Lacrymae rerum

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Giovanni Prati

Olindo Malagodi 1878 Indice:Prati, Giovanni – Poesie varie, Vol. II, 1916 – BEIC 1901920.djvu sonetti Lacrymae rerum Intestazione 23 luglio 2020 25% Da definire

I miei versi Grillo (monologo)
Questo testo fa parte della raccolta XIV. Da 'Iside'
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III

LACRYMAE RERUM

Saltem si, rebus fractis, mthi nomina restant!

A voi, fior della terra, a voi, gioconde
stelle del cielo, i sogni e le speranze
della ridente gioventú son pari.
Se non che l’astro e il fior passano immuni
5da colpa e da castigo, e noi travaglia
pur giovinetti una tristezza arcana,
quando parliam col limpido pianeta
e colle rose.
Sulla verde cima
delle mie rupi, in margine a’ miei laghi,
10nel silenzio dell’ombra, oh, quante volte
piansi pur io fanciullo, il ciel mirando
pien di tremoli fochi o il sottoposto
pendio stellato di silvestri gigli
e di pervinche!
In veritá, si piange
15dunque nel mondo, e sin la primavera
ha le lacrime sue. Forse non solo

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piangon gli occhi dell’uom, ma la pupilla
pur dell’avida belva il pianto oscura.
Mai non vedesti, Elisa, un errabondo
20can, che ha smarrito il suo signor, corcarsi
malinconico in terra? o sotto l’ala
piegar la testa un povero augelletto
in gabbia d’òr? Dai perfidi spiragli
il bel verde de’ campi e il cielo ei guarda.
25e la perduta libertá sospira.
Tutte piangon le cose, e i petti affanna
ciò ch’è nato a perir.
Voi che venite,
pellegrini del mondo, a questa Roma,
non per recar nelle native terre
30qualche santo rosario od amuleto,
ma per chinarvi a interrogar la spoglia
dell’olimpico Lazio, il pianto vostro
colle rugiade dell’eterna luna
qui spargerete, e in qualche ermo cespuglio
35del Palatin la capinera al vento
Lineerá la sua nota.
Or io mi levo
sulle alture del Celio, e mentre l’óra
nei sacri mirti, come fa, si tace,
pellegrini del mondo, a voi favello:
40questa Roma di Dardano per molti
rischi di terra e mar, seco ha recato
colle ceneri d’ilio il suo destino.
Qua giunse larva nel pensier d’Enea,
e qua crebbe e regnò. L’arido bruco
45nel novilunio suo non altrimenti
fatto è farfalla. Un’intima possanza
trasfigura le cose, e dalla morte
nasce la vita, ed ambedue compagne

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van per la terra, aitar di maraviglie
50e di ruine.
Ma perpetuo il falco
garrisce al monte, ma s’abbraccia il sole
col perpetuo nettuno e col deserto,
mentre l’ora del Tuoni va piú veloce
che non la rota della sua fortuna
55senza ritorni.
Viriate, il prode
fulininator dai cantabri dirupi,
come passò? dov’è l’asta di Brenno?
dove il biondo chcrusco e l’implacato
cartaginese?
Io per le ripe indarno
60cerco Cesare nostro e le vestali
e i pontefici sacri. Odo il galoppo
del cavai d’Alarico, e penso e piango,
pellegrini del mondo insiem con voi!
Figlio d’Italia, in vetta alle nevose
65mie tirolesi balze ebbi la cuna
come il camoscio, e le varcai, cantando
fra’ miei vecchi pastori.
E ancor la squilla
delle mandre disperse alla boscaglia
nel cor mi suona, e dalle chiese alpestri
70gemere ascolto il passero solingo,
e rivedo le vie che i battaglioni
vider di Francia ed or sotto l’accesa
ferza canicular son traversate
dal fulmineo ramarro.
Agile e fresca
75allor ne’ polsi mi correa la vita
e nello spirto: allor caro soltanto
m’era il mio borgo, e mi parea piú noto

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che non il Tebro, ereditá di Giove,
il piú ignoto ruscel delle mie valli.
80Oggi, affranto le membra e misto il crine,
me condusser le Parche alla fatale
cittá d’Ascanio; ed ospite pensoso
odo dalle disfatte are il lamento
dei numi d’Asia, e porto, a quando a quando,
85sul Gianicolo sacro o l’Aventino
l’alte malinconie del di che fugge.