La scienza nuova seconda/Libro quarto/Sezione decimaquarta/Capitolo secondo

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Sezione decimaquarta - Capitolo secondo - Corollario - II diritto romano antico fu un serioso poema

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Sezione decimaquarta - Capitolo secondo - Corollario - II diritto romano antico fu un serioso poema
Sezione decimaquarta - Capitolo primo Libro quinto

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[CAPITOLO SECONDO]

corollario

il diritto romano antico fu un serioso poema e l’antica giurisprudenza fu una severa poesia, dentro la quale si truovano i primi dirozzamenti della legal metafisica, e come a’ greci dalle leggi uscí la filosofia.

1027Vi sono altri ben molti e ben grandi effetti, particolarmente nella giurisprudenza romana, i quali non truovano le loro cagioni che ’n questi stessi principi. E sopra tutto per quella degnitá: — che, perocché sono gli uomini naturalmente portati al conseguimento del vero, per lo cui affetto, ove non possono conseguirlo, s’attengono al certo, — quindi le mancipazioni cominciarono con vera mano, per dire con «vera forza», perché «forza» è astratto, «mano» è sensibile. E la mano appo tutte le nazioni significò «potestá»; onde sono le «chirotesie» e le «chirotonie» che dicon i greci, delle quali quelle erano criazioni che si facevano con le imposizioni delle mani sopra il capo di colui ch’aveva da eleggersi in potestá, queste eran acclamazioni delle potestá giá criate fatte con alzare le mani in alto. Solennitá propie de’ tempi mutoli, conforme a’ tempi barbari ritornati cosí acclamavano all’elezioni de’ re. Tal mancipazion vera è l’occupazione, primo gran fonte naturale di tutti i domini, ch’a’ romani detta poi restò nelle guerre; ond’e gli schiavi furono detti «mancipio.», e le prede e le conquiste «res mancipi» de’ romani, divenute con le vittorie «res nec mancipi» ad essi vinti. Tanto la mancipazione nacque dentro le mura della sola cittá di Roma per modo d’acquistar il dominio civile ne’ commerzi privati d’essi romani!

1028A tal mancipazione andò di séguito una conforme vera usucapione, cioè acquisto di dominio (ché tanto suona «copio») [p. 120 modifica] con vero uso (in senso che la voce «usus» significa «possessio »). E le possessioni dapprima si celebrarono col continuo ingombramento de’ corpi sopra esse cose possedute, talché «possessio» dev’essere stata detta quasi «porro sessio» (per lo quale proseguito atto di sedere o star fermo i domicili latinamente restaron chiamati «sedes»), e non giá «pedum positio», come dicono i latini etimologi, perché il pretore assiste a quella e non a questa possessione e la mantiene con gl’interdetti. Dalla qual posizione, detta θέσις da’ greci, dovette chiamarsi Teseo, non dalla bella sua positura, come dicono gli etimologi greci, perché uomini d’Attica fondaron Atene con lo stare lungo tempo ivi fermi; ch’è l’usucapione, la qual legittima appo tutte le nazioni gli Stati.

1029Ancora, in quelle repubbliche eroiche d’Aristotile che non avevano leggi da ammendar i torti privati, vedemmo, sopra, le revindicazioni esercitarsi con vera forza (che furono i primi duelli o private guerre del mondo), e le condiczioni essere state le ripresaglie private, che dalla barbarie ricorsa duraron fin a’ tempi di Bartolo.

1030Imperciocché, essendosi incominciata ad addimesticare la ferocia de’ tempi e, con le leggi giudiziarie, incominciate a proibirsi le violenze private, tutte le private forze andandosi ad unire nella forza pubblica, che si dice «imperio civile», i primi popoli, per natura poeti, dovettero naturalmente imitare quelle forze vere, ch’avevan innanzi usate per conservarsi i loro diritti e ragioni. E cosí fecero una favola della mancipazion naturale, e ne fecero la solenne tradizion civile, la quale si rappresentava con la consegna d’un nodo finto, per imitare la catena con la qual Giove aveva incatenati i giganti alle prime terre vacue, e poi essi v’incatenarono i loro clienti ovvero famoli; e, con tal mancipazione favoleggiata, celebrarono tutte le loro civili utilitá con gli atti legittimi, che dovetter essere cerimonie solenni de’ popoli ancora mutoli. Poscia (essendosi la favella articolata formata appresso), per accertarsi l’uno della volontá dell’altro nel contrarre tra loro, vollero ch’i patti, nell’atto della consegna di esso nodo, si vestissero [p. 121 modifica] con parole solenni, delle quali fussero concepute stipulazioni certe e precise; e cosí dappoi in guerra concepivano le leggi con le quali si facevano le rese delle vinte cittá, le quali si dissero «paci» da «pacio», che lo stesso suona che «pactum». Di che restò un gran vestigio nella formola con la quale fu conceputa la resa di Collazia, che, qual è riferita da Livio, ella è un contratto recettizio fatto con solenni interrogazioni e risposte; onde con tutta propietá gli arresi ne furon detti «recepti», conforme l’araldo romano disse agli oratori collatini: — «Et ego recipio». — Tanto la stipulazione ne’ tempi eroici fu de’ soli cittadini romani! e tanto con buon senno si è finora creduto che Tarquinio Prisco, nella formola con cui fu resa Collazia, avesse ordinato alle nazioni com’avesser a fare le rese!

1031In cotal guisa il diritto delle genti eroiche del Lazio restò fisso nel famoso capo della legge delle XII Tavole cosí conceputo: «Si quis nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto», ch’è il gran fonte di tutto il diritto romano antico, ch’i pareggiatori del diritto attico confessano non esser venuto da Atene in Roma.

1032L’usucapione procedé con la possessione presa col corpo, e poi, finta, ritenersi con l’animo. Alla stessa fatta favoleggiarono con una pur finta forza le vendicazioni; e le ripresaglie eroiche passarono dappoi in azioni personali, serbata la solennitá di dinonziarla a coloro ch’erano debitori. Né potè usar altro consiglio la fanciullezza del mondo, poiché i fanciulli, come se n’è proposta una degnitá, vagliono potentemente nell’imitar il vero di che sono capaci, nella qual facultá consiste la poesia, ch’altro non è ch’imitazione.

1033Si portarono in piazza tante maschere quante son le persone, ché «persona» non altro propiamente vuol dire che «maschera », e quanti sono i nomi, i quali, ne’ tempi de’ parlari mutoli, che si facevan con parole reali, dovetter essere l’insegne delle famiglie, con le quali furono ritruovati distinguere le famiglie loro gli americani, come sopra si è detto; e sotto la persona o maschera d’un padre d’una famiglia si nascondevano tutti i figliuoli e tutti i servi di quella, sotto un nome reale [p. 122 modifica] ovvero insegna di casa si nascondevano tutti gli agnati e tutti i gentili della medesima. Onde vedemmo ed Aiace torre de’ greci, ed Orazio solo sostenere sul ponte tutta Toscana, ed a’ tempi barbari ritornati rincontrammo quaranta normanni eroi cacciare da Salerno un esercito intiero di saraceni; e quindi furono credute le stupende forze de’ paladini di Francia (che erano sovrani principi, come restarono cosí detti nella Germania) e, sopra tutti, del conte Rolando, poi detto Orlando. La cui ragione esce da’ principi della poesia che si sono sopra truovati: che gli autori del diritto romano, nell’etá che non potevano intendere universali intelligibili, ne fecero universali fantastici; e come poi i poeti, per arte, ne portarono i personaggi e le maschere nel teatro, cosí essi, per natura, innanzi avevano portato i «nomi» e le «persone» nel fòro.

1034Perché «persona» non dev’essere stata detta da «personare», che significa «risuonar dappertutto» — lo che non bisognava ne’ teatri assai piccioli delle prime cittá (quando, come dice Orazio, i popoli spettatori erano piccioli che si potevano numerare) che le maschere si usassero, perché ivi dentro talmente risuonasse la voce ch’empiesse un ampio teatro; né vi acconsente la quantitá della sillaba, la quale, da «sono», debb’esser brieve; — ma dev’esser venuto da «personari’», il qual verbo congetturiamo aver significato «vestir pelli di fiere» (lo che non era lecito ch’a’ soli eroi), e ci è rimasto il verbo compagno «opsonari», che dovette dapprima significare «cibarsi di carni salvaggine cacciate», che dovetter essere le prime mense opime, qual’appunto de’ suoi eroi le descrive Virgilio. Onde le prime spoglie opime dovetter essere tali pelli di fiere uccise, che riportarono dalle prime guerre gli eroi, le quali prime essi fecero con le fiere per difenderne sé e le loro famiglie, come sopra si è ragionato, e i poeti di tali pelli fanno vestire gli eroi e, sopra tutti, di quella del bone, Ercole. E da tal origine del verbo «personari», nel suo primiero significato che gli abbiamo restituito, congetturiamo che gl’italiani dicono «personaggi» gli uomini d’alto stato e di grande rappresentazione. [p. 123 modifica]

1035Per questi stessi principi, perché non intendevano forme astratte, ne immaginarono forme corporee, e l’immaginarono, dalla loro natura, animate. E fínsero l’ereditá signora delle robe ereditarie, ed in ogni particolar cosa ereditaria la ravvisavano tutta intiera: appunto come una gleba o zolla del podere, che presentavano al giudice, con la formola della revindicazione essi dicevano «hunc fundum». E cosí, se non intesero, sentirono rozzamente almeno ch’i diritti fussero indivisibili.

1036In conformitá di tali nature, l’antica giurisprudenza tutta fu poetica, la quale fingeva i fatti non fatti, i non fatti fatti, nati gli non nati ancora, morti i viventi, i morti vivere nelle loro giacenti ereditá; introdusse tante maschere vane senza subbietti, che si dissero «iura imaginaria», ragioni favoleggiate da fantasia; e riponeva tutta la sua riputazione in truovare sí fatte favole ch’alle leggi serbassero la gravitá ed ai fatti ministrassero la ragione. Talché tutte le finzioni dell’antica giurisprudenza furono veritá mascherate; e le formole con le quali parlavan le leggi, per le loro circoscritte misure di tante e tali parole — né piú, né meno, né altre, — si dissero «carmina», come sopra udimmo dirsi da Livio quella che dettava la pena contro di Orazio. Lo che vien confermato con un luogo d’oro di Plauto nell’Asinaria, dove Diabolo dice il parasito esser un gran poeta, perché sappia piú di tutti ritruovare cautele o formole, le quali or si è veduto che si dicevano «carmina».

1037Talché tutto il diritto romano antico fu un serioso poema, che si rappresentava da’ romani nel fòro, e l’antica giurisprudenza fu una severa poesia. Ch’è quello che, troppo acconciamente al nostro proposito, Giustiniano nel proemio dell’Istituta chiama «antiqui iuris fabulas»: il qual motto dev’essere stato d’alcun antico giureconsulto, ch’avesse inteso queste cose qui ragionate; ma egli l’usa per farne beffe. Ma da queste antiche favole richiama i suoi principi, come qui si dimostra, la romana giurisprudenza; e dalle maschere, le quali usarono tali favole dramatiche e vere e severe, che furon dette «personae», derivano nella dottrina De iure personarum le prime origini. [p. 124 modifica]

1038Ma, venuti i tempi umani delle repubbliche popolari, s’incominciò nelle grandi adunanze a ravvisar intelletto; e le ragioni astratte dell’intelletto ed universali si dissero indi in poi «consistere in intellectu iuris». Il qual intelletto è della volontá che ’l legislatore ha spiegato nella sua legge (la qual volontá si appella «ius»), che fu la volontá de’ cittadini uniformati in un’idea d’una comune ragionevole utilitá, la qual dovettero intendere essere spirituale di sua natura, perché tutti que’ diritti che non hanno corpi dov’essi si esercitino (i quali si chiamano «nudo iura», diritti nudi di corpolenza) dissero «in intellectu iuris consistere». Perché, adunque, son i diritti modi di sostanza spirituale, perciò son individui, e quindi son anco eterni, perché la corrozione non è altro che divisione di parti.

1039Gl’interpetri della romana ragione hanno riposta tutta la riputazione della legal metafisica in considerare l’indivisibilitá de’ diritti sopra la famosa materia De dividuis et individuis. Ma non ne considerarono l’altra non meno importante, ch’era l’eternitá, la qual dovevano pur avvertire in quelle due regole di ragione, che stabiliscono, la prima, che, «cessante fine legis, cessat lex»; ove non dicono «cessante ratione», perché il fine della legge è l’uguale utilitá delle cause, la qual può mancare; ma la ragione della legge è una conformazione della legge al fatto, vestito di tali circostanze, le quali, sempre che vestono il fatto, vi regna viva sopra la ragion della legge; — l’altra, che «tempus non est modus constituendí vel dissolvendi iuris» perché ’l tempo non può cominciare né finire l’eterno, e nell’usucapioni e prescrizioni il tempo non produce né finisce i diritti, ma è pruova che chi gli aveva abbia voluto spogliarsene; né, perché si dica «finire l’usufrutto», per cagion d’esempio, il diritto finisce, ma dalla servitú si riceve alla primiera sua libertá. Dallo che escono questi due importantissimi corollari: il primo, ch’essendo i diritti eterni nel di lor intelletto, o sia nella lor idea, e gli uomini essendo in tempo, non posson i diritti altronde venire agli uomini che da Dio; il secondo, che tutti gl’innumerabili vari diversi diritti, che sono stati, sono e saranno nel mondo, sono varie modificazioni diverse della potestá [p. 125 modifica] del primo uomo, che fu il principe del gener umano, e del dominio ch’egli ebbe sopra tutta la terra.

1040Or, poiché certamente furono prima le leggi, dopo i filosofi, egli è necessario che Socrate, dall’osservare ch’i cittadini ateniesi nel comandare le leggi si andavan ad unire in un’idea conforme d’un’ugual utilitá partitamente comune a tutti, cominciò ad abbozzare i generi intelligibili, ovvero gli universali astratti, con l’induzione, ch’è una raccolta di uniformi particolari, che vanno a comporre un genere di ciò nello che quei particolari sono uniformi tra loro.

1041Platone, dal riflettere che ’n tali ragunanze pubbliche le menti degli uomini particolari, che son appassionate ciascuna del propio utile, si conformavano in un’idea spassionata di comune utilitá (ch’è quello che dicono: «gli uomini partitamente sono portati da’ loro interessi privati, ma in comune voglion giustizia»), s’alzò a meditare l’idee intelligibili ottime delle menti criate, divise da esse menti criate, le qual’in altri non posson esser che in Dio, e s’innalzò a formare l’eroe filosofico, che comandi con piacere alle passioni.

1042Onde Aristotile poscia divinamente ci lasciò diffinita la buona legge: che sia una «volontá scevera di passioni», quanto è dire volontá d’eroe; intese la giustizia regina, la qual siede nell’animo dell’eroe e comanda a tutte l’altre virtú. Perché aveva osservato la giustizia legale (la qual siede nell’animo della civil potestá sovrana) comandar alla prudenza nel senato, alla fortezza negli eserciti, alla temperanza nelle feste, alla giustizia particolare, cosí distributiva negli erari, come per lo piú commutativa nel fòro, e la commutativa la proporzione aritmetica e la distributiva usare la geometrica. E dovette avvertire questa dal censo, ch’è la pianta delle repubbliche popolari, il quale distribuisce gli onori e i pesi con la proporzione geometrica, secondo i patrimoni de’ cittadini. Perché innanzi non si era inteso altro che la sola aritmetica; onde Astrea, la giustizia eroica, ci fu dipinta con la bilancia, e nella legge delle XII Tavole tutte le pene — le quali ora i filosofi, i morali teologi e dottori che scrivono de iure publico dicono [p. 126 modifica] doversi dispensare dalla giustizia distributiva con la proporzione geometrica — tutte si leggono richiamate a «duplio» quelle in danaio e [a] «talio» l’afflittive del corpo. E, poiché la pena del taglione fu ritruovata da Radamanto, per cotal merito egli ne fu fatto giudice nell’inferno, dove certamente si distribuiscono pene. E ’l taglione da Aristotile ne’ Libri morali fu detto «giusto pittagorico», ritrovato da quel Pittagora che si è qui truovato fondatore di nazione, i cui nobili della Magna Grecia si dissero pitagorici, come sopra abbiamo osservato: che sarebbe vergogna di Pittagora il quale poi divenne sublime filosofo e mattematico.

1043Dallo che tutto si conchiude che dalla piazza d’Atene uscirono tali principi di metafisica, di logica, di morale. E dall’avviso di Solone dato agli ateniesi: «Nosce te ipsum» (conforme ragionammo sopra in uno de’ corollari della Logica poetica) uscirono le repubbliche popolari, dalle repubbliche popolari le leggi, e dalle leggi uscí la filosofia; e Solone, da sappiente di sapienza volgare, fu creduto sappiente di sapienza riposta. Che sarebbe una particella della storia della filosofia narrata filosoficamente, ed ultima ripruova delle tante che ’n questi libri si son fatte contro Polibio, il qual diceva che, se vi fussero al mondo filosofi, non farebber uopo religioni. Che se non vi fussero state religioni, e quindi repubbliche, non sarebber affatto al mondo filosofi, e che se le cose umane non avesse cosí condotto la provvedenza divina, non si avrebbe niuna idea né di scienza né di virtú.

1044Ora, ritornando al proposito e [per] conchiudere l’argomento che ragioniamo, da questi tempi umani, ne’ quali provennero le repubbliche popolari e appresso le monarchie, intesero che le cause, le quali prima erano state formole cautelate di propie e precise parole (che a «cernendo» si dissero dapprima «cavissae », e poi restaron dette in accorcio «caussae»), fussero essi affari o negozi negli altri contratti (i qual’affari o negozi oggi solennizzano i patti, i quali nell’atto del contrarre son convenuti acciocché producano l’azioni); ed in quelli che sono valevoli titoli a trasferir il dominio, solennizzassero la natural [p. 127 modifica] tradizione per farlo d’un in altro passare, e ne’ contratti soli che si dicono compiersi con le parole (che sono le stipulazioni), in quelli esse cautele fussero le «cause» nella lor antica propietá. Le quali cose qui dette illustrano vieppiú i principi sopra posti dell’obbligazioni che nascono da’ contratti e da’ patti.

1045Insomma — non essendo altro l’uomo, propiamente, che mente, corpo e favella, e la favella essendo come posta in mezzo alla mente ed al corpo — il certo d’intorno al giusto cominciò ne’ tempi muti dal corpo; dipoi, ritruovate le favelle che si dicon articolate, passò alle certe idee, ovvero formole di parole; finalmente, essendosi spiegata tutta la nostra umana ragione, andò a terminare nel vero dell’idee d’intorno al giusto, determinate con la ragione dall’ultime circostanze de’ fatti. Ch’è una formola informe d’ogni forma particolare, che ’l dottissimo Varrone chiamava «formulam naturae», ch’a guisa di luce, di sé informa in tutte le ultime minutissime parti della lor superficie i corpi opachi de’ fatti sopra i quali ella è diffusa, siccome negli Elementi si è tutto ciò divisato.