La scienza nuova seconda/Libro secondo/Sezione terza

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Libro secondo - Sezione terza - Morale poetica

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[SEZIONE TERZA]

[MORALE POETICA]

[CAPITOLO UNICO]

della morale poetica, e qui dell’origine delle volgari
virtú insegnate dalla religione co’ matrimoni

502Siccome la metafisica de’ filosofi per mezzo dell’idea di Dio fa il primo suo lavoro, ch’è di chiarire la mente umana, ch’abbisogna alla logica perché con chiarezza e distinzione d’idee formi i suoi raziocini, con l’uso de’ quali ella scende a purgare il cuore dell’uomo con la morale; cosí la metafisica de’ poeti giganti, ch’avevano fatto guerra al cielo con l’ateismo, gli vinse col terrore di Giove, ch’appresero fulminante. E non meno che i corpi, egli atterrò le di loro menti, con fingersi tal idea sí spaventosa di Giove, la quale — se non co’ raziocini, de’ quali non erano ancor capaci; co’ sensi, quantunque falsi nella materia, veri però nella loro forma (che fu la logica conforme a sí fatte loro nature) — loro germogliò la morale poetica con fargli pii. Dalla qual natura di cose umane usci quest’eterna propietá: che le menti, per far buon uso della cognizione di Dio, bisogna ch’atterrino se medesime, siccome al contrario la superbia delle menti le porta nell’ateismo, per cui gli atei divengono giganti di spirito, che deono con Orazio dire:

Caelum ipsum petimus stultitia.

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503Sí fatti giganti pii certamente Platone riconosce nel Polifemo d’Omero. E noi l’avvaloriamo da ciò ch’esso Omero narra dello stesso gigante, ove gli fa dire ch’un augure, ch’era stato un tempo tra loro, gli aveva predetto la disgrazia ch’egli poi sofferse da Ulisse; perché gli áuguri non possono vivere certamente tra gli atei. Quivi la morale poetica incominciò dalla pietá, perch’era dalla provvedenza ordinata a fondare le nazioni, appo le quali tutte la pietá volgarmente è la madre di tutte le morali, iconomiche e civili virtú; e la religione unicamente è efficace a farci virtuosamente operare, perché la filosofia è piú tosto buona per ragionarne. E la pietá incominciò dalla religione, che propiamente è timore della divinitá. L’origine eroica della qual voce si conservò appo i latini per coloro che la voglion detta a «religando», cioè da quelle catene con le quali Tizio e Prometeo eran incatenati sull’alte rupi, a’ quali l’aquila, o sia la spaventosa religione degli auspici di Giove, divorava il cuore e le viscere. E ne restò eterna propietá appo tutte le nazioni: che la pietá s’insinua a’ fanciulli col timore d’una qualche divinitá.

504Cominciò, qual dee, la moral virtú dal conato, col qual i giganti dalla spaventosa religione de’ fulmini furon incatenati per sotto i monti, e tennero in freno il vezzo bestiale d’andar errando da fiere per la gran selva della terra, e s’avvezzarono ad un costume, tutto contrario, di star in que’ fondi nascosti e fermi; onde poscia ne divennero gli autori delle nazioni e i signori delle prime repubbliche, come abbiamo accennato sopra e spiegheremo piú a lungo appresso. Ch’è uno de’ gran benefici che la volgar tradizione ci conservò d’aver fatto il Cielo al gener umano, quando egli regnò in terra con la religion degli auspíci; onde a Giove fu dato il titolo di «statore» ovvero di «fermatore», come sopra si è detto. Col conato altresi incominciò in essi a spuntare la virtú dell’animo, contenendo la loro libidine bestiale di esercitarla in faccia al cielo, di cui avevano uno spavento grandissimo. E ciascuno di essi si diede a strascinare per sé una donna dentro le loro grotte e tenerlavi dentro in perpetua compagnia di lor vita: e si usarono con [p. 219 modifica] esse la venere umana al coverto, nascostamente, cioè a dire con pudicizia; e si incominciarono a sentir pudore, che Socrate diceva esser il «colore della virtú». Il quale, dopo quello della religione, è l’altro vincolo che conserva unite le nazioni, siccome l’audacia e l’empietá son quelle che le rovinano.

505In cotal guisa s’introdussero i matrimoni, che sono carnali congiugnimenti pudichi fatti col timore di qualche divinitá, che furono da noi posti per secondo principio di questa Scienza, e provennero da quello, che noi ne ponemmo per primo, della provvedenza divina. E uscirono con tre solennitá.

506La prima delle quali furono gli auspici di Giove, presi da que’ fulmini onde i giganti indutti furono a celebrargli. Dalla qual sorte appo i romani restò il matrimonio diffinito «omnis vitae consortium», e ne furono il marito e la moglie detti «consortes», e tuttavia da noi le donzelle volgarmente si dicono «prender sorte» per «maritarsi». Da tal determinata guisa e da tal primo tempo del mondo restò quel diritto delle genti: che le mogli passino nella religion pubblica de’ lor mariti, perocché i mariti incominciarono a comunicare le loro prime umane idee con le loro donne dall’idea d’una loro divinitá, che gli sforzò a strascinarle dentro le loro grotte; e sí questa volgar metafisica incominciò anch’ella in Dio a conoscer la mente umana. E da questo primo punto di tutte le umane cose dovettero gli uomini gentili incominciar a lodare gli dèi, nel senso, con cui parlò il diritto romano antico, di «citare» e «nominatamente chiamare»; donde restò «laudare auctores», perché citassero in autori gli dèi di tutto ciò che facevan essi uomini: che dovetter esser le lodi ch’apparteneva agli uomini dar agli dèi.

507Da questa antichissima origine de’ matrimoni è nato che le donne entrino nelle famiglie e case degli uomini co’ quali son maritate; il qual costume natural delle genti si conservò da’ romani, appo i quali le mogli erano a luogo di figliuole de’ lor mariti e sorelle de’ lor figliuoli. E quindi ancora i matrimoni dovettero incominciare non solo con una sola donna, come fu serbato da’ romani (e Tacito ammira tal costume ne’ [p. 220 modifica] germani antichi, che serbavano, come i romani, intiere le prime origini delle loro nazioni, e ne danno luogo di congetturare lo stesso di tutte l’altre ne’ lor principi), ma anco in perpetua compagnia di lor vita, come restò in costume a moltissimi popoli; onde appo i romani furono diffinite le nozze, per questa propietá, «individuae vitae consuetudo», e appo gli stessi assai tardi s’introdusse il divorzio.

508Di sí fatti auspici de’ fulmini osservati di Giove, la storia favolosa greca narra Ercole (carattere di fondatori di nazioni, come sopra vedemmo e piú appresso ne osserveremo), nato da Alcmena ad un tuono di Giove; altro grande eroe di Grecia Bacco, nato da Semele fulminata. Perché questo fu il primo motivo onde gli eroi si disser esser figliuoli di Giove; lo che con veritá di sensi dicevano, sull’oppenione, della quale vivevano persuasi, che facessero ogni cosa gli dèi, come sopra si è ragionato. E questo è quello che nella storia romana si legge: che, nelle contese eroiche, a’ patrizi, i quali dicevano «auspicia esse sua», la plebe rispondeva che i padri de’quali Romolo aveva composto il senato, da’ quali essi patrizi traevan l’origine, «non esse caelo demissos»; che se non significa che quelli non eran eroi, cotal risposta non s’intende come possavi convenire. Quindi, per significare che i connubi o sia la ragione di contrarre nozze solenni, delle quali la maggior solennitá erano gli auspici di Giove, ella era propia degli eroi, fecero Amor nobile alato e con benda agli occhi, per significarne la pudicizia (il quale si disse Ἔρως);, col nome simile di essi eroi), ed alato Imeneo, figliuolo di Urania, detta, da οὐρανός, «caelum», «contemplatrice del cielo», affine di prender da quello gli auspici; che dovette nascere la prima dell’altre muse, diffinita da Omero, come sopra osservammo, «scienza del bene e del male», ed anch’essa, come l’altre, descritta alata perché propia degli eroi, come si è sopra spiegato. D’intorno alla quale pur sopra spiegammo il senso istorico di quel motto:

A Iove principium musae:

[p. 221 modifica] ond’ella come tutte l’altre furon credute figliuole di Giove (perché dalla religione nacquero l’arti dell’umanitá, delle quali è nume Apollo, che principalmente fu creduto dio della divinitá), e cantano con quel «canere» o «cantare» che significa «predire» a’ latini.

509La seconda solennitá è che le donne si velino, in segno di quella vergogna che fece i primi matrimoni nel mondo. Il qual costume è stato conservato da tutte le nazioni; e i latini ne diedero il nome alle medesime nozze, che sono dette «nuptiae» a «nubendo», che significa «cuoprire»; e da’tempi barbari ritornati «vergini in capillo» si dissero le donzelle, a differenza delle donne, ch’ivan velate.

510La terza solennitá fu (la qual si serbò da’ romani) di prendersi le spose con una certa finta forza, dalla forza vera con la quale i giganti strascinarono le prime donne dentro le loro grotte. E dopo le prime terre occupate da’ giganti con ingombrarle coi corpi, le mogli solenni si dissero «manucaptae».

511I poeti teologi fecero de’ matrimoni solenni il secondo de’ divini caratteri dopo quello di Giove: Giunone, seconda divinitá delle genti dette «maggiori». La qual è di Giove sorella e moglie, perché i primi matrimoni giusti ovvero solenni (che dalla solennitá degli auspici di Giove furono detti «giusti»), da fratelli e sorelle dovetter incominciare; — regina degli uomini e degli dèi, perché i regni poi nacquero da essi matrimoni legittimi; — tutta vestita, come s’osserva nelle statue, nelle medaglie, per significazion della pudicizia.

512Onde Venere eroica, in quanto nume anch’essa de’ matrimoni solenni, detta «pronuba», si cuopre le vergogne col cesto; il quale, dopo, i poeti effemminati ricamarono di tutti gl’incentivi della libidine. Ma poi, corrotta la severa istoria degli auspici, come Giove con le donne, cosí Venere fu creduta giacer con gli uomini, e di Anchise aver fatto Enea, che fu generato con gli auspici di questa Venere. Ed a questa Venere sono attribuiti i cigni, comuni a lei con Apollo, che cantano di quel «canere» o «cantare» che significa «divinari» o «predire»; in forma d’uno de’ quali Giove giace con Leda, [p. 222 modifica] per dire che Leda con tali auspici di Giove concepisce dalle uova Castore, Polluce ed Elena.

513Ella è Giunone detta «giogaie» da quel giogo ond’il matrimonio solenne fu detto «coniugium», e «coniuges» il marito e la moglie; — detta anco Lucina, che porta i parti alla luce, non giá naturale, la qual è comune anco agli parti schiavi, ma civile, ond’i nobili son detti «illustri»; — è gelosa d’una gelosia politica, con la qual i romani fin al trecento e nove di Roma tennero i connubi chiusi alla plebe. Ma da’ greci fu detta Ἤρα, dalla quale debbono essere stati detti essi eroi, perché nascevano da nozze solenni, delle quali era nume Giunone, e perciò generati con Amor nobile (ché tanto Ἔρως significa), che fu lo stesso ch’Imeneo. E gli eroi si dovettero dire in sentimento di «signori delle famiglie», a differenza de’ famoli, i quali, come vedremo appresso, vi erano come schiavi; siccome in tal sentimento «heri» si dissero da’ latini, e indi «hereditas» detta l’ereditá, la quale con voce natia latina era stata detta «familia». Talché, da questa origine, «hereditas» dovette significare una «dispotica signoria», come da essa legge delle XII Tavole a’ padri di famiglia fu conservata una sovrana potestá di disponerne in testamento, nel capo «Uti paterfamilias super pecuniae tutelaeve rei suae legassit, ita ius esto». Il disponerne fu detto generalmente «legare», ch’è propio de’ sovrani; onde l’erede vien ad esser un legato, il quale nell’ereditá rappresenta il padre di famiglia difonto, e i figliuoli, non meno che gli schiavi, furono compresi ne’ motti «rei suae» e «pecuniae». Lo che tutto troppo gravemente n’appruova la monarchica potestá ch’avevano avuto i padri nello stato di natura sopra le loro famiglie, la qual poi essi si dovettero conservare (come vedremo appresso che si conservarono di fatto) in quello dell’eroiche cittá; le quali ne dovettero nascere aristocratiche, cioè repubbliche di signori, perché la ritennero anco dentro le repubbliche popolari. Le quali cose tutte appresso saranno pienamente da noi ragionate.

514La dea Giunone comanda delle grandi fatighe ad Ercole detto tebano, che fu l’Ercole greco (perché ogni nazione [p. 223 modifica] gentile antica n’ebbe uno che la fondò, come si è nelle Degnitá sopradetto), perché la pietá co’ matrimoni è la scuola dove s’imparano i primi rudimenti di tutte le grandi virtú; ed Ercole col favore di Giove, con gli cui auspici era stato generato, tutte le supera; e ne fu detto Ἠραλῆς, quasi ’Ἠρας κλέος, «gloria di Giunone», estimata la gloria, con giusta idea, qual Cicerone la diffinisce, «fama divolgata di meriti inverso il gener umano», quanta debbe essere stata avere gli Ercoli con le loro fatighe fondato le nazioni. Ma — oscuratesi col tempo queste severe significazioni, e con l’effemminarsi i costumi, e presa la sterilitá di Giunone per naturale, e le gelosie come di Giove adultero, ed Ercole per bastardo figliuolo di Giove — con nome tutto contrario alle cose, Ercole tutte le fatighe, col favore di Giove, a dispetto di Giunon superando, fu fatto di Giunone tutto l’obbrobrio, e Giunone funne tenuta mortal nimica della virtú. E quel geroglifico o favola di Giunone appiccata in aria con una fune al collo, con le mani pur con una fune legate, e con due pesanti sassi attaccati a’ piedi, che significavano tutta la santitá de’ matrimoni (in aria, per gli auspici ch’abbisognavano alle nozze solenni, onde a Giunone fu data ministra l’Iride ed assegnato il pavone, che con la coda l’Iride rassomiglia; — con la fune al collo, per significare la forza fatta da’ giganti alle prime donne; — con la fune legate le mani, la quale poi appo tutte le nazioni s’ingentili con l’anello, per dimostrare la suggezione delle mogli a’ mariti; — co’ pesanti sassi a’ piedi, per dinotare la stabilitá delle nozze, onde Virgilio chiama «coníugium stabile» il matrimonio solenne), essendo poi stato preso per crudele castigo di Giove adultero, con sí fatti sensi indegni che le diedero i tempi appresso de’ corrotti costumi, ha finor tanto travagliato i mitologi.

515Per queste cagioni appunto Platone, qual Maneto fece de’ geroglifici egizi, egli aveva fatto delle favole greche, osservandone da una parte la sconcezza di dèi con si fatti costumi, e dall’altra parte l’acconcezza con le sue idee. E nella favola di Giove intruse l’idea del suo etere, che scorre e penetra tutto, per quel

... Iovis omnia piena,

[p. 224 modifica] come pur sopra abbiam detto: ma il Giove de’ poeti teologi non fu piú alto de’ monti e della regione dell’aria dove s’ingenerano i fulmini. In quella di Giunone intruse l’idea dell’aria spirabile: ma Giunone di Giove non genera, e l’etere con l’aria produce tutto. (Tanto con tal motto i poeti teologi intesero quella veritá in fisica, ch’insegna l’universo empiersi d’etere; e quell’altra in metafisica, che dimostra l’ubiquitá ch’i teologi naturali dicon di Dio!). Sull’eroismo poetico innalzò il suo filosofico: che l’eroe fusse sopra all’uomo, nonché alla bestia (la bestia è schiava delle passioni; l’uomo, posto in mezzo, combatte con le passioni; l’eroe con piacere comanda alle passioni), e sí esser l’eroica mezza tralla divina natura ed umana. E truovò acconcio l’Amor nobile de’ poeti (che fu detto Ἔρως dalla stessa origine ond’è detto ἥρως l’eroe), finto alato e bendato, e l’Amor plebeo, senza benda e senz’ali, per ispiegar i due amori, divino e bestiale: quello bendato alle cose de’ sensi, questo alle cose de’ sensi intento; quello con l’ali s’innalza alla contemplazione delle cose intelligibili, questo senz’ali nelle sensibili si rovescia. E di Ganimede, per un’aquila rapito in cielo da Giove, ch’a’ poeti severi volle dire il contemplatore degli auspici di Giove, fatto poi da’ tempi corrotti nefanda delizia di Giove, con bell’acconcezza egli fece il contemplativo di metafisica, il quale con la contemplazione dell’ente sommo, per la via ch’egli appella «unitiva», siesi unito con Giove.

516In cotal guisa la pietá e la religione fecero i primi uomini naturalmente prudenti, che si consigliavano con gli auspici di Giove: — giusti, della prima giustizia verso di Giove, che, come abbiam veduto, diede il nome al «giusto», e inverso gli uomini, non impacciandosi niuno delle cose d’altrui, come de’ giganti, divisi per le spelonche della Sicilia, narra Polifemo ad Ulisse (la qual, giustizia in comparsa, era, in fatti, selvatichezza); — di piú, temperati, contenti d’una sola donna per tutta la loro vita. E, come vedremo appresso, gli fecero forti, industriosi e magnanimi, che furono le virtú dell’etá dell’oro: non giá quale la si finsero, dopo, i poeti [p. 225 modifica] effemminati, nella quale licesse ciò che piacesse; perché, in quella ide’ poeti teologi, agli uomini, storditi ad ogni gusto di nauseante riflessione (come tuttavia osserviamo i costumi contadineschi), non piaceva se non ciò ch’era lecito, né piaceva se non ciò che giovava (la qual origine eroica han serbato i latini in quell’espressione con cui dicono «iuvat» per dir «è bello»); — nè come la si finsero i filosofi, che gli uomini leggessero in petto di Giove le leggi eterne del giusto; perché dapprima leggerono nel cospetto del cielo le leggi lor dettate da’ fulmini. E in conchiusione le virtú di tal prima etá furono come quelle che tanto sopra, nell’Annotazioni alla Tavola cronologica, udimmo lodar degli sciti, i quali ficcavano un coltello in terra e l’adoravan per dio (con che poi giustificavano gli ammazzamenti): cioè virtú per sensi, mescolate di religione ed immanitá; i quali costumi come tra loro si comportino si può tuttavia osservar nelle streghe, come nelle Degnitá si è osservato.

517Da tal prima morale della superstiziosa e fiera gentilitá venne quel costume di consagrare vittime umane agli dèi, come si ha dagli piú antichi fenici, appo i quali, quando loro sovrastava alcuna grande calamitá, come di guerra, fame, peste, gli re consagravano i loro propi figliuoli per placare l’ira celeste, come narra Filone biblio; e tal sacrifizio facevano di fanciulli ordinariamente a Saturno, al riferire di Quinto Curzio. Che, come racconta Giustino, fu conservato poi dai cartaginesi, gente senza dubbio colá pervenuta dalla Fenicia (come qui dentro si osserva), e fu da essi praticato infin agli ultimi loro tempi, come il conferma Ennio in quel verso:

Et poinei solitei sos sacruficare puellos,

i quali dopo la rotta ricevuta da Agatocle sagrificarono dugento nobili fanciulli a’ loro dèi per placarli. E co’ fenici e cartaginesi in tal costume empiamente pio convennero i greci col voto e sacrifizio che fece Agamennone della sua figliuola Ifigenia. Lo che non dee recar maraviglia a chiunque rifletta sulla [p. 226 modifica] ciclopica paterna potestá de’ primi padri del gentilesimo, la quale fu praticata dagli piú dotti delle nazioni, quali furon i greci, e dagli piú saggi, quali sono stati i romani, i quali entrambi, fin dentro i tempi della loro piú colta umanitá, ebbero l’arbitrio d’uccidere i loro figliuoli bambini di fresco nati. La qual riflessione certamente dee scemarci l’orrore che ’n questa nostra mansuetudine ci si è fatto finor sentire di Bruto, che decapita due suoi figliuoli ch’avevano congiurato di riporre nel regno romano il tiranno Tarquinio; e di Manlio, detto «l’imperioso», che mozza la testa al suo generoso figliuolo ch’aveva combattuto e vinto contro il suo ordine. Tali sagrifizi di vittime umane essere stati celebrati da’ Galli l’afferma Cesare; e Tacito negli Annali narra degl’inghilesi che, con la scienza divina de’ druidi (i quali la boria de’ dotti vuol essere stati ricchi di sapienza riposta), dall’entragne delle vittime umane indovinavano l’avvenire. La qual fiera ed immane religione da Augusto fu proibita ai romani i quali vivevano in Francia, e da Claudio fu interdetta a’ Galli medesimi, al narrare di Suetonio nella vita di questo cesare. Quindi i dotti delle lingue orientali vogliono ch’i fenici avessero sparso per le restanti parti del mondo i sagrifizi di Moloch (che ’l Morneo, il Drusio, il Seldeno dicono essere stato Saturno), co’ quali gli bruciavano un uomo vivo. Tal umanitá i fenici, che portarono ai greci le lettere, andavano insegnando per le prime nazioni della piú barbara gentilitá! D’un cui simile costume immanissimo dicono ch’Ercole avesse purgato il Lazio: di gittare nel Tevere uomini vivi sagrificati, ed avesse introdutto di gittarlivi fatti di giunco. Ma Tacito narra i sagrifizi di vittime umane essere stati solenni appo gli antichi Germani, i quali certamente per tutti i tempi de’ quali si ha memoria furono chiusi a tutte le nazioni straniere, talché i romani, con tutte le forze del mondo, non vi poterono penetrare. E gli spagnuoli gli ritruovarono in America, nascosta fin a due secoli fa a tutto il resto del mondo; ove que’ barbari si cibavano di carni umane (all’osservare di Lascoboto, De Francia Nova), che dovevan essere d’uomini da essi consagrati ed uccisi (quali sagrifizi [p. 227 modifica] sono narrati da Oviedo, De historia indica). Talché, mentre i Germani antichi vedevano in terra gli dèi, gli americani altrettanto (come sopra da noi l’un e l’altro si è detto), e gli antichissimi sciti erano ricchi di tante auree virtú di quante l’abbiam testé uditi lodare dagli scrittori; in tali tempi medesimi celebravano tal inumanissima umanitá! Queste tutte furono quelle che da Plauto son dette «Saturni hostiae», nel cui tempo vogliono gli autori che fu l’etá dell’oro del Lazio. Tanto ella fu mansueta, benigna, discreta, comportevole e doverosa!

518Dallo che tutto ha a conchiudersi quanto sia stata finora vana la boria de’ dotti d’intorno all’innocenza del secol d’oro, osservata dalle prime nazioni gentili; che, ’n fatti, fu un fanatismo di superstizione, ch’i primi uomini, selvaggi, orgogliosi, fierissimi, del gentilesimo teneva in qualche ufizio con un forte spavento d’una da essi immaginata divinitá. Sulla qual superstizione riflettendo, Plutarco pone in problema: se fusse stato minor male cosí empiamente venerare gli dèi, o non creder affatto agli dèi. Ma egli non contrapone con giustizia tal fiera superstizione con l’ateismo; perché con quella sursero luminosissime nazioni, ma con l’ateismo non se ne fondò al mondo niuna, conforme sopra ne’ Princípi si è dimostrato.

519E ciò sia detto della morale divina de’ primi popoli del gener umano perduto: della morale eroica appresso ragioneremo a suo luogo.