, della disperazione, dove sempre inadeguatamente s’afferma la già vinta dall’oscurità persona dell’uomo.

Come quando un uomo per costituirsi una persona parla di sé e non c’è più limite e criterio a quel che dice, che qualunque cosa dica, volgare o strana, piccola o grande, piacevole o dolorosa, onorevole o vergognosa, perché la dice di sé, come propria a lui, come fatta da lui, egli la crede tale da costituirgli la persona che si sente mancare – così vaneggia la rettorica filosofico-letteraria, che a proposito di qualunque cosa metta in azione, col lavoro oscuro del sistema e del

  1. 1,0 1,1 V. App. I
  2. La vita è in ogni coscienza un valore irrazionale (ἄλογος κατὰ φύσιν, Eraclito), un implicito errore di logica – ma la rettorica ha due volte il fattore irrazionale dell’illusione. Perciò dice Cristo: τυφλοὶ ἦτε ὅτι μὴ βλέπετε ἀλλὰ λέγετε ὅτι βλέπομεν ἁμαρτία ὑμῶν μένει.–
  3. Per la stessa inadeguata affermazione gli uomini hanno piacere a cantare o recitare cose degli altri. –
  4. Ἰησοῦς Χριστὸς Θεοῦ Ὑὸς Σωτήρ.
    Ἰησοῦς Χριστὸς Θεοῦ Ὑὸς Ἑαυτοῦ Σωτήρ.
  5. Io voglio il mio godimento = voglio me stesso volente (poiché il godimento già non è che il correlativo della mia volontà, la mia stessa persona).
  6. Che della stessa impressione di questo vuoto si può far dell’arte, il nostro tempo c’insegna. Qualunque cosa io dica, poiché io sono l’artista, l’ho detta, dunque è arte per forza.
  7. Ognuno può esperimentare l’impotenza della memoria a ricordare un qualunque nome senza soggetto che sia andato sperso per via. Trovate un albero che si dimentichi come si fanno i fiori in primavera! E d’altro canto la presenza stessa di una memoria accanto alla attualità della propria persona è una malattia: un organismo non tollera corpi estranei. – «Imparar a memoria» si dice in tedesco: auswendig lernen!
  8. E se certuni dicono che le donne non hanno anima, dicono una verità che non sospettano, poiché – meno le neutre che sono anche un bene del nostro tempo – infatti le donne non hanno rettorica; – ma sono sempre la stessa domanda d’un «uomo»; – e in ciò sono tradite dall’uomo prima di nascere. –