La vedova spiritosa (prosa)/Atto I

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Atto I

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Personaggi Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Camera di Donna Placida.

Donna Placida e donna Luigia.


Placida. Finalmente, sorella carissima, dopo un anno che io sono vedova, torno padrona di me medesima. Uscita dalla casa de’ miei cognati, che mi vedevano di mal occhio, veggomi di bel nuovo nella casa di nostro zio, dove son nata, e posso godere della vostra amabile compagnia.

Luigia. Don Berto nostro zio è il miglior uomo di questo mondo, e con lui ci si starebbe d’incanto: ma di quando in quando gli si cacciano intorno certi birbanti, che lo girano a loro modo. Ora principalmente ne ha due, che sono veramente due capi d’opera. Uno è un falso bacchettone, e l’altro un mangiatore di prima riga.

Placida. So chi volete dire, il primo è don Anselmo, il secondo don Isidoro.

Luigia. Di più, sorella, vi confiderò un’altra cosa. Quel don Anselmo, che si fa credere uomo tanto da bene, so di certo che è di me innamorato.

Placida. Ora capisco, perchè il volpone faceva di tutto, perchè io non venissi a stare con voi. Ha paura che io scopra tutti i di lui raggiri, ma grazie al cielo, ci sono, e con un poco di tempo, e un poco di buona testa, vi assicuro, sorella, che questi birboni se ne anderanno.

Luigia. Cara donna Placida, quanto starete voi a rimaritarvi?

Placida. Oh donna Luigia, ci penserò bene prima di tornarmi a rimettere una catena al piede. Ora che ho provata la soggezione, conosco il bene della libertà, e non la riperderò così facilmente.

Luigia. E pure a quest’ora si sa che molti aspirano alle vostre nozze, e che voi non li vedete mal volentieri. [p. 442 modifica]

Placida. Sì, è vero. Sono tre quei che mi fanno la corte. Don Fausto, don Sigismondo ed il capitano; ma credetemi, non farà niente nessun di loro, ho troppo a cuore la mia libertà.

Luigia. Fate così, sorella, se per voi sono di soverchio, mettetemi in grazia di qualcheduno di loro.

Placida. Perchè no? Quale scegliereste, se stesse in vostra mano la scelta? Appresso a poco li conoscete. Sapete che tutti tre hanno i loro pregi ed i loro difetti. Don Sigismondo è un cavaliere compitissimo, nobile e di buon talento, ma è soggetto alle astrazioni di mente, che spesse volte pare uno sciocco. Il capitan Ferramondo è un uomo di buonissimo cuore, valoroso, stimato, ma è fieramente caldo, impetuoso, e nelle cose sue pensa troppo alla militare. Don Fausto poi è un avvocato di molto credito. Sapete come mi ha difesa bene contro de’ miei cognati, che mi volevano contrastare la contradote; oltre l’abilità del suo mestiere, è un uomo colto, gentile; non ha altro difetto, se non quello di essere un poco caricato nelle parole, ne’ complimenti, e qualche volta ne’ gesti, e nelle riverenze ancora.

Luigia. Parmi che non siano difetti da farne caso. L’astrazione non è cosa che incomodi; la collera si può evitare conoscendo il temperamento; e la caricatura dell’avvocato è piacevole, e non può mai diventare noiosa.

Placida. Per quel che io sento, vi piacerebbero tutti tre.

Luigia. Io non ne disprezzo nessuno.

Placida. Chi viene? oh per l’appunto eccone uno di loro.

Luigia. Questi credo sia l’avvocato.

Placida. Sì certo, che vi pare di lui?

Luigia. Dall’aspetto, non si può giudicare che bene.

Placida. Andate, sorella, lasciatemi seco lui discorrere de’ miei affari. Spero che verranno quest’altri ancora a consolarsi meco per il mio novello soggiorno. Vedeteli, esaminateli, e poscia ne parleremo; non dubitate, ve ne cederò qualcheduno.

Luigia. (Ed io credo non ne voglia ceder nessuno. Se non si vuol maritare, la conosco mia sorella, avrà la vanità di vederli tutti languire). (da sè, indi parte) [p. 443 modifica]

SCENA II.

Donna Placida e poi don Fausto.

Placida. Ha volontà di marito? è stanca di star bene la poverina. Che fa don Fausto, che non viene innanzi? Aspetterà che io lo chiami. Qualche volta mi fa ridere con queste sue rispettose caricature; ciò non ostante lo stimo, e se non avessi fissato di restar libera, forse, forse.... Eh, non ci vuò pensare nemmeno. Don Fausto. (chiamandolo)

Fausto. Mia signora?

Placida. Perchè prima non avanzarvi?

Fausto. Non avrei ardito di farlo, senza un vostro comando.

Placida. Sapete pure, che io vi vedo assai volentieri.

Fausto. So ancora, che io non deggio abusar delle vostre grazie.

Placida. Sedete.

Fausto. Il servo non dee sedere, fintanto che la sua signora sta in piedi.

Placida. Troppo umile.

Fausto. Fo il mio dovere.

Placida. Accomodatevi. (sedendo)

Fausto. Per obbedire. (siede)

Placida. Eccomi in grazia vostra ritornata in casa paterna, ed al possesso della mia dote.

Fausto. Astrea, signora mia, vi fu prospera, Astrea vi rese giustizia; ha vinto il vostro merito; e non la debole mia virtù.

Placida. Voi non sapete dire che spiritosi concetti.

Fausto. Arrossisco, e non so rispondere.

Placida. Dunque possiam sperare che sian per me terminate le liti?

Fausto. Sì certo, vivete pure tranquilla; ma essendo voi donna Placida di un animo sì liberale, pensate che non dee essere per voi sola tanta felicità. Lo stato vedovile in cui siete, ha destato in più d’uno la speranza di possedervi. [p. 444 modifica]

Placida. No, no, don Fausto, ve lo dico liberamente; non voglio più arrischiarmi a violentare un cuore ad amarmi per obbligo.

Fausto. Sarebbe un tal obbligo sì prezioso, che niuno si studierà di evitarlo.

Placida. E bene, se qualcheduno mi crede degna di amore, che mi ami in libertà, senza essere da un legame costretto. Io non vuò tormentare, nè essere tormentata. Sono anch’io capace d’amore; so amare costantemente, ma l’amar per dovere, non è l’amare più delicato.

Fausto. Amare senza un legame è amare costantemente? Qual genere d’amore sarà mai questo?

Placida. L’onesto amore dell’amicizia.

Fausto. Pochi, signora mia, pochi si trovano di questo amore capaci. Io forse, animato dell’esempio vostro, potrei compromettermi di riuscirvi. Degnatevi di preferirmi nel possedimento della grazia vostra, e noi apriremo una scuola di seguaci dell’amor nobile, dell’amor virtuoso.

Placida. Sì, don Fausto; ma anche io son donna, e quello che più ciecamente procura di secondarmi, è il più forte insidiatore della mia pace. Pregovi, se mi amate, non esser meco sì liberale. Siate più cauto. Siate più moderato ne’ sagrifici; e se posso arrogarmi sopra di voi qualche grado di autorità, vi obbligo espressamente amarmi meno, e meno essere condescendente.

Fausto. Ah sì, piacemi il bel comando. Vi trovo un non so che d’insolito, di straordinario. Vi trovo una bellezza di un carattere affatto nuovo. Temo di avervi recato soverchio incomodo; partirò per non dispiacervi. (s’alza) Ma no, se il mio restar vi dà noia, più che vi dispiaccio, più vi obbedisco, (torna a sedere)

Placida. La vostra compagnia mi è carissima. (con tenerezza)

Fausto. Ah signora, disponete di me. (come sopra)

Placida. Ecco una compiacenza che mi mette in periglio, voi mi costringete ad allontanarmi. (s’alza)

Fausto. Fermatevi un sol momento, vi domando perdono se malamente confondo il divieto e il comando. Parto per obbedire. Ritornerò, se lo permettete. Cercherò con la servitù, con ’ [p. 445 modifica] l’ossequio e con la perseveranza di rendermi a voi qualche volta molesto. Così, se non potrò lusingarmi del vostro amore, potrò sperare il dono della vostra amicizia, e della vostra umanissima compassione. (parte)

SCENA III.

Donna Placida sola.

Egli è un poco caricato, ma non si può dire che ei non sia di buon cuore. È facile trovare un amante, che per aggradire si fermi; non è sì facile trovarne uno, che per compiacere, sen vada. Non che la compagnia dell’amante sia disgustosa, ma il troppo bene, è un bene che poco dura, e per meglio assaporare una contentezza, convien prima desiderarla. (parte)

SCENA IV.

Don Anselmo e don Isidoro.

Isidoro. Buon giorno, don Anselmo.

Anselmo. Don Isidoro, buon giorno. Il cielo vi dia quel bene che desidero per me stesso.

Isidoro. Che vuol dire, che non si vede don Berto?

Anselmo. Chi sa? Ora è pieno d’affari. Povero galantuomo! ha perduta la sua libertà, la sua quiete. Ad onta de’ nostri buoni consigli, ha voluto prendere in casa questa vedova sua nepote.

Isidoro. Sì certo. Siccome in casa di suo marito portava ella i calzoni, dubito che qui pure voglia far da padrona.

Anselmo. Per me comandi pure, che poco o nulla mi preme. Spiacemi del mal esempio, che potrà dare a quella innocente colomba di sua sorella. So io quanto mi costa averla per ordine del zio così bene instruita, così felicemente educata. Costei è capace di rovinare in un punto l’opera buona di tanti mesi. (Ah! che io preveggo i miei disegni precipitati). (da sè)

Isidoro. Ed io, che sono avvezzo da tanti anni a mangiare alla tavola di don Berto; io che comando liberamente al cantiniere, [p. 446 modifica] al cuoco, al mastro di casa, avrò da soffrire che venga ora costei a levarmi la mano? Caro don Anselmo, noi siamo avvezzati col nostro don Berto a mangiare de’ buoni bocconi. Si mangia bene a pranzo, si mangia meglio a cena. Sarebbe per noi una perdita lagrimosa.

Anselmo. Per mangiare non preme; ogni cosa mi serve.

Isidoro. Veggo per altro, che quando viene in tavola qualche cosa di buono, non siete l’ultimo ad allungare la mano.

Anselmo. Io mangio solamente per vivere. A saziar l’appetito mi basterebbero quattro ceci.

Isidoro. Quattro ceci eh! Mi pare che vi piacciano li capponi.

Anselmo. Se ci sono, non li ricuso, sono creati per beneficio dell’uomo. Per altro non è questa la mia passione. Quello che ardentemente desidero, è il poter giovare al mio prossimo.

Isidoro. Parmi di sentire don Berto.

Anselmo. Caro amico, convien cercare il modo di screditare presso di lui donna Placida. Non già per il desio perverso di mormorare, ma per mettere riparo all’imminente pericolo di quella povera sua germana.

Isidoro. A voi preme quella fanciulla, e a me preme la tavola sopra ogni cosa.

Anselmo. Ah! voi non conoscete il pregio d’una bellezza innocente.

SCENA V.

Don Berto e detti.

Berto. Amici, eccomi qui con voi; mi hanno trattenuto finora ad un magistrato per gli affari di mia nepote; ora che mi sono spicciato, sono qui a godere della vostra amabile compagnia.

Isidoro. Oggi, don Berto, cosa abbiamo da desinare?

Berto. A me lo domandate? Non siete ancora stato in cucina?

Isidoro. Oh, non ci vado più per ora.

Berto. Perchè?

Isidoro. Perchè in casa ci è una nuova padrona, e non vorrei che nascessero degl’impicci. [p. 447 modifica]

Berto. Oh, questa è bella! volete aver soggezione di mia nepote? In casa mia non sarò io il padrone? Per lei non si ha da alterare il metodo che si è tenuto finora. Voglio mangiare, e voglio godere gli amici miei. Presto, andate in cucina, sollecitate il cuoco, e ordinategli qualche cosa di vostro gusto.

Isidoro. Vado immediatamente.... Ehi, mi ha detto il bottegaio, in passando, che avea delle belle pernici.

Berto. Subito, che se ne compri un paio.

Isidoro. Oggi saremo cinque a tavola. Due pernici sole saranno poche.

Berto. Che se ne comprino quattro. Meno parole e migliori fatti; ditelo allo spenditore, e spicciamoci.

Isidoro. Sì, caro don Berto, vi servo subito. Che non farei per un uomo di garbo, per un caro amico, quale voi siete? Mi farò dare i quattrini dallo spenditore, e anderò io medesimo a comprarle. Voglio scegliere le più belle, voglio scegliere le più grasse, spendere quattro paoli di più, ma che si sceglino le più grasse. (parte)

SCENA VI.

Don Berto e don Anselmo.

Berto. Che cosa fa don Anselmo?

Anselmo. Ci vuole un po’ di politica per condur la cosa a dovere. (da sè) Oh umanità infelice! a quante disgrazie sei tu soggetta! Stava ora fra me pensando al figlio di un galant’uomo, caduto sgraziatamente in una luttuosa miseria. Chi ha figli o figlie in casa da custodire, apra gli occhi ben bene, e seriamente ci pensi. La tenera gioventù ha il cuore flessibile, e i sensi delicatissimi. La natura è al male inclinata, il vizio è un seduttore ribaldo, l’occasione invita, e il mal esempio precipita.

Berto. Voi parlate da quel grand’uomo che siete, ed io ringrazio il cielo, che sono fuori di questo caso. Non ho voluto mai maritarmi per questo, per non aver figliuoli da custodire.

Anselmo. Però il cielo vi ha dato il carico di due nepoti, e ci dovete pensare, come se fossero vostre figlie. Buon per voi, che la peggio si è maritata per tempo; ma ora vi ritorna in casa, [p. 448 modifica] vedova, giovane, accostumata all’odierno sistema delle vanarelle. Vorrà le solite conversazioni; vorrà i serventi al fianco, e se ciò è male per lei, sarà peggio ancora per quella innocente di sua sorella. Ohimè! inorridisco solo in pensarlo.

Berto. Voi mi mettete una tal pulce in capo, che quasi quasi mi pento di aver preso meco cotesta vedova; ma la doveva io lasciare abbandonata senza nessuno de’ suoi parenti?

Anselmo. Tutto si doveva fare, fuori che introdurla a convivere con sua sorella.

Berto. Per ora non ci vedo altro rimedio.

Anselmo. Sì, ci è benissimo il suo rimedio, basta volere. Il cielo non abbandona, quando a lui si chiede consiglio. La vedova non deve star sola, l’accordo anch’io; pur troppo il tristo mondo e la mala sua inclinazione potrebbero far parlare di lei. Fate così, don Berto, fate quel che io dico, e ve ne troverete contento. Fino che donna Placida si rimariti, ponetela in un ritiro, assicurate il suo decoro, la vostra quiete, e l’innocenza della sorella minore.

Berto. Questa separazione mi piace, ha del ragionevole, del buono; ma non sarebbe meglio lasciare in libertà la vedova, e mettere in un ritiro quell’altra?

Anselmo. No, don Berto, non vi consiglio. Donna Luigia ancora ha bisogno della mia educazione. È vero che non ha la madre, ma siamo in due, che suppliscono. Voi col buon esempio, io con i buoni consigli, possiamo perfezionarla nel sentiero della virtù. Levatele d’intorno questa vedova presontuosa, e vedrete donna Luigia umile, rassegnata e ubbidiente.

Berto. Caro don Anselmo, veggo che mi parlate con vero amore. Trovate voi il sito per collocarla. Trovatele voi il ritiro, ed io la faccio andare di bel domani.

Anselmo. Sia ringraziato il cielo, che le mie parole vi hanno toccato il cuore. In queste cose ci vuol sollecitudine e risoluzione; vado subito a rintracciare il luogo. Riposate sopra di me, farò di tutto per la quiete del caro amico. (E per assicurarmi, se io posso, il possedimento di quella cara giojetta). (da sè, e parte) [p. 449 modifica]

SCENA VII.

Don Berto e poi donna Placida.

Berto. Povero me! In casa mia, dunque, era venuto il malanno?

Placida. (Quel caro don Anselmo è partito senza nè meno salutarmi. Lo so che quell’impostore mi odia, ma spero di essere venuta in tempo per ricattarmi). (da sè)

Berto. (Eccola; chi direbbe mai, che sotto quella bella apparenza si nascondesse tanta malizia?) (da sè)

Placida. Serva, signore zio.

Berto. Vi saluto. (con un poco di asprezza)

Placida. Che avete, signore, che mi parete alterato?

Berto. Sono alterato per cagion vostra. Voi mi tenete in continuo pensiere, e vi dirò ora in poche parole quello che di voi ho risoluto.

Placida. Comandate, signore, io non desidero che compiacervi.

Berto. Oh bene dunque, sappiate che sino che siete vedova, vi voglio mettere in un ritiro.

Placida. (So da chi viene il consiglio, mi valere anche io della finzione per deluder l’arte con l’arte). (da sè)

Berto. (Mi pare che non le comodi). (da sè)

Placida. In verità, signor zio, non mi potevate dare una consolazione maggiore. Pur troppo sono stata già maritata, so che cosa è il mondo, e desidero solamente di viver quieta. Che sono i beni di questa vita? ogni più dolce brama è amareggiata dal dispiacere. Sollecitatevi, vi priego. Conducetemi al mio ritiro, conducetemi in questo punto.

Berto. (Son rimasto di sasso). (da sè)

Placida. Ma deh! signore, pensate che non siete zio di me sola, che meco solo voi non supplite alle veci di padre; ma Luigia anche essa è vostra figlia di amore. Fate che ella non meno sia meco a parte di questo bene. Venga ella pure a godere della tranquillità del ritiro.

Berto. In casa... ci sono io.... direi che fosse bene educata. [p. 450 modifica]

Placida. Oh, in questo poi perdonatemi. Ho pratica bastantemente del mondo. Conosco il bene ed il male; e dicovi francamente, che un uomo non può educare una fanciulla a dovere, e che Luigia ha bisogno di esser più custodita.

Berto. È vero che io ho le mie faccende, e non posso essere sempre qui, ma in luogo mio vi capita un certo don Anselmo, che è un uomo saggio, un uomo veramente da bene.

Placida. Ah! m’inspirasse il cielo valor bastante per dimostrarvi l’inganno ed il pericolo in cui vivete. Se un uomo da solo a sola, qualunque siasi, trovasi sovente con una giovinetta vezzosa, qual sarà il presontuoso che si comprometta resistere, senza timor di cadere? Sia pure don Anselmo un vecchio, anche ne’ vecchi, ad onta delle nevi, si accende il fuoco. Sia egli pure forte, virtuoso e da bene, quanti esempi non abbiamo noi, che anco i più saggi hanno pericolato nelle occasioni? Signore, tutti siam di una pasta, tutti fragili ed a pericolare soggetti.

Berto. (Parla come un libro stampato). (da sè)

Placida. Avrete cuore, signore, di esporre la paglia vicina al fuoco?

Berto. Ci ho un po’ di dubbio, per dire il vero. Ci penserò un poco meglio prima di farlo.

SCENA VIII.

Don Isidoro e li suddetti.

Isidoro. Don Berto, le pernici sono belle e comprate, e le ho preparate e conciate con le mie mani, e sentite che cosa ho fatto. Ho preso del pan francese, e l’ho tagliato a mezzo, e l’ho scavato ben bene, e dentro a quattro mezzi pani scavati ho cacciato il di dietro delle quattro pernici, e le ho fatte infilzar nello spiedo. Ora girando le pernici dinanzi al fuoco, cola il grasso del pane e il pane s’inzuppa, e penetrando le goccie di quel buon grasso, il pane si arrostisce, e s’ingrassa. Oh che roba! o che piacere è il mangiar quel pane grasso arrostito! Subito che le pernici son cotte, ho ordinato che diano in tavola, e sentirete che roba. [p. 451 modifica]

Berto. Bravo, bravo da vero.

Placida. Favorite, signore, chi siete voi in questa casa? Il spenditore, o il cuoco? (a don Isidoro)

Isidoro. Mi maraviglio di voi, signora, sono un amico di don Berto, e non sono ne il cuoco, nè lo spenditore.

Berto. È uno che mi fa il piacere di frequentar la mia tavola.

Placida. Vi domando scusa, se ho fatto errore, ma per quei pochi giorni che io resterò in questa casa, vi prego non impicciarvi in simili cose. Io nel mangiare sono po’ stravagante, e il grasso di pernice mi farebbe rivoltare lo stomaco. (a don Isidoro)

Berto. Questa cosa mi spiacerebbe. (a don Isidoro)

Isidoro. A chi piace una cosa, a chi piace l’altra. Se le pernici vi annoiano, ce le mangieremo da noi.

Berto. Ce le mangieremo da noi. (a donna Placida)

Placida. Non ne posso soffrire nemmeno l’odore.

Isidoro. Che stia nella sua camera. (a don Berto)

Berto. Potreste stare nella vostra camera. (a donna Placida)

Placida. Sì signore. Volontieri, se così vi piace, così farò, (a don Berto) Per altro mi maraviglio di voi, signore, (a don Isidoro) che ardite di avanzare una simile proporzione. È vero che in questa casa io non comando, ma con la donna si pratica maggior civiltà. Permettere che io stia rinchiusa in una camera per saziare la gola, vi pare costumanza civile? Caro signor zio, spiacenti dovervi dire, che tali amici villani non meritano essere da voi trattati con le pernici, ma con le ghiande. Andrò a ritirarmi fra poco, potrete gettare i vostri beni con chi vi piace, ma almeno per carità pensate all’altra nepote, la cui dote avete voi nelle mani, e sarete responsabile un giorno al cielo e al mondo di quel mal uso che ora ne fate, dispensando le vostre e le altrui sostanze con gente sordida, con gente ingorda, il di cui merito è l’adulazione. Perdonatemi, se troppo sinceramente io vi parlo. (a don Berto, indi a don Isidoro) Chiedo a voi pure umilmente perdono, se non conoscendovi, vi ho dato il titolo di spenditore e di cuoco; confesso l’errore, ed ora che vi conosco, vi darò il titolo di solennissimo scrocco. (parte) [p. 452 modifica]

Berto. Sentite che cosa ha detto?

Isidoro. Le sue impertinenze mi farebbero scaldare il sangue. In casa vostra non ci dovrei più venire. Ma gli amici si conoscono nelle occasioni. Soffrirò tutto per amor vostro; e ad onta degl’insulti, degli strapazzi, saldo, forte, costante, son qui, son vostro; sono a desinare con voi. (parte)

Berto. Dice che verrà a pranzar meco, perchè mi vuol bene; mi pare che in ciò non vi sia malizia; e pure mia nepote mi vorrebbe far pensare diversamente. Se ascolto lui, mi convince; se sento lei, dice bene; non so che dire. Io ascolto tutti, e l’ultimo che mi parla, è sicuro di aver ragione. (parte)

SCENA IX.

Don Anselmo e Rosina.

Anselmo. Ehi Rosina.

Rosina. Signore.

Anselmo. Dove è donna Luigia, che non si vede?

Rosina. Sarà nella stanza di sua sorella.

Anselmo. Ecco qui, tutto il giorno appartate, tutto il giorno serrate insieme.

Rosina. A voi che cosa importa?

Anselmo. Eh! sa il cielo perchè mi preme. Andate da donna Luigia, e ditele per ordine di suo zio, che venga a prendere la consueta lezione.

Rosina. E ho da dire che venga per ordine del padrone, quando il padrone non mi ha detto niente? Voi che insegnate le cose buone, mi consigliate a dire delle bugie?

Anselmo. Figliuola mia, voi non sapete distinguere le bugie maliziose dai leciti ed officiosi pretesti. Andate, fate quello che vi dico.

Rosina. No certo, signore; da che sono nata al mondo, non mi ricordo di aver detto bugie, e non ne vuò principiare a dire.

Anselmo. Ostinazione del sesso! che sì, che se io vi chiedo quanti anni avete, mi risponderete subito una bugia?

Rosina. E che sì, che se io vi domando se siete un uomo da bene, mi direte delle falsità, perchè io vi creda esser tale? [p. 453 modifica]

Anselmo. Io lo posso giurare, che sono un uomo onesto e sincero.

Rosina. Come io posso giurare di essere di sei anni.

Anselmo. (Costei mi può far del male, convien guadagnarla per la parte più debole dell’interesse). Rosina, a quel che io sento, voi mi credete un uomo cattivo: pazienza! Il cielo ve lo perdoni. Ma pure voglio farvi conoscere, che non sono sì pessimo, quale mi giudicate. Vi voglio fare una confidenza. Un galantuomo, un uomo da bene e caritatevole, mi ha dato cento zecchini per maritare una qualche buona fanciulla. Voi siete in età di marito, e so gli amori che passano fra voi ed il servitore di casa; onde, se pensate di maritarvi con Paoluccio, non ho veruna difficoltà a dare a voi questi cento zecchini, de’ quali posso io dispone liberamente.

Rosina. In fatti si conosce che siete un uomo da bene: ad onta de’ maligni che non vi credono, conviene confessare che siete il miglior galantuomo di questo mondo.

Anselmo. Via dunque, andate a dire a donna Luigia, che si contenti di venir qui subito, che ho qualche cosa da comunicarle.

Rosina. Vado immediatamente, ed acciò non dica di non venire, le dirò che l’ha comandato il padrone.

Anselmo. Bravissima, e per l’avvenire badate di consigliarla a non staccarsi dalle mie insinuazioni.

Rosina. Le dirò bene di voi, e che vi creda, e che si riporti a tutto quello che voi le dite.

Anselmo. Mettete qualche volta in discredito la gioventù, che non ha giudizio, e non può fare la fortuna di una buona ragazza.

Rosina. Sì certo, e le dirò, che volendosi maritare, faccia capitale di un uomo attempato.

Anselmo. Di un uomo savio, morigerato e da bene.

Rosina. D’un uomo, per esempio, che sia come siete voi.

Anselmo. Io, per dir vero, sono sempre stato lontano dal pensiere di maritarmi, ma non si può sapere quello che abbia il cielo destinato che io faccia.

Rosina. Ed io non mi esibisco servirvi per i cento zecchini, ma perchè il cielo avrà destinato così. (parte) [p. 454 modifica]

SCENA X.

Don Anselmo e poi don Berto.

Anselmo. È molto scaltra costei, ma la gola dei cento zecchini l’obbliga a secondarmi, e se ella meco si porta bene, anche io ad essa procurerò di mantenere la mia parola. Troverò bene io qualcheduno, che mi darà una mano per farmi essere pontuale.

Berto. Oh don Anselmo, siete già ritornato?

Anselmo. Sì, amico, son qui da voi, e vengo a dirvi, che il ritiro per donna Placida è ritrovato.

Berto. Bravo, ne ho piacere grandissimo, e ne averà piacere egualmente donna Placida ancora; ma ditemi un poco, non si potrebbe nel medesimo tempo e nel medesimo luogo chiudere ancora quell’altra?

Anselmo. Donna Luigia?

Berto. Donna Luigia.

Anselmo. Come! vi scordaste sì presto le massime che vi ho detto?

Berto. Voi dite bene, ma io non posso star qui a far la guardia ad una ragazza.

Anselmo. Caro don Berto, non ci sono io?

Berto. Lasciate che vi parli liberamente, lasciate che io vi dica alcune cose, che non vi pareranno mal dette. (Dirò quello che disse Placida, se me ne ricordo). Se un uomo trovasi sovente da solo a sola con una giovane, chi è quel presontuoso, che si comprometta di resistere e di non cadere? Sia virtuoso e forte. Abbiamo più d’un esempio, che anche i saggi hanno nelle occasioni pericolato. Tutti siam d’una pasta.... e siamo.... tutti ad errar soggetti. (in tuono grave e caricato)

Anselmo. (So di chi è la lezione). Ah don Berto, pur troppo gli uomini maliziosi procurano convertire il balsamo in veleno. Sarò io quel malvaggio, sarò io quell’uomo pericoloso, di cui narrano le istorie il luttuoso esempio? Non credeva mai di meritarmi da voi un insulto simile. Pazienza! merito peggio. Ah, in questo mondo convien soffrire di tutto. Don Berto, mortificatemi pure, che io vel perdono. [p. 455 modifica]

Berto. (Ah! che uomo da bene). Basta.... sia per non detto. Non parliamo più di Luigia. Pensiamo solamente a rinserrare quell’altra.

Anselmo. Da voi non mi vedrete mai più.

Berto. Oh, questa è bella da vero. Se voi non verrete più qui, se voi mi abbandonate, sarò sforzato allora di chiudere in un ritiro Luigia.

Anselmo. Oh amicizia! amicizia! a che cosa mi costringi? Non so che dire. Verrò per assistere alla fanciulla.

Berto. Quanto mai sono obbligato alla premura che per me vi prendete; dove posso, comandatemi con libertà. Son cosa vostra, disponete liberamente.

Anselmo. Appunto avrei una grazia da domandarvi.

Berto. Impiegatemi pure in tutto quello che può dipendere dal mio potere.

Anselmo. Vi dirò, amico caro. Vi è una fanciulla giovane, che è abbandonata da tutti, ed in procinto da pericolare, avrebbe l’occasione di collocarsi, ma senza un poco di dote, quello che la vorrebbe non può pigliarla. Per fare i fatti suoi, ha bisogno di cento zecchini, e se voi siete disposto a fare questa opera di pietà, avrete il merito di averla assicurata contro le insidie de’ suoi persecutori.

Berto. È perseguitata dunque?

Anselmo. Pur troppo.

Berto. È bella?

Anselmo. Sì, e questo è il maggior pericolo.

Berto. E lo sposo vuole cento zecchini? Non si potrebbe contentare di una bella ragazza?

Anselmo. Che serve la bellezza, quando non vi è il bisogno per la famiglia? Quanta belle figlie rimangono senza marito, perchè lor manca la dote.

Berto. Ora parlando di dote, mi fate risovvenire che la devo preparare per mia nepote Luigia, e se sarò troppo liberale con gli altri, non so se un giorno mi resterà il bisogno per lei.

Anselmo. Questo pensiero avaro è affatto nuovo in don Berto. Non vi ho mai più sentito parlare così, ed io, che ho tanto [p. 456 modifica] fatto per voi, senza verun interesse, poteva mai prevedere una ingratitudine di tal sorte?

Berto. Via, non andate in collera.

Anselmo. In collera! per qual ragione? Quello che io vi chiedeva, ve lo chiedeva forse per me?

Berto. Vi vorrebbero dunque cento zecchini?

Anselmo. Sì, ma li chiederò a qualchedun altro.

Berto. Via, non mi mortificate d’avvantaggio. Ve li darò io.

Anselmo. Quando, se la cosa merita tutta la sollecitudine possibile?

Berto. Subito, venite meco. Vi apro lo scrigno, e servitevi con libertà.

Anselmo. Ma non vorrei...

Berto. Non pensate....

Anselmo. Se vi spiacesse....

Berto. Non vi è pericolo.

Anselmo. Me li darete poi volentieri?

Berto. Ve li darò di buon cuore. (parte)

Anselmo. Ed io di buon cuore me li prenderò. (parte)

SCENA XI.

Camera.

Donna Placida e Paoluccio.

Placida. Vieni qui, Paoluccio. Ho piacere che don Berto ti abbia ripreso al di lui servizio.

Paoluccio. Tutta bontà della mia padrona.

Placida. Don Berto ti vuol bene?

Paoluccio. Sì certo, me ne vuole più che non merito. Egli si contenta di quel che faccio, e non mi dice mai una parola torta; sarebbe un divertimento servire un padrone di questa sorte, se non venissero ad inquietare la casa certi scrocchi insolenti, che vogliono comandar più di lui. Il padrone non parla mai. Sia presto, sia tardi, egli prende la mattina la cioccolata, quando che gli si dà, e quei cari signori la vogliono di buon’ora, e guai se per accidente non è ben carica e ben frullata; vengono [p. 457 modifica] essi medesimi a vederla frullare, e non contenti di beverne a sazietà, ne portano via de’ pezzi, e se la mangiano come il pane. A tavola poi è una cosa veramente da ridere, veder come mangiano, con che avidità, con che sordidezza. Appena si presenta un piatto, sono i primi ad allungare le mani: se pare a loro che il miglior boccone non sia dalla loro parte, girano il piatto con la maggior destrezza del mondo, e tornano due o tre volte a replicare la lezione. E se vi è qualche cosa di gusto, non occorre sperare che in cucina ne ritorni, vorrebbero poter divorar tutto. Hanno le vivande sul tondo, il boccone in bocca, un occhio al compagno, e l’altro a quel che resta nel piatto; e non tengono le mani oziose, poichè con una si empiono le mascelle, e con l’altra si vanno empiendo le tasche; non vogliono che nessuno s’incomodi a trinciare, nè a dar da bere, vogliono far tutto da se medesimi, e mangiano a crepa corpo, e bevono alla disperata, e guai se non si porta loro del buono. Gridano col cameriere, si lamentano con lo spenditore, danno al cuoco dell’ignorante, mettono sossopra la casa, ed il padrone soffre, paga e non parla.

Placida. Ma dimmi un poco, hai tu scoperto nulla che don Anselmo inclini segretamente agli amori di donna Luigia?

Paoluccio. Mi pare che il volpone vada facendo la caccia alla pecorella, ma per dire il vero, mi dà più fastidio che l’ho veduto parlare qualche volta segretamente con la Rosina, e non vorrei che il vecchio venisse a interrompere gli interessi miei.

Placida. Quali interessi passano fra te e Rosina?

Paoluccio. Eh niente.

Placida. Briccone, ti conosco alla ciera. Quella ragazza non ha finito ancora di crescere, e non ti vergogni di far seco all’amore?

Paoluccio. Circa all’età, mi pare che ella sia in caso, non solo di fare all’amore, ma ancora di prendere marito.

Placida. Ma ciò non basta: vi vuole il fondamento per maritarsi.

Paoluccio. Non saprei. Tanti e tanti si sposano senza far niente, e pure vedo che non campano male. Io non vuò pensare a disgrazie. Sarà quel che sarà. [p. 458 modifica]

Placida. Sarà quel che sarà? Col semplice salario, che vi guadagnate in due, come fareste, se vi sopravvenissero de’ figliuoli? E se Don Berto vi licenzia di casa, come farà Paoluccio con la signora sposa? Ella ha far le calzette, ed egli il vagabondo per le contrade. Oh la bella figura che voi farete! Briccone, ti fideresti forsi della gioventù della moglie? Meriteresti di essere bastonato, se avessi queste massime. Trovati una buona dote, e poi maritati, se pure hai voglia di maritarti.

Paoluccio. Circa alla dote, signora, mi ha detto poco fa Rosina che ha cento zecchini d’oro.

Placida. Cento zecchini d’oro? come li può avere? Si seminano li quattrini? Cosa può guadagnare all’anno? Dodici scudi? O ella ruba al padrone; o te li promette per ingannarti. Lascia che io le parli, che senta un poco con qual fondamento lo dice. Non t’imbarcare così alla cieca. Sarà quel che sarà? Povero sciocco! Passano presto i furori del primo amore, e succede poi il pentimento, e si ci pensa, quando non vi è più tempo.

Paoluccio. Dice bene, signore. Veggo benissimo, che il matrimonio non fa per me, e se mai....

Placida. Guarda nell’anticamera, che mi pare di sentir gente.

Paoluccio. Subito. (Se almeno fossi certo dei cento zecchini, potrei dire, come dice il proverbio, un buon pasto e cento guai), (parte)

SCENA XII.

Donna Placida e poi Paoluccio.

Placida. Ecco quel che succede quando il padrone di casa non ha cervello. Tutti fanno alla peggio.

Paoluccio. È un certo signor Sigismondo, che desidera riverirla.

Placida. Venga pure, ch’è padrone.

Paoluccio. Credo che quel signore sia dilettante assai di pittura, osserva i quadri con una grande attenzione. Gli ho dimandato tre volte che cosa voleva, ed egli non mi ha risposto nè meno.

Placida. Doveva essere astratto. Egli patisce assaissimo le astrazioni. [p. 459 modifica]

Paoluccio. Fra tanto che egli esamina i quadri, vorrei dirle una cosa intorno a Rosina. Non vorrei, che parlandole si disgustasse.

Placida. No no. Le parlerò in maniera....

SCENA XIII.

Don Berto e detti.

Berto. Ma signora nepote, che novità è questa? Sempre si hanno da noi a vedere de’ visi nuovi? Se non ve l’ho detto prima, ve lo dico ora, in casa mia non voglio conversazione. Vi è una fanciulla da maritare.... e poi.... vi torno adire, non istà bene.... e in sostanza lo posso dire, perchè sono il padrone.

Placida. (Tutta opera di don Anselmo). Signore, quello che è venuto poche ore sono, era il mio avvocato; di lui non vi potete dolere.

Berto. Era l’avvocato dunque?

Placida. Sì certo; e non potrà venire da me l’avvocato, a dirmi quel che occorre intorno all’esecuzione della sentenza?

Berto. Bene, di lui non parlo; ma chi è quest’altro, che ora è venuto a domandare di voi?

Placida. È un cavaliere, ed era buon amico di mio consorte. Volete che io lo licenzi? Lo farò volentieri, se il comandate. Ma cosa gli dovrò dire? Mio zio non vi vuole? Mio zio, stravagante e severo, vuole obbligarmi a commettere delle inciviltà? Siete pur nato bene. Che concetto formerà la gente di voi? Per me ci penso pochissimo. Mi preme per voi, mi preme per il vostro decoro, per la vostra riputazione. Ma se così volete, così si faccia. Volete che io lo licenzi, o che lo faccia passare?

Berto. (Pensa un poco, e poi dice) Basta, fate quel che volete. (parte)

Placida. Povero uomo! Egli si lascia condurre come si vuole. Ero sicura, che mi diceva di sì. Introduci don Sigismondo.

Paoluccio. Sì signora. [p. 460 modifica]

SCENA XIV.

Donna Placida, e poi don Sigismondo; poi Paoluccio.

Placida. Don Anselmo va persuadendo mio zio a non lasciar venire nessuno, per cagione della fanciulla; direbbe bene, se egli non fosse il più pericoloso di tutti. Sono appunto per questo più che mai impegnata a dar stato a Luigia, e lo farò quanto più presto mi sarà possibile di farlo.

Sigismondo. ( Vien leggendo una lettera, senza avvedersi di donna Placida.)

Placida. Serva, don Sigismondo.

Sigismondo. Oh compatitemi, non vi avevo osservata. Stava leggendo una lettera, vi domando perdono.

Placida. Niente, signore; accomodatevi. (siedono)

Sigismondo. State bene di salute?

Placida. Benissimo per obbedirvi.

Sigismondo. Sta bene vostro consorte?

Placida. Mi domandate se egli sta bene, un anno dopo la di lui morte?

Sigismondo. Oh, dov’era io col capo? perdonate, vi prego, una piccola distrazione. Ho tanto la testa imbarazzata in liti, in affari, in imbrogli... (prende tabacco)

Placida. Certamente, un capo di casa ha sempre delle cose che lo disturbano. Anche io finora sono stata imbrogliatissima dalle liti, ma ora per grazia del cielo....

Sigismondo. Quei quadri che ho veduto nell’altra camera, sono del Tintoretto?

Placida. Non lo so, signore, non me ne intendo, e non mi ricordo di averlo sentito dire.

Sigismondo. Sono quattro bei pezzi. Non mi pare di averli più veduti in questa casa.

Placida. Ci siete stato altre volte qui da mio zio?

Sigismondo. Oh vè! Mi pareva ora di essere in casa di vostro marito. Era tanto mio buon amico, che non me lo posso scordare. Come vi conferisce l’abitazione novella? [p. 461 modifica]

Placida. Per ora vi sto benissimo, tanto più che ho il piacere di essere con mia germana.

Sigismondo. Appunto mi ricordo benissimo averla veduta qualche volta da voi. Che fa donna Placida? sta bene?

Placida. Io sto benissimo.

Sigismondo. Sì, lo vedo, me ne consolo; domandava di vostra sorella.

Placida. Mia sorella ha nome Luigia, e non Placida.

Sigismondo. È verissimo, ho confuso il nome. Segno evidentissimo che il mio cuore si ricorda spesso di voi.

Placida. (E pure questi sarebbe al caso per mia sorella. Vo’ vedere se mi riesce di mettergliela in grazia). (da sè)

Sigismondo. Prendete tabacco? (offerendolo)

Placida. Ne prendo qualche volta, ma non ne sono viziata. (ne prende una presa, e la tiene fra le dita)

Sigismondo. Che novità abbiamo delle guerre presenti? Oh, starete assai meglio in casa di vostro zio.

Placida. Certo, come io diceva, son contentissima di ritrovarmi con lui e con mia germana.

Sigismondo. Sentite questo tabacco, non è cattivo. (offerendolo)

Placida. Obbligata, ho ancora fra le dita quello che ho preso.

Sigismondo. Le novità del mondo mi dilettano estremamente.

Placida. Ed io, per dirla, ne sono indifferentissima.

Sigismondo. Come passate il tempo?

Placida. Finora sono stata occupata dalle mie liti.

Sigismondo. Sperate averne buon esito?

Placida. Non lo sapete, che ho guadagnata la causa?

Sigismondo. Ah sì, egli è vero. Don Fausto me l’ha detto. E un brav’uomo don Fausto, anche io mi servo di lui nelle cose mie. Volete tabacco? (offerendolo)

Placida. Obbligata: l’ho preso.

Sigismondo. Voleva dire, signora mia.... Vorrete restar vedova per molto tempo? Non crederei. Voi siete ancora nel fior degli anni. Non vi manca spirito, ne beltà, ne ricchezze. I giorni volano; e convien riflettere, che ogni dì che si perde, si perde [p. 462 modifica] un giorno di bene. Disse Ippocrate: Ars longa, vita brevis; ed il Petrarca, seguendo il sentimento del Greco autore, disse anch’egli: Lunga è l’arte d’amor, la vita è breve. Dunque se così dissero questi grand’uomini.... Non mi ricordo più di cosa si discorreva.

Placida. Voi principiaste a dirmi....

Sigismondo. Sì sì, ora me ne ricordo. Voleva dirvi, che dovreste sollecitare a nuovamente rimaritarvi.

Placida. Per ora non penso a questo. Vorrei dar stato a donna Luigia.

Sigismondo. Chi è donna Luigia?

Placida. Vi siete scordato sì prestamente....

Sigismondo. Eh, me ne ricordo benissimo. È vostra germana. Volete dunque dar stato a vostra germana?

Placida. Sì certo; ella mi sta nel cuore. È giovane di buona grazia, piena (non fo per dire) di ottime qualità. Ha dello spirito e della avvenenza, e quello che si calcola più di tutto, si è un fondo di bontà inesplicabile, ed una tale modestia, che quantunque ella abbia del talento non poco, non ne fa la menoma ostentazione. E non è poco, al dì d’oggi, trovare una fanciulla di garbo, non è egli vero, signore? (scuotendolo dall’astrazione)

Sigismondo. Son qui, signora mia; volete tabacco? Servitevi.

Placida. Che sì, che non avete capito niente di quello che fin ora vi ho detto?

Sigismondo. Perdonatemi. Ho sentito che avete principiato l’elogio della germana. Ma poi mi è venuto in mente un fattor di campagna, che mi ha rubato duemila scudi.... Per esaltare il merito della germana, bastava che mi diceste ch’ella somiglia a voi.

Placida. Oh, le farei troppo torto, se così dicessi. Ella mi supera di gran lunga in spirito e in avvenenza.

Sigismondo. È una cosa mirabile, sentire una sorella esaltare cotanto il merito d’un’altra. So di averla veduta, ma alla sfuggita; non ho avuto tempo di ammirare le qualità straordinarie, che voi le attribuite. Quasi, quasi vi pregherei... [p. 463 modifica]

Placida. Volete che io ve la facci vedere?

Sigismondo. Se non fosse soverchio ardire.... Servitevi di tabacco. (offerendolo)

Placida. Quante volte ve l’ho da dire?....

Sigismondo. Avete ragione. Sono un pazzo. Lo so che non ne prendete, non ve ne offerisco mai più.

Placida. Veggo mia sorella passar per quella stanza, volete che la chiami?

Sigismondo. Mi farete piacere.

Placida. Ehi. (chiamando)

Paoluccio. Signora.

Placida. Di’ a donna Luigia, che favorisca di venir qui.

Paoluccio. Vado subito per obbedirla. (parte)

Sigismondo. (Mostra di dire qualche cosa tra se medemo con astrazione, senza badare a donna Placida, poi tira fuori il taccuino, e vi scrive sopra col tocca lapis.)

Placida. (Eccolo lì, non si ricorda più nè meno ch’io vi sia).

Sigismondo. Quattro, e quattro otto, e sei quattordici, e sette ventuno. (scrivendo sul taccuino)

Placida. (Viene mia sorella, può essere che si risvegli).

SCENA XV.

Donna Luigia e detti.

Luigia. Son qui, sorella, che comandate?

Placida. Questo signore desidera di vedervi.

Sigismondo. Ventimila paoli fanno duemila scudi. (come sopra)

Luigia. Non mi bada nè meno. (a donna Placida)

Placida. Non lo sapete? è l’astratto.

Luigia. È una cosa veramente ridicola.

Placida. Per altro cosa vi pare del personale?

Luigia. Se devo dire la verità, mi piacerebbe più l’avvocato.

Placida. (Poverina, lo credo anch’io). Signore, non vi degnate nè meno di favorire? (a don Sigismondo) [p. 464 modifica]

Sigismondo. Povero me. Vi domando perdono. Sono servitore umilissimo della signora. Un certo conteggio mi aveva un poco occupato. Ringrazio donna Placida dell’onore che mi ha fatto. (tira fuori la scatola) Ella in fatti rende giustizia al merito della sorella. Servitevi. (offre il tabacco a donna Placida)

Placida. Un’altra volta?

Sigismondo. Ah! (arrabbiandosi da se stesso) Signora, ne comandate? (offerendolo a donna Luigia)

Luigia. Riceverò le sue grazie. (prende il tabacco)

Sigismondo. Vedete, signora mia? oltre gli altri pregi, ha quello ancora della compiacenza. (a donna Placida) Per dire il vero, non mi dispiace. (da sè, ponendosi a sedere)

Placida. (Si è posto a sedere senza dir altro). (a donna Luigia)

Luigia. (Mi pare un’inciviltà). (a donna Placida)

Placida. (Ohibò, l’ha fatto per astrazione). Sediamo anche noi. (siede)

Luigia. Sediamo pure. (siede)

Placida. Ecco qui don Berto con don Anselmo. (a Luigia)

Luigia. Povera me.

Placida. Non vi movete, lasciateli pur venire, sentirete se saprò condurmi a dovere.

Sigismondo. (Donna Luigia ha del merito, non si può negare). (da sè)

SCENA XVI.

Don Berto e detti, e don Anselmo che si fa un poco vedere in fondo alla scena.

Berto. Signora, una parola. (a donna Placida, alterato)

Placida. Don Sigismondo, ecco il signor zio, ecco il padrone di questa casa; ho piacere lo conosciate, mentre ritroverete in lui il più civile, il più amabile uomo di questo mondo. Ecco qui, avendo egli saputo che un cavaliere mi favorisce, è venuto per ringraziarvi. So che ei desia di conoscervi, e di far con voi il suo dovere: spero che quell’amore e quella stima, che aveste per mio marito, l’avrete ancora per lui. Senza ch’ei [p. 465 modifica] l’acconsenta, non mi è permesso ricever visite in questa casa, ma per voi ha tutta la venerazione che meritate, vi vede assai volontieri, brama la vostra amicizia, e vi supplica di venire frequentemente ad onorare la sua casa. (don Berto rimane incantato)

Sigismondo. Chi è questo signore? (a donna Placida, accennando don Berto)

Placida. (Ora mi farebbe venir la rabbia). Don Berto mio zio, non lo conoscete?

Sigismondo. Signore, vi ringrazio infinitamente, vi sarò buon amico e buon servitore. Gradisco le vostre cordialissime esibizioni, e mi prevalerò delle vostre grazie. Spiacemi di non poter restare. Ritornerò innanzi sera, e faccio tanto capitale del vostro buon cuore, che la vostra casa sarà la mia unica conversazione. (parte)

SCENA XVII.

Donna Placida, donna Luigia, don Berto, don Anselmo, come sopra.

Placida. Caro signor zio, vi ringrazio della vostra amabile condescendenza. Siete, non può negarsi, siete la stessa bontà, siete la cortesia medesima. Viva il vostro buon cuore, viva la vostra docilità; (e crepi quell’impertinente impostore). (da sè, indi parte)

Luigia. Se siete buono con tutti, siatelo ancor con me. Pensate a collocarmi; ma permettetemi che io vi dica in segreto, che nessuno senta, che un vecchio io non lo voglio. (finge voler dir piano, e lo dice forte, indi parte)

SCENA XVIII.

Don Berto e don Anselmo.

Berto. Don Anselmo. (chiamandolo dopo qualche momento)

Anselmo. Signore. (avanzandosi sdegnato)

Berto. Sentiste?

Anselmo. Ho sentito. [p. 466 modifica]

Berto. Cosa vi pare?

Anselmo. Siete un uomo di stucco.

Berto. Io?

Anselmo. Sì, voi. Siete una bestia... che il cielo me lo perdoni. (parte)

Berto. Chi tira per di qua, chi tira per di là. E io che cosa ho da fare? Oh, questa è bella davvero. Tutti mi fanno la grazia di dire che io sono il padrone. E all’ultimo che sono? la rima alla canzone. (parte)

Fine dell’Atto Primo.


Note