La scienza nuova seconda/Libro secondo/Sezione ottava

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Libro secondo - Sezione ottava - Cosmografia poetica

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[SEZIONE OTTAVA]

[CAPITOLO UNICO]

della cosmografia poetica

710I poeti teologi, siccome posero per principi in fisica le sostanze da essi immaginate divine, cosí descrissero una a cotal fisica convenevole cosmografia, ponendo il mondo formato di dèi del cielo, dell’inferno (che da’ latini si dissero «dii superi» e «dii inferi») e di dèi che tra ’l cielo e la terra si frapponessero (che dovetter esser appo i latini dapprima i dèi detti «medioxumi»).

711Del mondo in primo luogo contemplarono il cielo, le cui cose dovetter esser a’ greci i primi μαθήματα, o sieno «sublimi cose», e i primi θεωρήματα, o sieno «divine cose da contemplarsi ». La contemplazione delle quali fu detta cosí da’ latini da quelle regioni del cielo che disegnavano gli áuguri per prender gli augúri (che dicevano «templa coeli», onde nell’Oriente venne il nome de’ zoroasti, che ’l Bocarto vuol detti quasi «contemplatori degli astri»), per indovinare dal tragitto delle stelle cadenti la notte.

712Fu a’ poeti il primo cielo non piú in suso delle alture delle montagne, ov’i giganti da’ primi fulmini di Giove furono dal loro ferino divagamento fermati; ch’è quel Cielo che regnò in terra e, quindi incominciando, fece de’ grandi benefici al gener umano, come si è sopra pienamente spiegato. Laonde dovetter estimar il cielo la cima d’esse montagne (dall’acutezza delle quali a’ latini venne «coelum» detto ancor il bolino, istrumento [p. 346 modifica] d’intagliar in pietre o metalli); appunto come i fanciulli immaginano ch’i monti sieno le colonne che sostengono il solaio del cielo (siccome gli arabi tali principi di cosmografia diedero all’Alcorano). Delle quali colonne, due restarono «d’Ercole», come piú giuso vedremo; che dovettero dapprima dirsi i puntelli o sostegni, da «columen», e che poi l’abbia ritondati l’architettura. Sopra un cui solaio sí fatto Teti dice ad Achille, appo Omero, che Giove con gli altri dèi era ito da Olimpo a banchettare in Atlante. Tanto che, come sopra dicemmo, ove si ragionò de’ giganti, la favola della guerra ch’essi fanno al cielo, e impongono gli altissimi monti, a Pelio Ossa, ad Ossa Olimpo, per salirvi e scacciarne gli dèi, dev’essere stata ritruovata dopo d’Omero; perché nell’Iliade certamente egli sempre narra gli dèi starsi sulla cima del monte Olimpo, onde bastava che crollasse l’Olimpo solo, per farne cadere gli dèi. Né tal favola, quantunque sia riferita nell’Odissea, ella ben vi conviene. Perché in quel poema l’inferno non è piú profondo d’un fosso, dove Ulisse vede e ragiona con gli eroi trappassati; laonde quanto corta idea aveva l’Omero dell’Odissea dell’inferno è necessario ch’a proporzione altrettanta ne avesse avuto del cielo, in conformitá di quanta ne aveva avuto l’Omero autor dell’Iliade. E, ’n conseguenza, si è dimostro che tal favola non è d’Omero, come promettemmo sopra di dimostrare.

713In questo cielo dapprima regnarono in terra gli dèi e praticarono con gli eroi, secondo l’ordine della teogonia naturale che sopra si è ragionata, incominciando da Giove. In questo cielo rendette in terra ragione Astrea, coronata di spighe e fornita altresí di bilancia; perché il primo giusto umano fu ministrato dagli eroi agli uomini con la prima legge agraria ch’abbiamo sopra veduto. Perocché gli uomini sentirono prima il peso, poi la misura, assai tardi il numero, nel quale finalmente si fermò la ragione; tanto che Pittagora, non intendendo cosa piú astratta da’ corpi, pose l’essenza dell’anima umana ne’ numeri. Per questo cielo van correndo a cavallo gli eroi, come Bellerofonte sul Pegaso, e ne restò a’ latini «volitare equo», «andar correndo a cavallo». In questo cielo Giunone imbianca [p. 347 modifica] la via lattea del latte, non suo, perché fu sterile, ma delle madri di famiglia, che lattavano i parti legittimi per quelle nozze eroiche delle quali era nume Giunone. Su per questo cielo gli dèi sono portati sui carri d’oro poetico (di frumento), onde fu detta l’etá dell’oro. In questo cielo s’usarono l’ali, non giá per volare o significare speditezza d’ingegno — onde son alati Imeneo (ch’è lo stesso ch’Amor eroico), Astrea, le muse, il Pegaso, Saturno, la Fama, Mercurio (come nelle tempie cosí ne’ talloni, e alato il di lui caduceo, con cui da questo cielo porta la prima legge agraria a’ plebei, ch’ammutinati erano nelle valli, come si è sopra detto); alato il dragone (perché la Gorgone è pur nelle tempie alata, né significa ingegno né vola); — ma l’ali si usarono per significare diritti eroici, che tutti erano fondati nella ragion degli auspíci, come pienamente sopra si è dimostrato. In questo cielo ruba Prometeo il fuoco dal sole, che dovettero gli eroi fare con le pietre focaie ed attaccarlo agli spinai secchi per sopra i monti dagli accesi soli d’está, onde la fiaccola d’Imeneo ci viene fedelmente narrata essere stata fatta di spine. Da questo cielo è Vulcano precipitato con un calcio da Giove; da questo cielo precipita, col carro del Sole, Fetonte; da questo cielo cade il pomo della Discordia: le quali favole si sono tutte sopra spiegate. E da questo cielo finalmente dovettero cadere gli ancili, o scudi sagrati, a’ romani.

714Delle deitadi infernali in primo luogo i poeti teologi fantasticarono quella dell’acqua; e la prima acqua fu quella delle fontane perenni, che chiamarono «Stige», per cui giuravano i dèi, come si è sopra detto: onde forse Platone poi oppinò che nel centro della terra fusse l’abisso dell’acque. Ma Omero, nella contesa degli dèi, fa temere Plutone che Nettunno co’ tremuoti non iscuopra l’inferno agli uomini ed agli dèi, con aprir loro la terra. Ma, posto l’abisso nelle piú profonde viscere della terra, e che egli facesse i tremuoti, avverrebbe tutto il contrario: che l’inferno sarebbe sommerso e tutto ricoverto dall’acque. Lo che sopra avevamo promesso di dimostrare: che tal allegoria di Platone mal conveniva a tal favola. Per ciò che si è detto, il primo inferno non dovett’essere piú profondo [p. 348 modifica] della sorgiva delle fontane; e la prima deitade funne creduta Diana, di cui pur ci racconta la storia poetica essere stata detta triforme, perché fu Diana in cielo, Cintia cacciatrice, col suo fratello Apollo, in terra, e Proserpina nell’inferno.

715Si stese l’idea dell’inferno con le seppolture; ond’i poeti chiamano «inferno» il sepolcro (la qual espressione è anco usata ne’ libri santi). Talché l’inferno non fu piú profondo d’un fosso, dove Ulisse, appo Omero, vede l’inferno e quivi l’anime degli eroi trappassati: perché in tal inferno furon immaginati gli Elisi, ove, con le seppolture, godono eterna pace l’anime de’ difonti; e gli Elisi sono la stanza beata degli dèi mani o sia dell’anime buone de’ morti.

716Appresso, l’inferno pur fu di bassa profonditá quanto è l’altezza d’un solco, ove Cerere, ch’è la stessa che Proserpina (il seme del frumento), è rapita dal dio Plutone, e vi sta dentro sei mesi, e poi ritorna a veder la luce del cielo; onde appresso si spiegherá il ramo d’oro con cui Enea scende all’inferno, che Virgilio finse continuando la metafora eroica delle poma d’oro, che noi sopra abbiam truovato esser le spighe del grano.

717Finalmente l’inferno fu preso per le pianure e le valli (opposte all’altezza del cielo, posto ne’ monti), ove restarono i dispersi nell’infame comunione. Onde di tal inferno è lo dio Erebo, detto figliuolo del Cao, cioè della confusione de’ semi umani, ed è padre della notte civile (della notte de’ nomi); siccome il cielo è allumato di civil luce, onde gli eroi sono incliti. Vi scorre il fiume Lete, il fiume, cioè, dell’obblio, perché tali uomini non lasciavano niun nome di sé nelle loro posteritá; siccome la gloria in cielo eterna i nomi de’ chiari eroi. Quindi Mercurio, come si è detto di sopra nel di lui carattere, con la sua verga, in cui porta la legge agraria, richiama l’anime dall’Orco, il quale tutto divora; ch’è la storia civile conservataci da Virgilio in quel motto:

hac ille animas evocat Orco:

chiama le vite degli uomini eslegi e bestiali dallo stato ferino, il quale si divora il tutto degli uomini, perché non lasciano [p. 349 modifica] essi nulla di sé nella loro posteritá. Onde poi la verga fu adoperata da’ maghi, sulla vana credenza che con quella si risuscitassero i morti; e ’l pretore romano con la bacchetta batteva sulla spalla gli schiavi e gli faceva divenir liberi, quasi con quella gli faceva ritornar da morte in vita. Se non pure i maghi stregoni usano la verga nelle loro stregonerie, ch’i maghi sappienti di Persia avevan usato per la divinazion degli auspici. Onde alla verga fu attribuita la divinitá, e fu dalle nazioni tenuta per dio e che facesse miracoli, come Trogo Pompeo ce n’accerta appresso il suo breviatore Giustino.

718Quest’inferno è guardato da Cerbero, dalla sfacciatezza canina d’usar la venere senza vergogna d’altrui. È Cerbero trifauce, cioè d’una sformata gola, col superlativo del «tre» ch’abbiamo piú volte sopra osservato, perché, come l’Orco, tutto divora; e, uscito sopra la terra, il sole ritorna indietro (e, salito sulle cittá eroiche, la luce civil degli eroi ritorna alla notte civile).

719Nel fondo di tal inferno scorre il fiume Tartaro, dove si tormentano i dannati: Issione a girar la ruota, Sisifo a voltar il sasso, Tantalo a morirsi e di fame e di sete, come si sono sopra queste favole tutte spiegate; e ’l fiume dove brucian di sete è lo stesso fiume «senza contento», ché tanto Acheronte e Flegetonte significano. In quest’inferno poi, per ignorazione di cose, furono gittati da’ mitologi e Tizio e Prometeo; ma costoro furon in cielo incatenati alle rupi, a’ quali divora le viscere l’aquila che vola ne’ monti (la tormentosa superstizion degli auspici, ch’abbiamo sopra spiegati).

720Le quali favole tutte poscia i filosofi ritruovaron acconcissime a meditarvi e spiegare le loro cose morali e metafisiche; e se ne destò Platone ad intendere le tre pene divine, che solamente dánno gli dèi e non possono dare gli uomini: la pena dell’obblio, dell’infamia e i rimorsi co’ quali ci tormenta la rea coscienza; e che, per la via purgativa delle passioni dell’animo, le quali tormentano gli uomini (ch’esso intende per l’inferno de’ poeti teologi), si entra nella via unitiva, per dove va ad unirsi la mente umana con Dio per mezzo della [p. 350 modifica] contemplazione dell’eterne divine cose (la l’qual egli interpetra aver inteso i poeti teologi coi lor Elisi).

721Ma, con idee tutte diverse da queste morali e metafisiche (perocché i poeti teologi l’avevano detto con idee politiche, com’era loro necessario naturalmente di fare, siccome quelli che fondavano nazioni), scescero nell’inferno tutti i gentili fondatori de’ popoli. Scesevi Orfeo, che fondò la nazion greca; e, vietato, nel salirne, di voltarsi indietro, voltandosi, perde la sua moglie Euridice (ritorna all’infame comunion delle donne). Scesevi Ercole (ch’ogni nazione ne racconta uno da cui fusse stata fondata), e scesevi per liberar Teseo, che fondò Atene, il quale vi era sceso per rimenarne Proserpina, ch’abbiamo detto essere la stessa che Cerere (per riportarne il seminato frumento in biade). Ma, piú spiegatamente di tutti, appresso, Virgilio (il quale nei primi sei libri dell’Eneide canta l’eroe politico, negli altri restanti sei canta l’eroe delle guerre), con quella sua profonda scienza dell’eroiche antichitá, narra ch’Enea, con gli avvisi e con la condotta della Sibilla cumana, delle quali dicemmo ch’ogni nazione gentile n’ebbe una, e ce ne sono giunte nominate pur dodici (talché vuol dire con la divinazione, che fu la sapienza volgare della gentilitá), con sanguinosa religione pio (di quella pietá che professarono gli antichissimi eroi nella fierezza ed immanitá della loro fresca origine bestiale che sopra si è dimostrata), sagrifica il socio Miseno (come pure abbiam sopra detto, per lo diritto crudele che gli eroi ebbero sopra i lor primi soci ch’abbiamo ancor ragionato), si porta nell’antica selva (qual era la terra dappertutto incolta e boscosa), gitta il boccone sonnifero a Cerbero e l’addormenta (ch’Orfeo aveva addormentato col suono della sua lira, che sopra a tante pruove abbiamo truovato esser la legge; ed Ercole incatenò col nodo con cui avvinse Anteo nella Grecia, cioè con la prima legge agraria, in conformitá di ciò che se n’è sopra detto); per la cui insaziabil fame Cerbero fu finto trifauce — d’una vastissima gola — col superlativo del tre, come si è sopra spiegato. Cosi Enea scende nell’inferno (che truovammo dapprima non piú profondo dell’altezza de’ solchi), e a Dite (dio delle [p. 351 modifica] ricchezze eroiche, dell’oro poetico, del frumento; il quale Dite lo stesso fu che Plutone, che rapí Proserpina, che fu la stessa che Cerere, la dea delle biade) presenta il ramo d’oro (ove il gran poeta la metafora delle poma d’oro, che sopra truovammo essere le spighe del grano, porta piú innanzi al ramo d’oro, alla messe). Ad un tal ramo svelto succede l’altro (perché non proviene la seconda raccolta senonsé l’anno dopo essersi fatta la prima); ch’ove gli dèi si compiacciono, volontieri e facile siegue la mano di chi l’afferra, altrimente non si può svellere con niuna forza del mondo (perché le biade, ove Dio voglia, naturalmente provengono; ove non voglia, con niuna umana industria si posson raccogliere). Quindi, per mezzo dell’inferno, si porta ne’ Campi Elisi (perché gli eroi, con lo star fermi ne’ campi colti, morti poi godevano, con le seppolture, la pace eterna, com’abbiamo sopra spiegato), e quivi egli vede i suoi antenati e vegnenti (perché con la religione delle seppolture, ch’i poeti dissero «inferno», come sopra si è pur veduto, si fondarono le prime geanologie, dalle quali pur sopra si è detto aver incominciato la storia).

722La terra da’ poeti teologi fu sentita con la guardia de’ confini, ond’ella ebbe si fatto nome di «terra». La qual origin eroica serbaron i latini nella voce «territorium», che significa «distretto», da ivi dentro esercitare l’imperio; che, con errore, i latini gramatici credono esser detto a «terrendo» de’ littori, che col terrore de’ fasci facevano sgombrare la folla, per far largo a’ maestrati romani. Ma, in que’ tempi che nacque la voce «territorium», non vi era troppa folla in Roma, ché, in dugencinquant’anni di regno, ella manomise piú di venti popoli e non distese piú di venti miglia l’imperio, come sopra l’udimmo dir da Varrone. Però l’origine di tal voce è perché tali confini di campi colti, dentro i quali poi sursero gl’imperi civili, erano guardati da Vesta con sanguinose religioni, come si è sopra veduto, ove truovammo tal Vesta de’ latini esser la stessa che Cibele o Berecintia de’ greci, che va coronata di torri, o sia di terre forti di sito. Dalla qual corona cominciò a formarsi quello che si dice «orbis terrarum», cioè «mondo [p. 352 modifica] delle nazioni», che poi da’ - cosmografi fu ampliato e detto «orbis mundanus» e, in una parola, «mundus», ch’è ’l mondo della natura.

723Cotal mondo poetico fu diviso in tre regni, ovvero in tre regioni: una di Giove in cielo; l’altra di Saturno in terra; la terza di Plutone nell’inferno, detto Dite, dio delle ricchezze eroiche, del primo oro, del frumento, perché i campi colti fanno le vere ricchezze de’ popoli.

724Cosí formossi il mondo de’ poeti teologi di quattro elementi civili, che poi furono da’ fisici appresi per naturali, come poco piú sopra si è detto: cioè di Giove ovvero l’aria, di Vulcano o sia il fuoco, di Cibele ovvero la terra e di Diana infernale o sia l’acqua. Perché Nettunno tardi da’ poeti fu conosciuto, perché, come si è sopra detto, le nazioni tardi scesero alle marine. E fu detto Oceano ogni mare di prospetto interminato che cingesse una terra, che si dice «isola», come Omero dice l’isola Eolia circondata dall’Oceano. Dal qual Oceano dovettero venire ingravidate da Zefiro, vento occidentale di Grecia, come quindi a poco dimostreremo, le giumente di Reso, e, nei lidi del medesimo Oceano, pur da Zefiro nati i cavalli d’Achille. Doppo, i geografi osservarono tutta la terra, com’una grand’isola, esser cinta dal mare, e chiamarono tutto il mare che cinge la terra «oceano».

725Quivi finalmente, con l’idea con la quale ogni brieve proclive era detto «mundus» (onde sono quelle frasi: «in mundo est», «in proclivi est», per dir «egli è facile», ed appresso tutto ciò che monda, pulisce e raffazzona una donna si disse «mundus muliebris»), poi che s’intese la terra e ’l cielo essere di figura orbicolare, ch’in ogni parte della circonferenza verso ogni parte è proclive, e che l’oceano d’ogn’intorno la bagna, e che ’l tutto è adorno d’innumerabili, varie, diverse forme sensibili, quest’universo fu detto «mundus», del quale, con bellissimo sublime trasporto, la natura s’adorna.