La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo LXXXVIII

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Libro primo
Capitolo LXXXVII

../Capitolo LXXXVII ../Capitolo LXXXIX IncludiIntestazione 16 luglio 2008 75% Autobiografie

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Giunto che io fui a Roma, rallegratomi assai con li mia amici, cominciai la medaglia del Duca; e avevo di già fatto in pochi giorni la testa in acciaio, la piú bella opera che mai io avessi fatto in quel genere, e mi veniva a vedere ogni giorno una volta almanco un certo iscioccone chiamato messer Francesco Soderini; e veduto quel che io facevo, piú volte mi disse: - Oimè, crudelaccio, tu ci vuoi pure immortalare questo arrabbiato tiranno. E perché tu non facesti mai opera sí bella, a questo si cognosce che tu sei sviscerato nimico nostro e tanto amico loro, che il Papa e lui t’hanno pur voluto fare impiccar dua volte a torto: quel fu il padre e il figliuolo; guardati ora dallo Spirito Santo -. Per certo si teneva che il duca Lessandro fussi figliuolo di papa Clemente. Ancora diceva il ditto messer Francesco e giurava ispressamente, che, se lui poteva, che m’arebbe rubato que ferri di quella medaglia. Al quale io dissi che gli aveva fatto bene a dirmelo, e che io gli guarderei di sorte, che lui non gli vedrebbe mai piú. Feci intendere a Firenze che dicessino a Lorenzino che mi mandassi il rovescio della medaglia. Niccolò da Monte Agusto, a chi io l’avevo scritto, mi scrisse cosí, dicendomi che n’aveva domandato quel pazzo malinconico filosafo di Lorenzino; il quale gli aveva detto che giorno e notte non pensava ad altro, e che egli lo farebbe piú presto ch’egli avessi possuto: però mi disse, che io non ponessi speranza al suo rovescio, e che io ne facessi uno da per me, di mia pura invenzione; e che finito che io l’avessi, liberamente lo portassi al Duca, ché buon per me. Avendo fatto io un disegno d’un rovescio, qual mi pareva a proposito, e con piú sollecitudine che io potevo lo tiravo inanzi; ma perché io non ero ancora assicurato di quella ismisurata infirmità, mi pigliavo assai piaceri innell’andare a caccia col mio scoppietto insieme con quel mio caro Filice, il quale non sapeva far nulla dell’arte mia, ma perché di continuo, dí e notte, noi eramo insieme, ogniuno s’immaginava che lui fossi eccellentissimo ne l’arte. Per la qual cosa, lui ch’era piacevolissimo, mille volte ci ridemmo insieme di questo gran credito che lui si aveva acquistato; e perché egli si domandava Filice Guadagni, diceva motteggiando meco: - Io mi chiamerei Filice Guadagni - poco, se non che voi mi avete fatto acquistare un tanto gran credito, che io mi posso domandare de’ Guadagni - assai -. E io gli dicevo, che e’ sono dua modi di guadagnare: il primo è quello che si guadagna a sé, il sicondo si è quello che si guadagna ad altri; di modo che io lodavo in lui molto piú quel sicondo modo che ’l primo, avendomi egli guadagnato la vita. Questi ragionamenti noi gli avemmo, piú e piú volte, ma in fra l’altre un dí de l’Epifania, che noi eramo insieme presso alla Magliana, e di già era quasi finito il giorno: il qual giorno io avevo ammazzato col mio scoppietto de l’anitre e de l’oche assai bene; e quasi resolutomi di non tirar piú il giorno, ce ne venivamo sollecitamente in verso Roma. Chiamando il mio cane, il quale chiamavo per nome Barucco, non me lo vedendo innanzi, mi volsi e vidi che il ditto cane ammaestrato guardava certe oche che s’erano appollaiate in un fossato. Per la qual cosa io subito iscesi; messo in ordine il mio buono scoppietto, molto lontano tirai loro, e ne investi’ dua con la sola palla; ché mai non volsi tirare con altro che con la sola palla, con la quale io tiravo dugento braccia, e il piú delle volte investivo; che con quell’altri modi non si può far cosí; di modo che, avendo investito le dua oche, una quasi che morta e l’altra ferita, che cosí ferita volava malamente, questa la seguitò il mio cane e portommela; l’altra, veduto che la si tuffava adrento innel fossato, li sopraggiunsi adosso. Fidandomi de’ mia stivali ch’erano assai alti, spignendo il piede innanzi mi si sfondò sotto il terreno: se bene io presi l’oca, avevo pieno lo stivale della gamba ritta tutto d’acqua. Alzato il piede all’aria votai l’acqua, e montato a cavallo, ci sollecitavàno di tornarcene a Roma; ma perché egli era gran freddo, io mi sentivo di sorte diacciare la gamba, che io dissi a Filice: - Qui bisogna soccorrer questa gamba, perché io non cognosco piú modo a poterla sopportare -. Il buon Filice sanza dire altro scese del suo cavallo, e preso cardi e legnuzzi e dato ordine di voler far fuoco, in questo mentre che io aspettavo, avendo poste le mani in fra le piume del petto di quell’oche, senti’ assai caldo; per la qual cosa io non lasciai fare altrimenti fuoco, ma empie’ quel mio stivale di quelle piume di quell’oca, e subito io sentii tanto conforto, che mi dette la vita.