La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo LXXVII

Da Wikisource.
Libro secondo
Capitolo LXXVII

../Capitolo LXXVI ../Capitolo LXXVIII IncludiIntestazione 21 luglio 2008 75% Autobiografie

Libro secondo - Capitolo LXXVI Libro secondo - Capitolo LXXVIII

Di poi che io ebbi dato il rimedio attutti questi gran furori, con voce grandissima dicevo ora a questo e ora a quello: - Porta qua, leva là - di modo che, veduto che ’l detto migliaccio si cominciava a liquefare, tutta quella brigata con tanta voglia mi ubbidiva che ogniuno faceva per tre. Allora io feci pigliare un mezzo pane di stagno, il quale pesava in circa a 6o libbre, e lo gittai in sul migliaccio dentro alla fornace, il quale, cone gli altri aiuti e di legne e di stuzzicare or co’ ferri e or cone stanghe, in poco spazio di tempo e’ divenne liquido. Or veduto di avere risuscitato un morto, contro al credere di tutti quegli ignoranti, e’ mi tornò tanto vigore che io non mi avvedevo se io avevo piú febbre o piú paura di morte. Innun tratto ei si sente un romore con un lampo di fuoco grandissimo, che parve propio che una saetta si fussi creata quivi alla presenza nostra; per la quale insolita spaventosa paura ogniuno s’era sbigottito, e io piú degli altri. Passato che fu quel grande romore e splendore, noi ci cominciammo a rivedere in viso l’un l’altro; e veduto che ’l coperchio della fornace si era scoppiato e si era sollevato di modo che ’l bronzo si versava, subito feci aprire le bocche della mia forma e nel medesimo tempo feci dare alle due spine. E veduto che ’l metallo non correva con quella prestezza ch’ei soleva fare, conosciuto che la causa forse era per essersi consumata la lega per virtú di quel terribil fuoco, io feci pigliare tutti i mia piatti e scodelle e tondi di stagno, i quali erano in circa a dugento, e a uno a uno io gli mettevo dinanzi ai mia canali, e parte ne feci gittare drento nella fornace; di modo che, veduto ogniuno che ’l mio bronzo s’era benissimo fatto liquido, e che la mia forma si empieva, tutti animosamente e lieti mi aiutavano e ubbidivano; e io or qua e or là comandavo, aiutavo e dicevo: - O Dio, che con le tue immense virtú risuscitasti da e’ morti, e glorioso te ne salisti al cielo! - di modo che innun tratto e’ s’empié la mia forma; per la qual cosa io m’inginochiai e con tutto ’l cuore ne ringraziai Iddio; dipoi mi volsi a un piatto d’insalata che era quivi in sur un banchettaccio, e con grande appetito mangiai e bevvi insieme con tutta quella brigata; dipoi me n’andai nel letto sano ellieto, perché gli era due ore innanzi il giorno; e come se mai io non avessi aùto un male al mondo, cosí dolcemente mi riposavo. Quella mia buona serva, senza che io le dicessi nulla, mi aveva provvisto d’un grasso capponcello; di modo che, quando io mi levai del letto, che era vicino all’ora del desinare, la mi si fece incontro lietamente, dicendo: - Oh, è questo uomo quello che si sentiva morire? Io credo che quelle pugna e calci che voi davi annoi stanotte passata, quando voi eri cosí infuriato, che con quel diabolico furore che voi mostravi d’avere, quella vostra tanto smisurata febbre, forse spaventata che voi non dessi ancora allei, si cacciò a fuggire -. E cosí tutta la mia povera famigliuola, rimossa da tanto spavento e da tante smisurate fatiche, innun tratto si mandò a ricomperare, in cambio di quei piatti e scodelle di stagno, tante stoviglie di terra, e tutti lietamente desinammo, che mai non mi ricordo in tempo di mia vita né desinare con maggior letizia né con migliore appetito. Dopo ’l desinare mi vennono a trovare tutti quegli che mi avevano aiutato, i quali lietamente si rallegravano, ringraziando Iddio di tutto quel che era occorso, e dicevano che avevano imparato e veduto fare cose, le quali era dagli altri maestri tenute impossibili. Ancora io, alquanto baldanzoso, parendomi d’essere un poco saccente, me ne gloriavo; e messomi mano alla mia borsa, tutti pagai e contentai. Quel mal uomo, nimico mio mortale, di messer Pierfrancesco Ricci, maiordomo del Duca, con gran diligenzia cercava di intendere come la cosa si era passata; di modo che quei dua, di chi io avevo aùto sospetto che mi avessino fatto fare quel migliaccio, gli dissono che io nonnero uno uomo, anzi ero uno spresso gran diavolo, perché io avevo fatto quello che l’arte nollo poteva fare; con tante altre gran cose, le quali sarieno state troppe a un diavolo. Sí come lor dicevano molto piú di quello che era seguito, forse per loro scusa, il detto maiordomo lo scrisse subito al Duca, il quale era a Pisa, ancora piú terribilmente e piene di maggior maraviglie che coloro non gli avevano detto.