La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo LXIX

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Libro primo
Capitolo LXIX

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Io mi trovavo innella mia borsa a caso un diamante, il quale mi venne mostrato in fra gli orefici: e se bene io ero giovane ancora, in Napoli io ero talmente conosciuto per uomo da qualcosa, che mi fu fatto moltissime carezze. Infra gli altri un certo galantissimo uomo gioielliere, il quale aveva nome misser Domenico Fontana. Questo uomo da bene lasciò la bottega per tre giorni che io stetti in Napoli, né mai si spiccò da me, mostrandomi molte bellissime anticaglie che erano in Napoli e fuor di Napoli; e di piú mi menò a fare reverenzia al Vicerè di Napoli, il quale gli aveva fatto intendere che aveva vaghezza di vedermi. Giunto che io fui da Sua Eccellenzia, mi fece molte onorate accoglienze; e in mentre che cosí facevamo, dètte innegli occhi di Sua Eccellenzia il sopra ditto diamante; e fattomiselo mostrare, disse, che se io ne avessi a privar me, non cambiassi lui, di grazia. Al quale io, ripreso il diamante, lo porsi di nuovo a Sua Eccellenzia, e a quella dissi, che il diamante e io eramo al servizio di quella. Allora e’ disse che aveva ben caro il diamante, ma che molto piú caro li sarebbe che io restassi seco; che mi faria tal patti, che io mi loderei di lui. Molte cortese parole ci usammo l’un l’altro; ma venuti poi ai meriti del diamante, comandatomi da Sua Eccellenzia che io ne domandassi pregio, qual mi paressi, a una sola parola, al quale io dissi che dugento scudi era il suo pregio a punto. A questo Sua Eccellenzia disse che gli pareva che io non fussi niente iscosto dal dovere; ma per esser legato di mia mano, conoscendomi per il primo uomo del mondo, non riuscirebbe, se un altro lo legasse, di quella eccellenzia che dimostrava. Allora io dissi, che il diamante non era legato di mia mano e che non era ben legato; e quello che egli faceva, lo faceva per sua propria bontà; e che se io gnene rilegassi, lo migliorerei assai da quel che gli era. E messo l’ugna del dito grosso ai filetti del diamante, lo trassi del suo anello, e nettolo alquanto lo porsi al Viceré; il quale satisfatto e maravigliato, mi fece una poliza, che mi fussi pagato li dugento scudi che io l’aveva domandato. Tornatomene al mio alloggiamento, trovai lettere che venivano dal cardinale de’ Medici, le quali mi dicevano che io ritornassi a Roma con gran diligenzia, e di colpo me ne andassi a scavalcare a casa Sua Signoria reverendissima. Letto alla mia Angelica la lettera, con amorosette lacrime lei mi pregava che di grazia io mi fermassi in Napoli, o che io ne la menassi meco. Alla quale io dissi, che se lei ne voleva venir meco, che io gli darei in guardia quelli dugento ducati che io avevo presi dal Viceré. Vedutoci la madre a questi serrati ragionamenti, si accostò a noi, e mi disse: - Benvenuto, se tu ti vuoi menare la mia Angelica a Roma, lassami un quindici ducati, acciocché io possa partorire, e poi me ne verrò ancora io -. Dissi alla vecchia ribalda, che trenta volentieri gnene lascierei, se lei si contentava di darmi la mia Angelica. Cosí restati d’accordo, Angelica mi pregò che io li comperassi una vesta di velluto nero, perché in Napoli era buon mercato. Di tutto fui contento; e mandato per il velluto, fatto il mercato e tutto, la vecchia, che pensò che io fossi piú cotto che crudo, mi chiese una vesta di panno fine per sé, e molt’altre spese per sua figliuoli, e piú danari assai di quelli che io gli avevo offerti. Alla quale io piacevolmente mi volsi e le dissi: - Beatrice mia cara, bastat’egli quello che io t’ho offerto? - Lei disse che no. Allora io dissi, che quel che non bastava a lei basterebbe a me: e baciato la mia Angelica, lei con lacrime e io con riso ci spiccammo, e me ne tornai a Roma subito.