La vedova spiritosa/Atto III

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Atto III

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Atto II Atto IV
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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Paoluccio e Clementina.

Clementina. Dopo che ti conosco, mai più m’hai favellato

Con simile arroganza. Ti sei forse cambiato?
Qualche pensier novello ti gira per la testa?
Che novità, Paoluccio?
Paoluccio.   La novitade è questa.
Vi voglio ben, vorrei che uscissimo d’imbroglio;
Ma senza i cento ruspi sposare io non vi voglio.
Faceste male a dirmelo, prima d’averli in tasca.
Or che lo so, li voglio.
Clementina.   Va, che sei una frasca.
Paoluccio. Quando sarem sposati, di noi cosa sarà?

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Se ci verran figliuoli, chi li mantenirà?1

Clementina. Questo pensier non dico che non sia giusto e onesto,
Ma ci dovevi, ingrato, pensare un po’ più presto.
Sono due anni e mezzo che ci facciam l’amore:
Per me, se or mi lasciassi, sarebbe il bell’onore!
Veduto io non ti avessi, che viverei tranquilla.
Paoluccio. Certo l’ho io sedotta la povera pupilla. (ironico)
Voi mi insegnaste amare, io non sapea niente.
Clementina. Non conosceva amore il povero innocente. (ironico)
Malizioso!
Paoluccio.   Alle corte; che cosa concludiamo?
Clementina. Eh! converrà sposarci.
Paoluccio.   Di dote come stiamo?
Clementina. Non ci pensasti in prima?
Paoluccio.   Tardi, è ver, ci pensai.
Ma sapete il proverbio? meglio è tardi, che mai.
Clementina. Cento zecchini d’oro mi fur promessi, è vero;
Da chi me li ha promessi, di conseguirli io spero;
Ma se non me li danno?
Paoluccio.   Vel dico in sul mostaccio:
Non ne facciam niente.
Clementina.   Veramente asinaccio.
Paoluccio. Rispondervi saprei qual meritate, affè;
Ma taccio, perchè avete degli anni più di me.
Clementina. Oh oh, gran differenza fra noi ci passerà!
Paoluccio. Io non ho ancor vent’anni.
Clementina.   Ed io? eh, siamo là.
Paoluccio. Se quando io venni in casa, ero un fanciullo ancora,
E quel che siete adesso, voi eravate allora.
Clementina. Io? che ti venga il fistolo! Non eravam puttelli,
Che tutti si credevano che fossimo fratelli?
Paoluccio. Oh, più di cento volte intesi, e non da un solo,
A dire che di voi credevami2 figliuolo.

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Clementina. Temerario, insolente. (alzando la voce)

Paoluccio.   Or ora anch’io vi dico...
(alzando la voce)
Clementina. Va via, più non ti voglio. (come sopra)
Paoluccio.   Non me ne importa un fico.

SCENA II.

Don Anselmo e detti.

Anselmo. Cos’è, figliuoli miei?

Clementina.   M’insulta.
Paoluccio.   Mi strapazza.
Anselmo. Siate buono, figliuolo; chetatevi, ragazza.
Sotto un padron sì docile che vi ama e vi governa,
Fate che fra voi regni la carità fraterna.
Clementina. Gli dissi della dote; ed ora non mi vuole
Senza i cento zecchini.
Anselmo.   Donna tacer non suole.
Clementina. Soffrir non voglio in casa questo novello affanno.
Se non li ho, men vado.
Anselmo.   Zitto, che ci saranno.
Guardate: in questa borsa vi son delle monete,
Vi son cento zecchini; ma, figli miei, tacete.
Quello che a voi li dona, non vuol che il sappia ognuno;
Io pur di me non voglio che parlisi ad alcuno.
Ecco i cento zecchini per voi, se vi sposate.
Ma zitti, e non si sappia.
Paoluccio.   Non parlerò.
Anselmo.   Giurate.
Paoluccio. Giuro al ciel ch’io non parlo.
Clementina.   Anch’io giuro lo stesso.
Anselmo. Giuramento difficile per il femmineo sesso!
Paoluccio. Via, dateci il denaro.
Anselmo.   Sa Clementina il come
Puote acquistar la dote, e di consorte il nome.

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Faccia quel che le ho detto, mostrisi grata e pronta;

E si fa tosto il nodo, ed il danar si conta.
Clementina. Per me quel che far posso, sono disposta a fare.
Paoluccio. Signor, questo latino spiegatemi in volgare.
Non vorrei che la sposa, prima di maritarsi,
Avesse quella dote con voi da guadagnarsi.
Anselmo. Questo sospetto vano cacciatevi dal cuore;
Non son un uom ribaldo, non sono un impostore.
Ite, buona fanciulla, a far quel che mi preme;
Poscia il danaro è vostro, e vi sposate insieme.
Paoluccio. Sì, Clementina, andate, che a farlo io mi apparecchio.
Clementina. (Chi sa non mi riesca di consolare il vecchio?)
(da sè, e parte)

SCENA III.

Don Anselmo e Paoluccio.

Paoluccio. Signor, finch’ella torna, potressimo il danaro3

Principiare a contare.
Anselmo.   Ah no, figliuolo caro,
Non vo’ sentirvi tanto avido di monete.
Non è l’oro e l’argento quel ben che voi credete.
Se d’oro, se d’argento non fosse il mondo pieno,
I vizi ed i pericoli sarebbero assai meno.
Comprasi a caro prezzo dall’uom la sua rovina,
E l’uom quanto è più ricco, più al precipizio inclina.
Felice chi di poco sa contentare il cuore,
Felice chi guadagna il pan col suo sudore.
Qui dentro voi credete vi sia la vostra sorte,
E voglia il ciel pietoso che non vi sia la morte.
Ah, quest’oro è un veleno. (mostrando la borsa)
Paoluccio.   Signor, vi prego darmi
Un poco di quell’oro. Vorrei avvelenarmi.

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Anselmo. Viene il vostro padrone; seco parlare io deggio.

Paoluccio. (Quell’oro sarà nostro? nol credo, se nol veggio.)
(da sè, e parte)

SCENA IV.

Don Anselmo, poi don Berto.

Anselmo. Sono nel grande impegno: finor mi ho conservato

Buona riputazione; ma amor mi ha corbellato.
Conviene colla figlia superar la vergogna,
E confidarlo al padre, e favellar bisogna.
Berto. Sentite, don Anselmo, non basta il consigliarmi;
Ma sempre restar meco, nè mai abbandonarmi.
Quando mi favellate, voi mi mettete a segno;
Ma poi tutto mi scordo, se sono in un impegno.
Ha un’arte donna Placida nel labbro e nell’aspetto,
Che senza il vostro aiuto di nulla mi prometto.
Anselmo. Vi par ch’ella sia scaltra?
Berto.   Ci può condurre a scuola.
Anselmo. Quell’altra è in gran pericolo.
Berto.   Sì, povera figliuola.
Anselmo. Forse il male a quest’ora nel cuore ha principiato
A piantar le radici. Pensate a darle stato.
Berto. Vada anch’ella in ritiro.
Anselmo.   Io so che non v’inclina.
Berto. Facciasi andar per forza.
Anselmo.   Per forza? ah no, meschina.
Guai a quelle donzelle che a forza van serrate,
E guai a chi nel chiuderle le misere ha forzate.
Berto. Se guai vi son per tutto, quel che mi far non so.
Consigliatemi voi.
Anselmo.   Sì, vi consiglierò.
Tenera giovinetta che di pensier si cangia...

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SCENA V.

Don Isidoro e detti.

Isidoro. Don Berto, don Anselmo, che si fa? Non si mangia?

Anselmo. Abbiamo un interesse da terminar per ora.
Isidoro. Sonato è il mezzogiorno, e non si mangia ancora?
Berto. Abbiamo un interesse.
Isidoro.   Tutte le cose a tempo.
Vi è per parlar, per scrivere, per divertirsi il tempo.
Ma quando il cuoco dice che di pranzare è tempo,
Si mangia e si procura di terminar per tempo.
Le pernici son cotte; il pan bene arrostito;
Par nello spiedo un pezzo di zucchero candito.
Di dentro e per di fuori già penetrato è l’unto,
E perde il suo sapore, se non si mangia in punto.
Berto. Andiam, che parleremo quando averem pranzato.
(a don Anselmo)
Anselmo. Vi par che sia l’affare da ponere in un lato?
Dee l’uomo per la gola lasciar gli affari suoi?
Berto. Aspettate anche un poco, si mangerà dopoi.
(a don Isidoro)
Amico degli amici, vorrei piacere a ognuno:
Fra voi accomodatevi, per me sarà tutt’uno.
Isidoro. Via, don Anselmo, andiamo, che vi sarò obbligato.
Proprio mi sta sul core quel pane abbrustolato.

SCENA VI.

Paoluccio e detti.

Paoluccio. Signore, un forastiere la vedova domanda.

Sono venuto a dirlo in prima a chi comanda.
(a don Berto)
Isidoro. Non si riceve alcuno. (a Paoluccio)
Anselmo.   Colei è la gran diavola.
Berto. Ora non si riceve. (a Paoluccio)

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Isidoro.   Presto, che diano in tavola.

(a Paoluccio)
Paoluccio. Comanda ella, signore? (a don Isidoro)
Isidoro.   Va a far quel che ti ho detto.
(a Paoluccio)
Paoluccio. (Vo’ che il forestier venga; vo’ farlo per dispetto).
(da sè, e parte)

SCENA VII.

Don Berto, don Anselmo, don Isidoro, poi don Ferramondo.

Anselmo. Visite tutto il giorno?

Isidoro.   Le visite a quest’ora?
Anselmo. Fatela rinserrare.
Berto.   Sì sì, non vedo l’ora.
Isidoro. Pensate, se vogliamo che venga a far rumori
Contro la nostra tavola.
Ferramondo.   Servo di lor signori.
Isidoro. Come! non ve l’han detto che a tavola si va?
Ferramondo. Chi è il padrone di casa? (a don Anselmo)
Anselmo.   Signore, eccolo qua.
(accennando don Berto)
Berto. Son io, ma mi riporto a questi amici miei.
Ferramondo. Non siete voi don Berto?
Berto.   Son servitor di lei.
Isidoro. Di grazia... (a don Ferramondo)
Berto.   (State zitto.)
(piano a don Isidoro; mostrando aver paura)
Ferramondo.   Signor, vi son tenuto,
Che in ora così incomoda mi abbiate ricevuto.
Cercai di donna Placida; mi disse il vostro servo,
Che pria da voi venissi, e i vostri cenni osservo.
Berto. Anzi mi favorisce.
Isidoro.   (Ah schiuma de’ bricconi!
Paoluccio me l’ha fatta.) (da sè)
Anselmo.   Anzi, la mi perdoni,

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Fe’ dire a lei don Berto, che ora non si poteva

Ricever le sue grazie. (a don Ferramondo)
Isidoro.   E che pranzar voleva.
(a don Ferramondo)
Ferramondo. Il servo tal risposta non fece all’imbasciata,
Nè un cavalier mio pari l’avrebbe meritata.
Don Ferramondo io sono, signor di Belvedere,
Fra le truppe alemanne capitan granatiere.
Conobbi donna Placida sin quando avea marito;
Se vengo a visitarla, non so d’essere ardito.
L’ora del mezzogiorno non parmi ora indiscreta,
Pure il costume vostro seguir non vi si vieta;
Ma non vi si concede meco un trattar villano.
Isidoro. Signor, con chi parlate?...
Berto.   (Zitto, ch’è un capitano).
(piano a don Isidoro)
Ferramondo. Se negli amici vostri vi è tanta indiscrezione,
Saprò sopra di loro pigliar soddisfazione.
Gente malnata e vile sa poco il suo dovere.
Anselmo. Signor, non vi adirate...
Berto.   (Zitto, ch’è un granatiere).
(piano a don Anselmo)
Ferramondo. Cerco di donna Placida. (a don Anselmo)
Anselmo.   A me? non ne so nulla.
Berto. Sarà di là, Signore. (accenna la sua camera)
Anselmo.   (No, che vi è la fanciulla).
(piano a don Berto)
Isidoro. Volete donna Placida? di là potete andare.
(a don Ferramondo, accennando la camera)
(Lasciate ch’egli vada, che andremo a desinare).
(piano a don Berto)
Ferramondo. Lo sa ch’io la domando?
Berto.   Le farem l’imbasciata.
Isidoro. Può andar liberamente, che già non è occupata.
Anselmo. Un cavalier bennato, che ama la civiltà,

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Sa ben che non conviene a lui tal libertà.

Ferramondo. Io sono un galantuomo che sa i doveri suoi,
Nè vo’ le convenienze apprendere da voi.
Anselmo. Signore, ed io son uno che con amor sincero
Dico liberamente a chi mi ascolta il vero.
Si lascian star le donne che son nel proprio tetto,
E non si va a tentarle. Sia detto con rispetto.
Ferramondo. Chi sei tu, che pretendi di farmi il correttore,
Zelante inopportuno, famelico impostore?
Vieni a ostentare, ingordo, la tua dottrina immensa
In casa di don Berto, per guadagnar la mensa?
O pur ribaldo ascondi sotto mentita pelle
D’agnello il cor di lupo, per insidiar donzelle?
L’uno o l’altro pensiero ravvolge il tuo talento,
Poichè senza ragione moralizzar ti sento.
Un cavalier che visita donna civile, onesta,
Dà un segno di rispetto, amor non manifesta;
E chi sospetta a torto degli andamenti altrui,
Fa veder che la colpa ha le radici in lui.
Don Berto è un uom dabbene, egli ti crede, il vedo;
Io che son uom di mondo, a un impostor non credo.
Isidoro. (Beva quel sciropetto). (da sè)
Berto.   (Dite delle ragioni).
(piano a don Anselmo)
Anselmo. (Per umiltà sto zitto). (piano a don Berto)
  Il ciel ve lo perdoni.
(a don Ferramondo, e parte)

SCENA VIII.

Don Berto, don Isidoro e don Ferramondo.

Berto. (Non so cos’abbia a credere). (da sè)

Ferramondo.   Del detto io non mi pento;
S’ei tace e si avvilisce, più forte è l’argomento.

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Isidoro. (E intanto non si desina). Signore, un cavaliere

Può andar liberamente.
Ferramondo.   Conosco il mio dovere.
Correggere un par mio temerità si chiama;
Ma non andrò, se prima non sappialo la dama.
Isidoro. Alfine quest’istoria abbiam da terminarla.
Volete donna Placida? Anderò ad avvisarla, (parte)

SCENA IX.

Don Berto e don Ferramondo.

Berto. Signor, se andar volete, per me non dico nulla;

Spiacemi che con essa vi è l’altra, ch’è fanciulla.
Ferramondo. So il mio dover, vi dico; non vo sì arditamente.
Con donne in ogni stato io tratto onestamente.
Lodo che voi vegliate di femmine all’onore,
Ma in casa non vi lodo tenghiate un impostore.
Discolo di costume un militar si crede;
L’accesso di mal animo a un giovin si concede;
E poi a chi sa fingere contegno ed umiltà,
In casa si permette talor la libertà.
Non dico non vi sieno degli uomini dabbene,
Ma prima di fidarsi, conoscerli conviene.
In noi temer si suole l’ardir, la presunzione;
In lor temer si deve l’inganno e la finzione.
Berto. (Parla ben, parla bene. Un militar così
Parlar non ho più inteso). Oh, mia nipote è qui.

SCENA X.

Donna Placida, don Isidoro e detti.

Placida. Oh signor capitano!

Ferramondo.   Scusatemi, signora,
Se incautamente io scelsi al mio dover quest’ora.
È ver che mi fu detto, ma la credea una favola,
Che innanzi al mezzogiorno da voi si desse in tavola.

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Isidoro. E più di un quarto d’ora che il mezzodì è sonato.

Berto. Per me prenda il suo comodo. (Ehi, giudizio, è un soldato).
(piano a don Isidoro)
Placida. È un onor ch’io non merito, che sia per onorarmi
Venuto un cavaliere sì presto a visitarmi.
Spiacemi l’ora incomoda.
Isidoro.   Possono restar qua.
Noi pranzeremo intanto.
Berto.   Con tutta libertà.
Ferramondo. Certo che donna Placida esser non può avvezzata
Pranzare a un’ora insolita cotanto anticipata.
S’ella ritrova incomodo il desinar sì presto,
Con vostra permissione, seco alcun poco io resto.
Berto. Sì, signor capitano, resti quanto gli pare.
(Con gente granatiera non vo’ precipitare), (da sè)
Placida. Signor, voi conoscete da ciò nel cuor del zio
Per voi tanto rispetto, quanto ne vanta il mio.
Il pranzo ai convitati più differir non puote,
E sol per compiacervi restar fa la nipote.
Io pur nel primo giorno che son nei tetti sui,
Dovrò, se il comandate, pranzar senza di lui;
Ma un cavaliere avvezzo trattar con compiacenza,
Spero che mi dispensi da tale inconvenienza.
Tornar siete padrone, il zio non lo contrasta,
Il zio con tutto il mondo dolcissimo di pasta.
Ma in questi pochi giorni ch’esser dobbiamo insieme,
Grata mostrarmi ad esso col mio dover mi preme.
Pregovi per finezza in libertà lasciarmi,
E prima della sera tornare ad onorarmi.
Ferramondo. Sarei un indiscreto, sarei un incivile,
Qualor non mi appagassi di un animo gentile.
Accetto le finezze, onde onorato io sono.
Tornerò innanzi sera. Domandovi perdono. (parte)

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SCENA XI.

Don Berto, don Isidoro e donna Placida; poi un Servitore.

Isidoro. Brava, brava davvero. Vi lodo estremamente.

Berto. Cara la mia nipote, per me sì compiacente?
Quasi quasi mi spiace che andiate in un ritiro.
Placida. Signor, voi lo vedete, se di aggradirvi aspiro.
Isidoro. Caro don Berto, in tavola.
Berto.   In tavola.
(forte verso la scena)
Isidoro.   Per dirla...
Servitore. Signora, è qui don Fausto, che brama riverirla.
(a donna Placida)
Isidoro. Ditegli che ritorni quando averem pranzato.
(al servitore)
Placida. Non posso dispensarmi di udire il mio avvocato.
Quando a quest’ora ei viene, saravvi una cagione.
Chi ha liti, ha da temere.
Berto.   Mia nipote ha ragione.
Isidoro. Maladetti gl’impacci! sempre una novità.
Placida. Signor, per or vi prego lasciarmi in libertà.
(a don Berto)
Berto. Volete che aspettiamo? (a donna ’Placida)
Isidoro.   S’ha da aspettar?
(a don Berto, con maraviglia)
Placida.   Chi sa
Non siavi della lite qualch’altra novità?
Ho un certo affar legale, tessuto ed ordinato,
Su cui deggio il parere sentir dell’avvocato.
Isidoro. Vuol che da noi si desini; lo dice in chiare note.
Via, signor zio gentile, servite la nipote.
Berto. Quando così le piaccia, non voglio contraddire.
Mangiate a piacer vostro, e fatevi servire.
(a donna Placida, e parte)

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Isidoro. Sia ringraziato il cielo, alfin si pranzerà,

Quando non arrivassero dell’altre novità.
Per voi una pernice si metteria da parte;
Ma io, se non vi piacciono, godrò la vostra parte.
Perchè non si dilati il fumo dell’arrosto,
Farò che le pernici si mangino ben tosto.
Ah, che non vedo l’ora che mi conceda il fato
Giugnere a divorarmi quel pane abbrustolato. (parte)

SCENA XII.

Donna Placida ed il Servitore.

Placida. A don Fausto, che venga. (al servitore)

Servitore.   (È ora, in verità).
(da sè, e parte)
Placida. Di sì lunga anticamera don Fausto che dirà?
E tanto compiacente, tanto pien di rispetto,
Ch’essere compatita da lui mi comprometto.
Ma chiedo a me medesima: perchè con tal pretesto
Sottrarmi al capitano, e poi ricever questo?
Sarebbe mai codesta forza di occulto amore?
Ah, vincerò gl’impulsi, e terrò in guardia il core.

SCENA XIII.

Don Fausto e la suddetta.

Fausto. Temerei con ragione venir rimproverato

Di essere inopportuno sollecito tornato,
Se grazia non sperassi, anzi che sdegni ed onte,
Qua dove delle grazie è situato il fonte.
Placida. Esser con più giustizia da voi rimproverata
Potrei d’aver sì tardi risposto all’imbasciata,
Se certa non foss’io che il vostro cuor non usa
Per accordar perdono attendere la scusa.

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Fausto. Signora, io mi rammento la legge ed il comando.

Quel che voi comandaste, per grazia io vi domando.
Meno gentil deh siate, meno cortese meco,
Se il cor ne’ suoi trasporti dev’essere men cieco.
Placida. Come! vi scordereste quel ch’io ricuso e temo?
Fausto. Bramo di compiacervi, ma di me stesso io tremo.
Lungi da voi, virtude parmi d’aver sì forte,
Da non temer di perdere la gloria in queste porte.
Ma nell’udirvi appena a ragionar sì umile,
Ah che il valor vien meno, ah che ritorno un vile.
Dove s’intese mai nel militar conflitto,
Che sia contro al nemico resistere un delitto?
Pur nella pugna vostra, se bramo aver vittoria,
Deggio fuggirvi, e perdere di vincervi la gloria.
Perdo, se vi conquisto, del mio trionfo il merto,
E se vi cedo il campo, il mio morire è certo.
Placida. Guerra d’amor dissimile è al guerreggiar di Marte;
Altre le leggi sono, altro il costume e l’arte.
Là tra le fiamme e il ferro, gloria il valor concede,
Qua un generoso amante trionfa allor che cede.
Nell’insultare il vinto gode il guerriero audace.
Un amator discreto cela le palme, e tace.
Fausto. Sì, celar la vittoria son dal dovere accinto;
Basta che voi diciate che ho trionfato e vinto.
Placida. Nol dissi, e non sperate che segno alcun vel mostri.
Fausto. Se il labbro a me lo tace, parlano gli occhi vostri.
Placida. Se gli occhi a mio malgrado vagliono a lusingarvi,
Fuggirò in avvenire anco di rimirarvi.
Troppo in mio cor prevale l’amor di libertate,
Temo le insidie vostre; non vi lusingo; andate.
Fausto. Vi ubbidirò. All’amore prevalga il mio rispetto.
Ah, che son io vincendo a perdere costretto.
(in atto di allontanarsi)
Placida. Don Fausto. (chiamandolo dolcemente)
Fausto.   Mia sovrana. (rispondendo dolcemente)

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Placida.   Partite?

Fausto.   Ah sì, lo veggio
Che ogni lusinga è vana, e che lasciarvi io deggio.
Placida. Ma non vi rammentate, che più d’ogni insistenza
Soglio del vostro cuore temer la compiacenza?
Fausto. Posso restar?
Placida.   Restate. (Sento un interno affanno!)
(da sè)
Fausto. S’io resto, quei begli occhi mirar non mi vorranno!
Placida. No, sì crudel non sono. (mirandolo con tenerezza)
Fausto.   Bei sguardi lusinghieri!
(mirandola dolcemente)
Placida. Vincer voi mi volete. (come sopra)
Fausto.   Dite ch’io v’ami e speri.
(come sopra)

SCENA XIV.

Donna Luigia e detti.

Luigia. Senza di noi, germana, siede alla mensa ognuno?

Placida. (Era lì per cadere; il soccorso è opportuno).
(da sè)
Andiam, donna Luigia; lo zio cortese e grato
Permise ch’io potessi restar coll’avvocato.
Gl’ingordi han ricusato di differire un poco;
Andiam, che per noi pure è riserbato il loco.
Fausto. Potria donna Luigia preceder un momento.
Placida. No, no, vogliamo andare, scusate il complimento.
(seria)
Luigia. Oibò, per mia cagione non vo’ che si patisca,
Non vo’ che per mia colpa l’affar si differisca.
Sola preceder posso; vi lascio in libertà.
(Tutto per lei procura. Per me non vi è pietà).
(da sè, e parte)

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SCENA XV.

Don Fausto e donna Placida.

Fausto. Dunque sperar io posso.

Placida.   Speranza inconcludente.
Amo la libertade; vel dico apertamente.
Fausto. Tornino almen quegli occhi a serenare i rai.
Placida. Senza del cuor questi occhi han delirato assai.
Di lor non vi fidate; siano sereni o oscuri,
Non son della speranza interpreti sicuri.
Fausto. Se dall’amor passate ad un rigor severo,
Che dal rigor torniate alla dolcezza, io spero.
Al tribunal d’amore giudice delegato
Tratterò la mia causa cliente ed avvocato, (parte)

SCENA XVI.

Donna Placida sola.

Pur troppo è ver, per anni si soffre un rio tormento,

E il cuore e la ragione si perde in un momento.
Ero a cader vicina, vicina a dichiararmi,
Se pronta la germana non venia a risvegliarmi.
L’amo, l’amo pur troppo, e quel che più m’incresce,
Tento ammorzar la fiamma, e più s’accende e cresce.
Se vinsi or nel cimento a caso, e non per gloria,
Chi può in un caso simile promettermi vittoria?
Si dice, si propone, si sforza e si contrasta,
Ma oimè, nelle occasioni siam tenere di pasta.
(parte)

Fine dell’Atto Terzo.

Note

  1. Zatta: chi poi li manterrà?
  2. Così il testo.
  3. Zatta: potremo noi il danaro ecc.