La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo LXI

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Libro primo
Capitolo LXI

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Di poi tre giorni appresso, un giovedí, venne a me dua camerieri di Sua Santità favoritissimi, che ancora oggi n’è vivo uno di quelli, ch’è vescovo, il quale si domandava misser Pier Giovanni, ed era guardaroba di Sua Santità; l’altro si era ancora di maggior lignaggio di questo, ma non mi sovviene il nome. Giunti a me mi dissono cosí: - Il Papa ci manda. Benvenuto: da poi che tu non l’hai voluta intendere per la via piú agevole, dice, o che tu ci dia l’opera sua, o che noi ti meniamo prigione -. Allora io li guardai in viso lietissimamente, dicendo: - Signori, se io dessi l’opera a Sua Santità, io darei l’opera mia e non la sua; e poi tanto l’opera mia io non gnene vo’ dare; perché avendola condotta molto innanzi con le mia gran fatiche, non voglio che la vada in mano di qualche bestia ignorante, che con poca fatica me la guasti -. Era alla presenza, quando io dicevo questo, quell’orefice chiamato Tobbia ditto di sopra, il quale temerariamente mi chiedeva ancora i modelli di essa opera: le parole, degne di un tale sciagurato che io gli dissi, qui non accade riplicarle. E perché quelli signori camerieri mi sollecitavano che io mi spedissi di quel che io volevo fare, dissi a loro che ero spedito: preso la cappa, e innanzi che io uscissi della mia bottega, mi volsi a una immagine di Cristo con gran riverenza e con la berretta in mano, e dissi: - O benigno e immortale, giusto e santo Signor nostro, tutte le cose che tu fai sono secondo la tua giustizia, quale è sanza pari: tu sai che appunto io arrivo all’età de’ trenta anni della vita mia, né mai insino a qui mi fu promesso carcere per cosa alcuna: da poi che ora tu ti contenti che io vadia al carcere, con tutto il cuor mio te ne ringrazio -. Di poi vòltomi ai dua camerieri, dissi cosí con un certo mio viso alquanto rabbuffato: - Non meritava un par mio birri di manco valore che voi Signori; sí che mettetemi in mezzo, e come prigioniero mi menate dove voi volete -. Quelli dua gentilissimi uomini, cacciatisi a ridere, mi messono in mezzo, e sempre piacevolmente ragionando mi condussono dal Governatore di Roma, il quale era chiamato il Magalotto. Giunto allui, insieme con esso si era il Procurator fiscale, li quali mi attendevano, quelli signor camerieri ridendo pure dissono al Governatore: - Noi vi consegnamo questo prigione, e tenetene buona cura. Ci siamo rallegrati assai, che noi abbiamo tolto l’uffizio alli vostri secutori, perché Benvenuto ci ha detto, che essendo questa la prima cattura sua, non meritava birri di manco valore che noi ci siamo -. Subito partitisi giunsono al Papa; e dettogli precisamente ogni cosa, in prima fece segno di voler entrare in furia, appresso si sforzò di ridere, per essere alla presenza alcuni Signori e Cardinali amici mia, li quali grandemente mi favorivano. Intanto il Governatore e il Fiscale parte mi bravavano, parte mi esortavano, parte mi consigliavano, dicendomi che la ragione voleva, che uno che fa fare una opera a un altro, la può ripigliare a sua posta, e in tutti i modi che allui piace. Alle quali cose io dissi, che questo non lo prometteva la giustizia, né un papa non lo poteva fare; perché e’ non era un papa di quella sorte che sono certi signoretti tirannelli, che fanno a’ lor popoli il peggio che possono, non osservando né legge né giustizia: però un Vicario di Cristo non può far nessuna di queste cose. Allora il Governatore con certi sua birreschi atti e parole disse: - Benvenuto, Benvenuto, tu vai cercando che io ti faccia quel che tu meriti. - Voi mi farete onore e cortesia, volendomi fare quel che io merito -. Di nuovo disse: - Manda per l’opera subito, e fa di non aspettar la siconda parola -. A questo io dissi: - Signori, fatemi grazia che io dica ancora quattro parole sopra le mie ragione -. Il Fiscale, che era molto piú discreto birro che non era il Governatore, si volse a il Governatore, e disse: - Monsignore, facciàngli grazia di cento parole; pur che dia l’opera, assai ci basta -. Io dissi: - Se e’ fussi qualsivoglia sorte di uomo che facessi murare un palazzo o una casa, giustamente potrebbe dire a il maestro che la murassi: “Io non voglio che tu lavori piú in su la mia casa o in su ’l mio palazzo”: pagandogli le sue fatiche giustamente ne lo può mandare. Ancora se fossi un signore che facessi legare una gioia di mille scudi, veduto che il gioielliere non lo servissi sicondo la voglia sua, può dire: “Dammi la mia gioia perché io non voglio l’opera tua”. Ma a questa cotal cosa non c’è nessuno di questi capi; perché la non è né una casa, né una gioia; altro non mi si può dire, se non che io renda e’ cinquecento scudi che io ho aúti. Sí che, Monsignori, fate tutto quel che voi potete, ché altro non arete da me, che e’ cinquecento scudi. Cosí direte al Papa. Le vostre minaccie non mi fanno una paura al mondo; perché io sono uomo da bene, e non ho paura de’ mia peccati -. Rizzatosi il Governatore e il Fiscale, mi dissono che andavano dal Papa, e che tornerebbono con commessione, che guai a me. Cosí restai guardato. Mi passeggiavo per un salotto: e gli stettono presso a tre ore a tornare dal Papa. In questo mezzo mi venne a visitare tutta la nobiltà della nazion nostra di mercanti, pregandomi strettamente che io non la volessi stare a disputare con un Papa, perché potrebbe essere la rovina mia. Ai quali io risposi, che m’ero risoluto benissimo di quel che io volevo fare.