La porta della gioia/La porta della gioia

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La porta della gioia

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Lettere d’amore Fedeltà

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LA PORTA DELLA GIOIA

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— Voi direte, amico mio, ch’io sono una donna di vecchie convinzioni e che ho scrupoli assurdi. Ma il mio rispetto per la casa altrui mi vieta d’accettare un convegno nella villa di Lucrezia Aloisi.

— La casa è sacra, — egli sogghignò, beffardo. — È una frase fatta.

— Che volete? Voi amate il paradosso e io amo le frasi fatte.

— Sono le sole cose ch’io vi credo capace d’amare.

L’avvocato Lucio D’Almea e la giovine vedova camminavano a paro lungo la marina popolata in basso d’innumerevoli lucciole e in alto d’innumerevoli stelle, mentre il ritmo uniforme delle onde segnava di monotone pause musicali gli intervalli del dialogo. Dalla pineta un mite sentore di resina scendeva a confondersi con l’aroma salso del mare.

— Avrete freddo alle spalle con cotesta scollatura. Volete che torniamo?

— Torniamo.

C’era nella voce di lei la vibrazione di uno [p. 22 modifica]sdegno contenuto e una simulata indifferenza. L’uomo taceva, stanco di pregare. Egli era di coloro ai quali le cose a lungo desiderate sembrano meno belle, eppure Maria Farnese lo aveva più volte indotto a supplicarla e le rinnovate ripulse accendevano di nuove vampe il suo inutile desiderio. Ma ormai era ben deciso a non insistere oltre. Ella aveva opposto un rifiuto a venire nella casa di lui, adducendo come pretesto il timore di essere veduta da certi conoscenti che abitavano di fronte. Piccolo e strano pretesto per una donna così fiera, così autoritaria e così indipendente! Ora più nessun ostacolo si frapponeva: la villa disabitata dell’amica era a ridosso della collina, celata fra i lauri e gli ulivi, in un punto ove non passano che i misantropi e gli amanti. E i misantropi non si curano dell’umanità, e gli amanti non vedono nulla.

— La vostra amica vi diede licenza di frequentare la villa saracena in qualunque ora del giorno e della notte, senza distinguere se vi permettesse di andare a raccogliere le ninfee o a prendere il tè o ad accarezzare i cigni o a contemplare il mare dalla torre. E mi pare che non le si farebbe offesa recandovi un omaggio d’amore.

Per il tratto di strada che dalla punta protesa verso l’isola Gallinara conduce all’Hôtel, [p. 23 modifica]egli tacque assorto. Cercò frivoli argomenti, ma non gli riuscì di costrurre una sola frase. Contò tutti i lumi che si specchiavano nel mare fino al rosso fanale del molo. La luna sorgeva come una larga medaglia incandescente e l’illusione che uscisse dall’acqua era così viva che, quando fu tutta emersa, egli attese di vederne scivolare qualche stilla. Al fondo dello scoscendimento dove l’acqua era più cupa, una barca peschereccia o una feluca d’innamorati vogava verso il largo, e nello sciacquìo si rifletteva un pallone veneziano che nell’azzurro verdognolo era come la brace d’una sigaretta gittata in una coppa di champagne.

— Eccoci.

Dall’Hôtel venivano le strofette disinvolte di una parigina canzonetta di Darius, impoverita dalla impacciata interpretazione d’una matura signorina. Investita alle spalle dal chiarore intenso delle lampade ad arco, la figura agile di Maria Farnese si delineava come un’ombra materiata di veli.

— Non entrate? Vi offro un rinfresco, — diss’ella con una punta d’ironia. — Nel ritorno, caro avvocato, vi siete acceso in una perorazione così fervorosa che vorrei placare la vostra arsura.

— Siete arguta, amica bella. Ma la mia arsura è ben altra.

E si curvò a baciarle la mano. [p. 24 modifica]

La donna salì i tre scalini di bardiglio venati di celeste, mascherando d’un sorriso l’oppressione oscura che le chiudeva la gola, mentr’egli con uno scatto iroso apriva, allontanandosi, il portasigarette d’oro.

Gli eucalipti insaporavano l’aria di una acuta fragranza e il maestrale che si era levato sul crepuscolo e rapidamente s’era venuto inforzando pareva spruzzasse sul mare increspato e sulla terra abbrividita quella tenue essenza aromatica. Lucio D’Almea pensò che i profumi sono i colori della notte e che la tavolozza ne è varia com’è varia la tavolozza cromatica del giorno. Ma quel profumo d’eucalipti gli parve troppo molle, troppo esotico, troppo letterario; più in là, verso il capo, ov’era stato poco innanzi con lei, ne aveva aspirato uno più italiano, più rivierasco, più nostro, e quella solitudine, quel fiottar leggero delle onde, quella costa alternata di bande violacee e di punti vermigli lo attrassero come un dolce richiamo. Rifece la strada percorsa con lei e s’avviò lentamente sul largo nastro di polvere bianca che si snodava con la morbidezza di un lungo tappeto di velluto su un immenso pavimento di malachite.

I giardini dalle aiuole pettinate e fioriti di mimose rendevano più acuto il suo desiderio d’amore. Ognuno di quei piccoli nidi d’ombra, di verde e di silenzio sembrava nascondere nel [p. 25 modifica]folto due anime felici e due corpi ardenti, ed egli sentiva risorgere fremendo nelle sue vene l’amore, la gelosia, il rancore, per un momento sopiti. Anche il vento s’agitava intorno a lui, imperversando nella notte taciturna: la grande luna accesa apparve solcata da una nuvoletta filiforme e qua e là un po’ di nuvolaglia a pecorelle preannunziò il temporale. Qualche goccia incominciò a cadere.

Egli ripassò dinanzi all’albergo che ospitava Maria Farnese: la sala a pianterreno era riboccante di signore che si contendevano tre o quattro uomini in marsina. Riconobbe l’amica di una volta che più non aveva incontrata da gran tempo: era ravvolta fino alle ginocchia da un mantello color di porpora, vasto molle lenteggiante come uno zendado. Scorse la russa dai capelli biondi, un biondo tizianesco e artificiale, coperta le spalle da una specie di dalmatica a fiorami d’oro. Un violinista dalle prolisse chiome diffamava la canzone lituana di Chopin e una signora seguiva il diteggiare del musicista strabuzzando teatralmente gli occhi cerchiati d’ocra e di vizio.

Maria Farnese non c’era. E mentre il violinista filava virtuosamente l’ultima nota, egli mosse con fare stanco e nauseato verso casa.

Nella vasta camera da letto, tepida di panneggiamenti violacei, adorna di vasi di Signa e [p. 26 modifica]di fiale di Murano dalle tonalità calde, spiccava con sanguigna violenza sulla piccola scrivania d’ebano e di madreperla un gran mazzo di rose rosse. Ma una lettera dalla busta molto larga e dalla scrittura molto alta non gli diede il tempo di osservare le rose. Insinuò il tagliacarte nella ripiegatura, l’aperse e lesse: — «Le ho raccolte io stessa sotto la pioggerella notturna. Vi recano la chiave medioevale della vecchia casa. Domani sera, a mezzanotte, mi precederete nella sala delle armi. Sarò come una fanciulla sperduta che cerchi asilo fra le vostre braccia salde. Mi bacerete a lungo perchè avrò molta paura. A domani. Maria».

Intorno agli steli spinosi era avvolto un grosso cordone d’argento. Lo riconobbe: era quello che le cingeva i fianchi, sull’abito di velo cenerino, la sera stessa: e da esso pendeva una grossa chiave d’antica forma, la chiave della villa saracena.

E Lucio D’Almea staccò con delicatezza dalle rose e resse sulla palma contemplandolo con un sorriso di tenerezza, accarezzandolo come una ciocca di capelli, baciandolo come una reliquia, quel grossolano ferro arrugginito che gli avrebbe aperto la porta della gioia.

Allo svegliarsi trovò sulle coperte il volume di diritto canonico che gli aveva recato il sonno, e la lettera di Maria Farnese che più volte glie [p. 27 modifica]lo aveva interotto. Rilesse la lettera e buttò il libro.

Il cutter lo attendeva con la vela spiegata per la solita gita mattutina. Quel giorno la gita fu più lunga, com’era stato più lungo il sonno; egli voleva abbreviare quant’era possibile la giornata d’ansia e d’attesa. Quando fu assai lontano dalla costa lasciò che la navicella andasse a caso e si adagiò sui cuscini del fondo, contemplando la collina.

La villa saracena che nella sua grazia civettuola era costrutta a guisa di castello, segnava un quadrangolo rosso su una rupe bruna. Egli vi riconobbe con la fantasia la gran porta in legno di cedro che aveva spesse volte esaminata con occhio d’artista: ricordava l’ingenua storia d’amore intagliata col coltello, la torre tappata da licheni, i cipressi scattanti verso l’alto, come severi custodi, i ramarri anemici intenti a far la cura del sole sul cancello di ferro martellato, i leggendari cigni oziosi nel piccolo lago verde, fra i nenufari d’ambra e d’avorio.

Dalla spiaggia un gaio sciame di fanciulle gli fece visibili cenni di richiamo: con una mossa lenta di timone e con una rapida manovra di vele, diede al cutter il garbato esatto agile movimento di un compasso e lo fece tornare sulla propria scìa. Quando fu all’approdo era mezzogiorno: ancora un giro d’orologio! Il servo [p. 28 modifica] che lo attendeva all’imbarcatoio gli domandò ammainando:

— Il signore rimane a colazione in casa?

— No.

Andò a vestirsi di chiaro, si annodò una cravatta gialla che strideva terribilmente sul mavi della camicia. Entrò in un ristoratore, ordinò qualcosa, vi si trattenne brevemente, pagò, uscì.

Al caffè, chiese un cocktail e un quotidiano.

— Quello d’oggi non è ancora arrivato.

— Portami quello di ieri o di sei mesi fa.

Lesse tutto l’articolo di fondo e bevve d’un fiato tutta la bibita. Quando fu alla fine della seconda colonna e vide che il bicchiere era vuoto, si meravigliò d’aver sorbito le due cose senza accorgersene: non sapeva che sapore avesse il cocktail, non sapeva di che colore fosse la politica del giornale. Ma chissà quante ore erano passate! Guardò l’orologio: le tre.

Andò a casa, aperse un cassetto della scrivania, sedette, scrisse una cartolina a un amico indifferente, uscì per impostarla e s’accorse che entrava in un giardino pubblico. I giardini pubblici gli davano un singolare disgusto, perchè in essi non si soffermano che i poveri. Esitò un momento, fu per tornare indietro, e poi lo attraversò risoluto: anzi, fece di meglio, vinse il disgusto e sedette un momento sopra una panca. [p. 29 modifica]

Le tre e un quarto. Il tempo non passò più. Portò all’orecchio l’orologio e sebbene andasse benissimo, lo caricò.

Tornando dalla posta udì un cozzar di palle da bigliardo e un vociare giocondo. Fu tentato d’entrare, ma gli parve un gioco da studenti e da garzoni parrucchieri.

Ripensò alla lettera di Maria Farnese: «Sarò come una fanciulla spaurita che cerchi rifugio». No. Non diceva spaurita. C’era un’altra parola: «sarò come una fanciulla... una fanciulla....» Ma che importanza ha tutto questo? D’un tratto si ricordò: «una fanciulla sperduta che cerchi asilo fra le vostre braccia».

Pranzò a casa. Alle otto aveva finito. Si rase accuratamente impiegando in tale operazione il doppio del tempo consueto: cercò la più bella cravatta, scelse gli anelli più fini, provò la spilla con la miniatura dell’Isabey, ma il fondo turchino sembrava nero alla luce artificiale. Provò la miniatura del Lawrence contornata di diamanti di vecchia cava, bruni come vetro appannato e sommersi in grossi castoni di platino. Ma era troppo larga sul piccolo nodo della cravatta, sul quale non s’addattava che un rubino, una perla o un diamante. Il rubino, la perla, o il diamante? E dopo un lungo indugio dinanzi allo specchio si decise per lo smeraldo.

Si lasciò cadere sui risvolti della giubba [p. 30 modifica]qualche goccia di sandalo, ma poi s’accorse che il suo abito sapeva di trifoglio incarnato. Che combinazione, di cattivo gusto il sandalo e il trifoglio! E mentre meditava sul grave errore si ricordò di prendere la chiave della villa saracena.

La guardò, la soppesò. Era così larga e ingombrante che non sapeva dove riporla. La cacciò in tasca, ma quel pezzo di ferro grossolano deformava la sua linea svelta e aggraziata.

— È una magnifica idea farsi costruire una villa in stile saraceno e tenersi con precisione artistica ai precetti di architettura e di stile. Ma spingere il proprio zelo fino all’eseguire in stile saraceno anche la chiave è stupido! Terrò la giubba sbottonata. Del resto siamo d’estate.

— Il signor padrone desidera ch’io lo attenda?

— Va pure a letto.

— Domattina alla solita ora terrò preparato il cutter?

— No.

— Lo sveglio presto?

— No.

— Buon passeggio, signor padrone.

Intorno alle lampade ad arco del Casino che gettavano sui visi una luce verdognola era un ronzìo di grossi coleotteri neri che vi davano scioccamente del capo e cadevano riversi sulla ghiaia. Egli lesse: Circolo privato dei forestieri, [p. 31 modifica]e varcò la soglia, svoltò in un lungo corridoio ritorto, si lasciò squadrare da due valletti in polpa che gli presero il bastone e il cappello, e si trovò nella grande sala delle tappezzerie ulivigne ove intorno a due vaste tavole verdi si assiepavano giovani eleganti, vecchie signore, belle mondane ritoccate, dalle braccia nude e dai polsi carichi di armille sottili e di braccialetti pesanti, donne dal viso stanco che avevano certamente un passato, tipi oscuri, volti indecifrabili, fronti tormentate, facce esotiche, mani rattratte ad artigli nell’atto di ghermire, dita sottili, nervose, gialle, chiuse a pugno in un silenzioso atto d’ira.

E molto denaro gettato sul tappeto, ammonticchiato su quadrelli, disposti con inquietudine su questo o su quel numero; denaro posto, ritirato, rimesso sotto forma di innumerevoli gettoni rossi, bianchi, gialli, verdi, azzurri. Ogni poco la voce dell’impiegato che annunzia il numero e il colore, e un rastrello che si allunga a ingollare inesorabilmente tutto quel denaro variopinto.

Messieurs, faites vos jeux.

Un protendersi di corpi, un allungarsi di braccia, il volo di un gettone da una parte all’altra del tavolo.

Les jeux sont faits? Rien ne va plus.

E la piccola pallina d’avorio prende a girare [p. 32 modifica]vertiginosamente, con un sommesso e ironico ronzìo sul disco a spicchi rossi e neri, mentre qualche ritardatario, mosso da una sua ispirazione, punta un ultimo gettone. Qualcuno guarda la pallina con occhi così attenti e severi che sembra voglia dominarla, trattenerla, fermarla, farle compiere ancora un mezzo giro. Altri fissa un punto sul tappeto, come per custodire ferocemente il proprio denaro o per imporre al suo numero di uscire.

— Ora viene il sette.

— No. Viene un numero alto.

— La dozzina di mezzo.

— Lo zero.

Sul vociare nervoso, pieno di desiderio, di trepidazione, d’ansia, di timore, s’alza la voce decisiva e inesorabile del croupier.

Trente-deux. Rouge pair et passe.

Scatti di rabbia, sorrisi di compiacimento, mormorii confusi e un lucido rastrello che s’allunga su tutti i numeri, meno uno, il vincente.

Lucio D’Almea aveva giocato a Montecarlo e altrove varie volte, ma aveva promesso a se stesso di non lasciarsi più attrarre dal tappeto verde. Non si sentiva l’anima avida e paziente del giocatore che sa attendere, frenando i propri nervi, il colpo di fortuna. Egli si turbava, fremeva della disdetta, soffriva in una maniera sproporzionata alla futile causa. [p. 33 modifica]

— Come impiegherò il mio tempo fino a mezzanotte? Ho giurato di non lasciarmi più attrarre dalla roulette, ma i giuramenti fatti nelle sale da giuoco sono come quelli fatti al letto dei moribondi. Si è autorizzati a non mantenerli.

E così dicendo mise un biglietto di banca sull’undici.

Onze, rouge impair et manque.

Aveva vinto centosettantacinque lire. Ma il suo pensiero era lontano: egli vedeva la torre toppata di licheni, i cigni addormentati, l’antica porta di cedro e una pallida figura di donna che saliva trepidante l’erta frondosa ed entrava come una diafana apparizione nella casa.

Rèpètition! Onze, rouge impair et manque.

Un movimento di meraviglia dei giocatori lo richiamò alla realtà. Veniva un’altra volta l’undici che non era uscito per tutta la sera e Lucio D’Almea si trovò d’un tratto la sua somma moltiplicata per trentacinque.

Six mille trois cents francs à monsieur.

Quando ebbe nelle mani tutto quel denaro dispose nelle tasche i gettoni suddividendoli secondo il loro valore e ne lasciò qualcuno sul tappeto. Una donna rugosa dai capelli rossi gli disse melliflua:

— Mi dia un luigi, signore. Le ho portato fortuna. Sarò la sua mascotte. [p. 34 modifica]

Nessuno dei numeri che aveva puntato uscì. Egli diede venti lire alla donna e raddoppiò le puntate. Venne lo zero. Triplicò le puntate. Nulla, nemmeno questa volta.

Udì la donna rugosa mormorargli all’orecchio un consiglio e rispose irritato:

— Non mi secchi.

Gettò una manciata di denaro sull’ultima sestina. Venne la penultima. Gli rimanevano mille lire. Le puntò un’altra volta sull’ultima sestina. Uscì il trentasei e vinse cinquemila lire. Lasciò tutto, ma il suo numero non uscì più. Perdette ancora. Fece cambiare un grosso biglietto di banca, ma in quattro colpi anche quello sfumò. Cambiò un ultimo biglietto e puntò il tre. Non venne, ma dall’altro tavolo da gioco s’alzò la voce dell’impiegato:

Trois, noir, impair et manque.

— Se avessi giocato all’altro tavolo avrei vinto, — egli riflettè rabbiosamente e s’alzò cercandosi nelle tasche un ultimo gettone.

In quell’atto sentì la sua mano urtare contro un oggetto freddo ruvido duro, che gli graffiò la palma con una punta ricurva.

— Che è mai questo arnese? — egli si domandò corrugando la fronte, sorpreso di trovarsi addosso quell’ordigno così poco elegante, così poco in armonia con la raffinatezza signorile che di solito lo circondava. E senza rispondere [p. 35 modifica]alla propria domanda, tutto occupato dal corruccio rabbioso che gli cagionava l’ostinata disdetta al gioco, si avvicinò ad una delle alte finestre spalancate sul mare e scaraventò nel buio la chiave medioevale, pensando con ira:

— Ecco ciò che mi portava sfortuna!

La fervida passione d’amore che da tanti giorni lo tormentava taceva in quel momento, premuta, oppressa, soffocata dalla brutale passione del gioco. Il suo desiderio fu simile in quell’attimo alla fiamma di una lampada votiva su cui s’abbatta un colpo impetuoso di vento: vacillò, impallidì, parve spenta dinanzi alla dolce immagine profana per cui ardeva consumandosi.

Lucio D’Almea tornò coi nervi frementi al tavolo della roulette, e si disponeva a sfidare ancora la sorte quando l’impiegato dichiarò:

— La partita continuerà domani sera, alle nove.

— Ma come? È già finito?

— Sì. A mezzanotte si chiude.

Egli si avviò con altri verso l’uscita, ma si fermò sulla soglia. Nella veranda una pendola imitante il suono dell’abbazia di Westminster battè dodici colpi. Ad uno ad uno egli li contò, ascoltò il malinconico arpeggio che li seguì e rimase immobile, coi pugni sprofondati nelle tasche e i denti serrati sotto la mascella a fissare la luna grande, accesa, lucida come una [p. 36 modifica]medaglia sospesa nell’alto, e a raccogliere in una successione ordinata i suoi pensieri sconvolti.

— Mezzanotte — disse a se medesimo; e si ripetè le parole della lettera che il giorno innanzi a quell’ora lo aveva costretto a sussultare di felicità: «Eccovi la chiave medioevale della vecchia casa. Domani sera a mezzanotte mi precederete nella sala delle armi». Ahimè! Egli comprendeva ora l’irreparabile stoltezza del suo gesto iracondo: la chiave medioevale giaceva fra gli scogli, in fondo al mare, la porta della gioia rimaneva chiusa.

Udì qualcuno ingiungergli rispettosamente d’andarsene, afferrò il bastone e il cappello che gli porsero e uscì nella gran luce delle lampade ad arco, ma quando fu ai piedi della gradinata si fermò un’altra volta a meditare.

Cercava in fondo alla sua esercitata scaltrezza d’uomo di mondo il mezzo di riparare all’atto inconsulto, cercava verosimili scuse, cercava le preghiere, le blandizie, le menzogne sagaci che sono il linguaggio consueto degli innamorati. Ma la mente gli si smarriva in quel labirinto sottile ed egli rifletteva invece sul carattere sdegnoso e superbo di Maria Farnese e su quella sua repentina promessa d’appartenergli, mandata certo in un momento di follìa che non si sarebbe ripetuto. [p. 37 modifica]

— Che fare? Scriverle? Non più vederla? Partire? E se ella, paurosa e trepidante, mi attendesse presso quella porta, lassù? — pensò d’un tratto, invaso e sollevato da una improvvisa speranza.

Vi si diresse a gran passi, percorse col petto pieno di battiti sordi la stradetta scoscesa, giunse anelando alla soglia della villa saracena su cui batteva lo splendor bianco della luna.

Tentò il battente sul quale era intagliata una ingenua storia d’amore, ma resistette. Guardò le lunghe finestre bifore, ma erano tutte chiuse e tutte buie. I cipressi vigilavano la sua solitudine come severi custodi e il mare cantava dal fondo dell’erta una lenta elegìa monocorde.