Ladin! 2007/2

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Silvana Schiavi Fachin

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Le minoranze linguistiche nella prospettiva dell’educazione plurilingue
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Le minoranze linguistiche nella prospettiva dell’educazione plurilingue

Silvana Schiavi Fachin

Sezion 1 • Articole Scientifiche

Premessa

Secondo i dati che ci fornisce la ricerca più accreditata (Grosejean 1982; Nettle & Romaine 2000) non esiste quasi paese al mondo nel quale il bilinguismo non sia presente e si stima che il numero dei soggetti che usano almeno due lingue corrisponda quasi alla metà della popolazione mondiale. Una delle urgenze dell’agenda europea nel campo della politica linguistica1 è quello di aumentare notevolmente il numero dei cittadini bilingui per riuscire ad accelerare, dopo aver abbattuto le frontiere fisiche, la mobilità dei lavoratori, degli studenti e dei turisti. Si ritiene inoltre che un’accresciuta competenza in almeno due lingue comunitarie2 favorisca le relazioni tra i diversi popoli che compongono il mosaico dell’Unione e lo sviluppo di quei sentimenti di comprensione e di rispetto che sono la garanzia più sicura per una pacifica coabitazione di genti con lingue, tradizioni culturali e visioni del mondo così diversificate.Sin dagli anni novanta, nella stragrande maggioranza dei documenti, delle raccomandazioni e delle risoluzioni delle istituzioni europee, è ricorrente il proposito di conseguire in Europa un’unità nella diversità.

La cornice di riferimento nella quale s’inserisce oggi la formazione dei cittadini d’Europa è quella dell’accordo di Lisbona. Nel 2000 gli Stati Membri firmarono un documento nel quale si legge: L’Unione ha (…) un nuovo obiettivo strategico (…) diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, (…)3 . Nel piano d’azione 2004-2006 della Commissione Europea4 troviamo un’af

1 Il settimo programma della Commissione Europea inviato al Consiglio d’Europa, al Parlamento Europeo, alla Commissione Europea per gli Affari Economici e Sociali e alla Commissione delle Regioni e recante il titolo A New Framework Strategy for Multilingualism pubblicato nel novembre del 2005 ed ora all’esame del Parlamento Europeo, contiene tutta una serie di azioni che dal 2007 al 2013 verranno promosse nel campo della ricerca, dell’educazione, dell’economia, dei servizi e dell’informazione per sostenere i progetti che negli stati membri verranno presentati per sostenere la diversità linguistica e culturale . In questo quadro, l’accrescimento delle competenze plurilingui rappresenta una delle priorità. 2 L’Europa non è infatti il continente che presenta una maggioranza di cittadini bilingui. Un sondaggio recente (cfr. l’Eurobarometro 63,4) mostra che solamente una metà dei cittadini dell’Unione riesce a sostenere una conversazione in almeno una lingua diversa da quella dello stato d’origine. Le percentuali variano a seconda degli stati e delle classi sociali. Mentre il 99% dei lussemburghesi, il 93% dei lettoni e dei maltesi e il 90% dei lituani usano almeno un’altra lingua oltre a quella d’origine, una larga maggioranza degli ungheresi (71%) dei britannici (70%), degli spagnoli, degli italiani e dei portoghesi (64% ciascuno) usano soltanto la lingua del loro stato. Gli uomini, i giovani e coloro che vivono nelle città parlano più frequentemente una lingua straniera delle donne, degli anziani e di coloro che vivono in campagna. 3 Consiglio europeo di Lisbona, marzo 2000. 4 Comunità europee, 2004, Promozione dell’apprendimento delle lingue e della diversità linguistica http: //europa.eu.int

fermazione di principio di fondamentale importanza e per la stretta correlazione che intrattiene con l’accordo di Lisbona e per il tema che andiamo sviluppando. A pagina 44 di questo documento si legge: Una delle chiavi del successo dell’Unione europea come economia basata sulla conoscenza è data dal modo in cui essa affronta la questione dell’apprendimento delle lingue. Se nel corso del decennio a venire essa saprà trattare altrettanto bene temi più vasti come la connessione tra lingua, cultura e diversità, sia la coesione interna che il ruolo dell’Unione nel mondo risulteranno rafforzati. Questo stesso documento affronta inoltre molto lucidamente le ragioni che sostengono la necessità e l’urgenza di agire sul fronte dell’apprendimento delle lingue. I popoli d’Europa formano un’unica Unione composta da un gran numero di nazioni, comunità, culture e gruppi linguistici diversi; si tratta di un’Unione costruita attraverso lo scambio paritario di idee e tradizioni e basata sulla reciproca accettazione di popoli con storie diverse e un futuro comune. Costruire una casa comune dove vivere insieme in armonia - senza rinunciare all’individualità e alla diversità di ciascuno - significa acquisire le capacità necessarie per comunicare efficacemente l’uno con l’altro e capirsi meglio.

Il fatto di apprendere e parlare altre lingue stimola gli apprendenti - giovani e meno giovani - ad aprirsi verso altre persone e ad iniziare a comprendere altre culture e visioni del mondo, attitudini essenziali in un mondo minacciato dal razzismo e dalla xenofobia. Nel 2005 l’Unione Europea ha vissuto l’allargamento più vasto della propria storia. La nuova Unione deve riuscire ad essere la patria di quasi cinquecento milioni di europei provenienti da ambienti etnici, culturali e linguistici diversi. Sarà ora più importante che mai che i cittadini siano in grado di capire i loro vicini e comunicare con loro. L’Unione europea sta dando vita a una società fondata sulla conoscenza. L’apprendimento di altre lingue migliora le facoltà cognitive e metacognitive generali, rafforza la comprensione della propria lingua materna, consolida la capacità di lettura e di scrittura e sviluppa le attitudini generali alla comunicazione5

. La capacità di comprendere e comunicare in altre lingue rappresenta oggi una delle competenze di base che i cittadini devono possedere se vogliono essere membri attivi della società europea.

Ho tracciato alcune coordinate per meglio sottolineare l’urgenza che abbiamo nel nostro paese di avviare una politica linguistica innovativa e lungimirante che sia in grado di rivitalizzare una pratica educativa - dalla prima età sino all’educazione degli adulti, ricorrente o permanente o continua - ora piuttosto in affanno, poiché imparare ad imparare rappresenta la via maestra, la scelta irrinunciabile per la costruzione di un nuovo genere di capitale - il capitale umano - che nella New Economy sta sempre più sostituendo il capitale finanziario e le risorse naturali. E non è un obiettivo irraggiungibile se un ampio numero di Stati Membri - la Svezia, la Finlandia, la Danimarca e l’Estonia, per fare solo qualche esempio, e paesi extra-europei, come la Cina e l’India, hanno da molto tempo posto al centro dei loro investimenti la ricerca e la formazione. E i risultati si vedono.

5 Bruck, Lambert e Tucker, 1974; Hakuta, 1986; Weatherford, 1986: le persone che conoscono più di una lingua superano i parlanti di una sola lingua in test di comprensione verbale e non verbale; Bamford e Mizokawa,1991: coloro che imparano un’altra lingua sono più bravi nella soluzione di problemi; Rosenbusch, 1995: la durata del tempo che una persona consacra allo studio di una lingua straniera è in correlazione diretta e positiva a livelli più alti di elaborazione cognitiva e metacognitiva.

22 Tornando all’argomento che mi sono proposta di trattare e cioè L’educazione plurilingue con lingue di minoranza (Plurilingual Education with Lesser Used Languages) l’assenza di una politica linguistica di dimensione europea è palpabile e gli scarsi risultati ottenuti dagli italiani nel settore della conoscenza e della competenza delle/nelle lingue emerge con particolare evidenza in tutti i sondaggi. Riporto come esempio un grafico tratto dall’Eurobarometro6 nel quale sono riportati i dati relativi alla capacità di intrattenere una conversazione in una lingua diversa dalla propria: Respondents able to participate in a conversation in another language than their mother tongue.

Tra i venticinque paesi che ora compongono l’Unione, l’Italia è al quartultimo posto. Con il 36% dei cittadini che dichiarano di saper conversare in un’altra lingua oltre alla lingua dello stato di appartenenza - impropriamente definita lingua materna - il nostro paese affianca il Portogallo e la Spagna ed è seguito soltanto dal Regno Unito col 30%, e dall’Ungheria col 29%. La vicina Slovenia è sesta con l’89% e l’Austria sedicesima col 59%. Se poi si considera che i sondaggi riflettono le opinioni degli informatori e non i comportamenti effettivi, un’osservazione più ravvicinata sull’uso della quattro abilità - capire, parlare, leggere e scrivere - rivelerebbe una realtà ancor più drammatica.

6 Rapporto dell’EUROBAROMETRO 63.4. Si veda http: //europa.eu.int/comm/public_opinion/ archives/eb/eb63/eb63_en.htm Respondents able to participate in a conversation in another language than their mother tongue % Country

Circa l’uso dell’italiano, il prof. Tullio De Mauro, in una recentissima intervista rilasciata al giornale L’Unità7 , riferendosi ai dati di un’indagine comparativa internazionale, sul campo, promossa dall’ufficio canadese delle statistiche educative diceva: In molti paesi è stato studiato il livello di literacy della popolazione tra i 14 e i 65 anni. L’Editore Armando ha pubblicato i dati italiani in Letteratismo e abilità per la vita, curato da Vittorio Gallina. Mi piacerebbe che giornalisti intellettuali e» decisori»politici e sociali leggessero questi dati. E ne riporta alcuni: Il 5% degli italiani non sanno decifrare lettere e cifre. Un terzo decifra brevi frasi e semplici numeri, ma a fatica. Un altro terzo fatica tanto, nel leggere, che con pio eufemismo viene definita a rischio di « illetteratismo « , cioè di analfabetismo. In larga misura sono persone che hanno non solo la licenza elementare o media, ma anche titoli superiori, e che dallo stile di vita dominante sono stati spinti a non saper più leggere una pagina, un grafico, una tabella.

Tra tutti i paesi sviluppati, l’Italia è l’unico ad avere una percentuale così miserevole, circa il 30% di persone capaci di utilizzare senza fatiche improbe giornali o libri. La massa enorme di non leggenti pesa negativamente sul destino scolastico dei figli e sul lavoro che la scuola fa in solitudine. L’intera classe dirigente, non solo i politici, dovrebbe vedere nell’uscita dal semianalfabetismo collettivo una condizione preliminare di sviluppo. La scuola ordinaria dovrebbe essere integrata da una decente istruzione permanente degli adulti. Una lunga citazione ma non avrei potuto trovare parole più efficaci e autorevoli per tracciare le coordinate di uno scenario che anche per la lingua italiana ci presenta una situazione davvero deprimente e sconfortante. Se aggiungiamo il triste abbandono in cui versano, fatte salve le rare eccezioni, le lingue e le culture delle dodici minoranze linguistiche storiche nel nostro paese anche dopo l’approvazione della legge di tutela - la l. 482/99 - il quadro si tinge di tinte ancor più fosche. Le norme della legge non trovano infatti piena applicazione né nella scuola né negli altri ambiti - la stampa, la radio e la televisione, la pubblica amministrazione - contemplati dalla legge come luoghi preposti alla loro promozione e alla loro valorizzazione.Dopo oltre un lustro la scuola, ad esempio, fatica ad accoglierle a pieno titolo nel curricolo.

La conoscenza di una lingua non esclude, da parte della stessa persona, il possesso di altre lingue purché il soggetto venga posto nelle condizioni adeguate per impararle. E gli apprendimenti linguistici non domandano né particolari facoltà cerebrali, né processi mentali diversi da quelli che sono necessari per impararne una (Paradis 1980 ). Un fatto che, come si può immaginare, presenta un grande interesse nella ricerche di tipo cognitivo cioè nelle ricerche che si occupano della conoscenza: come si forma, come viene immagazzinata e come viene utilizzata. Da molto tempo i ricercatori hanno constatato che i soggetti bilingui posseggono una flessibilità e una plasticità cognitiva di gran lunga maggiori che non quelle possedute dai monolingui. E hanno potuto provarlo sulla base della migliore qualità delle prove verbali ottenute, sulla formazione dei concetti e dei ragionamenti complessivi, sulla scoperta delle regole che sottendono la soluzione di un problema così come nella soluzione di compiti che richiedevano la capacità di distanziarsi dalla lingua e di riflettere sui meccanismi del suo funzionamento. Hanno osservato che questa plasticità cognitiva non è una qualità innata ma il risultato dell’imparare ad imparare (Cummins 1978 ). I bilingui 7 Si veda su L’Unità di mercoledì 9 novembre 2006 , l’intervista di Roberto Cotroneo , pagina 9. riescono inoltre a superare facilmente i confini che la diversità linguistica frappone tra le persone. E’ dunque comprensibile che uno dei più grandi linguisti del secolo scorso - Roman Jakobson - abbia ritenuto lo studio del bilinguismo il capitolo centrale della linguistica.

Alcuni chiarimenti terminologici

I termini e le espressioni relative al settore non si sono ancora del tutto stabilizzati e ingenerano spesso false interpretazioni. Le stesse istituzioni europee usano i termini multilinguismo e plurilinguismo in maniera diversa. In un documento recente8

che presenta gli obiettivi e le azioni che la Commissione Europea inserirà nel settimo

programma (2007 - 2013) per promuovere e sostenere la diversità linguistica e culturale, a pagina 3 si legge: Il multilinguismo si riferisce sia alla capacità di una persona di usare più lingue, sia alla coesistenza di diverse comunità linguistiche in una stessa area geografica.

Diversa e più accurata è la definizione dei termini che troviamo in uno delle più importanti pubblicazioni del Consiglio d’Europa degli ultimi anni nel campo delle lingue9

nella quale si trova anche una importante descrizione della natura della competenza

plurilingue, una concezione che apre nuove e innovative prospettive in tutto il settore degli apprendimenti e degli insegnamenti linguistici e inserisce a pieno titolo le lingue native - materne, regionali e minoritarie - nel processo di educazione plurilingue. Alla domanda: Che cosa s’intende con «plurilinguismo? A pagina 5 e 6 del Quadro comune di riferimento troviamo la seguente definizione: Negli ultimi anni nell’approccio del Consiglio d’Europa all’apprendimento linguistico ha assunto importanza sempre maggiore il concetto di plurilinguismo. Il plurilinguismo non coincide con il multilinguismo, che consiste nella conoscenza di un certo numero di lingue o nella coesistenza di diverse lingue in una determinata società. Si può realizzare il multilinguismo semplicemente diversificando l’offerta linguistica in una scuola o in un sistema scolastico, o incoraggiando gli allievi a studiare più di una lingua straniera, oppure riducendo la posizione dominante dell’inglese nella comunicazione internazionale. Oltre a ciò, l’approccio plurilingue mette l’accento su un fatto e cioè, man mano che l’esperienza linguistica di un individuo si estende dal linguaggio domestico del suo contesto culturale a quello più ampio della società e poi alle lingue di altri popoli (è indifferente che ciò avvenga per apprendimento scolastico o per esperienza diretta ), queste lingue e queste culture non vengono classificate in compartimenti mentali rigidamente separati; anzi, conoscenze ed esperienze linguistiche contribuiscono a formare la competenza comunicativa, in cui le lingue stabiliscono rapporti reciproci e interagiscono. A seconda della situazione, ci si può affidare con flessibilità alle diverse componenti di questa competenza 8 Commissione delle Comunità Europee, Bruxelles 22.11.2005, A New Framework Strategy for Multilingualism. 9 Council of Europe, 2001. Common European Framework for Languages: Learning, Teaching, Assessment, Modern Language Division, Strasbourg - Cambridge: Cambridge University Press, pp. 260. Traduzione in friulano, 2004. Cuadri comun European di riferiment pes lenghis: aprendiment, insegnament, valutazion. Udin: Consorzi Universitari dal Friûl, pp. 174.

per entrare efficacemente in comunicazione con un determinato interlocutore. Per esempio, gli interlocutori possono passare da una lingua o da una varietà linguistica ad un’altra, sfruttando così la capacità di ognuno di loro di esprimersi in una lingua e di comprendere l’altra. Un individuo può ricorrere alla propria conoscenza di più lingue per attribuire significato a un testo, scritto o anche parlato, in una lingua a priori « sconosciuta «, riconoscendo, in una nuova forma, parole che appartengono a un « deposito» lessicale comune tra più lingue. Chi ha qualche conoscenza, anche minima, può usarla per facilitare la comunicazione tra chi non ne ha, mediando tra persone che non hanno una lingua in comune.

Da questo punto di vista la finalità dell’educazione linguistica si è profondamente modificata. Non si tratta più semplicemente di acquisire la « padronanza»di una, due o anche tre lingue, ciascuna presa isolatamente, avendo come modello finale il « parlante nativo ideale «. La finalità consiste invece nello sviluppare un repertorio linguistico in cui tutte le capacità linguistiche trovino posto. Ciò implica, ovviamente, che l’offerta linguistica delle istituzioni scolastiche sia diversificata e dia agli studenti l’opportunità di sviluppare una competenza plurilingue. Inoltre, una volta presa coscienza che l’apprendimento linguistico si sviluppa in tutto l’arco della vita, diventa di fondamentale importanza che i giovani acquisiscano motivazione, capacità e sicurezza per affrontare nuove esperienze linguistiche fuori della scuola. Le responsabilità delle autorità scolastiche, degli organismi esaminatori e degli insegnanti non possono essere semplicemente limitate al raggiungimento di un determinato livello di competenza in una certa lingua in un certo momento, per quanto ciò sia indubbiamente importante.

Il cuore della definizione sta nella contrapposizione di due modelli di competenza bi-plurilingue: quello separato e quello comune o unificato: Jim Cummins (1996) definisce il primo The Separate Underlying Proficiency (S.U.P. )Model of Bilingual Proficiency e il secondo The Common Underlying Proficiency (C.U.P.)Model of Underlying Proficiency. Secondo il primo modello, l’apprendente costruisce competenze diverse nelle diverse lingue e che i contenuti e le abilità che possiede in una L1, ad esempio, si riferiscano alla prima lingua e abbiano poca influenza nella maturazione della competenza in un’altra lingua e che la L2, a sua volta, si costruisca in maniera indipendente. E’ ovvio che questa visione delle cose, che è la più corrente, consideri il tempo e le energie impiegate nell’apprendimento della L1, soprattutto allorquando si tratta di una piccola lingua, di una delle lingue meno diffuse, uno spreco e talvolta, lo sappiamo, un impedimento al pieno e rapido possesso della lingua dell’istruzione e/o della lingua straniera. Un tempo perduto, sottratto a cose di maggiore peso e importanza. Una visione che è ancora prevalente nelle nostre scuole e che, questa sì, si trasferisce alle famiglie e alla società.

L’evidenza empirica mostra però che una rilevante parte dei nuclei concettuali e delle abilità si trasferiscono da una lingua all’altra nei loro aspetti più profondi e generali anche quando le manifestazioni superficiali appaiono differenziate. Jim Cummins definisce tale passaggio, principio della interdipendenza linguistica (the Linguistic Interdependence Principle)e così lo descrive: Nella misura in cui l’istruzione in una LX promuove effettivamente ed efficacemente una competenza nella LX, si verificherà un trasferimento di questa competenza nella LY soltanto nel caso in cui l’esposizione alla LY sarà adeguata (a scuola o nell’ambiente )e se il soggetto è motivato ad imparare la LY, p. 111.

Ricorrendo ad un esempio concreto, il principio ci dice che se in un programma di ladino- italiano (o di friulano - italiano), la lettura e la scrittura vengono praticate in modo appropriato in ladino (o in friulano ), il soggetto non impara soltanto a leggere e a scrivere in questa lingua, ma sviluppa una competenza linguistica e concettuale più profonda che attiene al processo di alfabetizzazione tout court che sottende anche alla lettura e alla scrittura in italiano e, per una molteplicità di aspetti, anche alla lingua straniera, almeno a quelle appartenenti ai sistemi delle principali lingue occidentali. In altre parole, anche se ciò che emerge alla superficie (pronuncia, forme grammaticali e sintattiche, vocaboli, ecc.) si manifesta in maniera diversa nelle diverse lingue, nella struttura profonda esiste una capacità di apprendimento che attraversa le lingue. Questa trasferibilità si manifesta più di frequente dalla lingua italiana alla lingua minoritaria perché la lettura e la scrittura sono generalmente più praticate dai soggetti nella lingua dominante sia dentro la scuola che nella comunicazione esterna.

Il leggere e scrivere in una lingua minoritaria non gode infatti dello stesso prestigio e della stessa considerazione.

A conclusione di questo ragionamento, il più alto livello di competenza della lettura e della scrittura nella lingua italiana non dipende tanto dalla effettiva pratica che il soggetto fa in tale lingua, ma dalle conoscenze e dalle abilità che gli allievi hanno immagazzinato nel loro cervello.

Un secondo chiarimento terminologico riguarda i termini lingua materna, lingua seconda e lingua straniera.

Il termine tradizionale di lingua materna o L1 è ancora molto diffuso anche se il ruolo della madre non è più considerato come esclusivo nello sviluppo del primo linguaggio. Gli studi sul linguaggio infantile hanno infatti posto nella giusta luce tutti gli apporti che al suo sviluppo dà tutto l’ambiente circostante: dai nonni, dai parenti, dai coetanei e, più recentemente, dalle baby-sitters , dalle animatrici degli asili nido e via elencando. Tutti questi ‘comunicatori’ forniscono al bambino modelli linguistico - comunicativi che accompagnano la verbalizzazione primaria e secondaria, quel percorso straordinario e unico che il bambino compie da 0 ai sei anni e oltre. Un cammino che lo porterà ad impadronirsi di una strumentazione molto complessa di tipo non verbale come il linguaggio del corpo, la mimica e il gesto, la modulazione della voce. E, più tardi, del linguaggio verbale che gli servirà per mettersi in relazione col mondo circostante, per scoprirlo, per conoscerlo. Lo studio dell’ambiente entro il quale questa prima lingua si sviluppa è dunque di fondamentale importanza non soltanto perché è questo ambiente che imporrà in definitiva la lingua (o le lingue nel caso di un ambiente bilingue)che il bambino userà.

Una lingua seconda - L2 (vedi H. Dulay, M. Burt, S. Krashen, 1982)può entrare a far parte del repertorio nativo del bambino allorché la acquisisce insieme alla L1 in maniera spontanea nell’ambiente naturale della famiglia e/o del gruppo o gli viene insegnata a scuola, In questo secondo caso il bilinguismo viene definito di tipo successivo. Si tratta comunque di una lingua usata come strumento vivo di comunicazione in ambito privato o pubblico. Se parliamo , per esempio dell’italiano L2, essa riveste lo status di lingua dominante, di prestigio, usata nella stragrande maggioranza dei mezzi di comunicazione orale e scritta e come lingua dell’istruzione. Ciò significa che l’apprendente trova moltissime risorse nell’ambiente socio-culturale per alimentarla, espanderla e rafforzarla e il processo di apprendimento, se ben guidato, può svilupparsi con maggiore rapidità ed efficacia. In molte aree d’Italia, sia la lingua minoritaria che l’italiano hanno il ruolo di seconde lingue, ma gli ambiti d’uso delle lingue minoritarie (ladino, friulano, sardo, ecc.) risultano sempre piuttosto limitati.

Ciononostante, come lingue dell’ambiente, hanno molte potenzialità d’uso che la scuola purtroppo continua ad ignorare. Apprendere una lingua straniera (LS )è impresa molto diversa. Vengono di solito apprese in situazione formale, cioè come materie d’insegnamento, in condizioni comunicative artificiose , lontane dalla naturalezza dello scambio . Anche gli insegnanti più qualificati che ricorrono a strategie comunicative simulate, servendosi di buoni supporti glottodidattica, faticano spesso a mantenere alta la motivazione all’uso della lingua , specialmente con i più piccoli che hanno poca autonomia per trovare , fuori dall’aula, occasioni per rinforzare ciò che hanno appreso nelle attività scolastiche.

Il bilinguismo nativo

Abbiamo già richiamato l’attenzione sulle situazioni molto frequenti nelle quali il bambino è esposto a più di una lingua nel suo ambiente familiare o comunitario. A dire la verità, una scuola di pensiero definisce bilingue soltanto il soggetto che acquisisce in maniera naturale due lingue entro una certa età, prima di entrare in prima elementare. Dopo l’incontro con la scuola e la prima alfabetizzazione, dopo l’apprendimento della lettura e della scrittura secondo questa corrente di pensiero, il processo assume altri caratteri, perché la seconda e la terza lingua risulterebbero molto influenzate dalla lingua di partenza, soprattutto per gli aspetti che riguardano la pronuncia.

La facilità con cui i bambini si impossessano di più lingue è stata oggetto di molte ricerche ed è stata l’oggetto di molti casi di studio soprattutto a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo. Si dice che il bambino, sin dalla fase neonatale, possiede una grande sensibilità per i suoni della lingue. Tuttavia, come afferma Claude Hagège (1996): Mais il se produit assez tôt une perte rapide de ces richesses héréditaires. En effet, s’il est vrai que les aptitudes inscrites dans son code génétique son très vastes, il est aussi vrai, néanmoins, que la pression du milieu est très puissante. On constate que dans la période située entre six et dix a douze mois, les capacités distinctives de l’enfant commencent a décroître. Il esiste des oppositions sonores qu’il n’entend pas dans son milieu, pour la simple raison que la langue qui s’y parle ne les connaît pas. Ces oppositions deviennent de moins en moins sensibles à son oreille.Cette récession s’explique probablement par le fait que l’absence de stimuli dans l’environnement induit une sclérose des synapses qui leur correspondent.

I neurobiologi in effetti parlano di una stabilizzazione selettiva delle sinapsi. Ciò mostrerebbe l’importanza fondamentale che l’ambiente gioca nell’influenzare il nostro orecchio e di conseguenza la nostra pronuncia. La plasticità del cervello umano infatti subisce col tempo un processo di sclerosi se le capacità funzionali native non vengono stimolate. Questa cosi chiamata fase critica va dai sette mesi, momento che, secondo i neurofisiologi, presenta i primi segni delle capacità distintive presenti nei primi mesi di vita, ai dieci- undici anni. La perdita che può essere in buona parte compensata se il cervello riceve buoni stimoli, diventa irreversibile nel tempo. Ciò non significa che dopo i dieci - undici anni non si possano imparare altre lingue; significa in particolare che la pronuncia della lingua nativa influenzerà sempre molto le lingue successive e che il soggetto le userà con un marcato accento straniero (non native ).

Si legge nella storia della linguistica che Roman Jakobson sapesse ben dieci lingue ma che le declinasse tutte in russo cosicché , si dice, parlasse russo in dieci lingue! Il processo di sclerosi non pregiudica tuttavia l’apprendimento di altre parti del sistema, come il lessico o le strutture morfosintattiche.

La grande attenzione che le istituzioni europee hanno per l’apprendimento plurilingue precoce - tre lingue sin dalla tenera età - poggia anche sui dati di queste ricerche nonché sui risultati delle buone pratiche, delle esperienze cioè che hanno ottenuto significativi livelli di competenza in due o tre lingue già alla fine della scuola primaria. Anche in Friuli abbiamo condotto progetti -pilota di grande qualità e interesse sin dagli anni ottanta che hanno interessato le scuole dell’infanzia ed elementari della minoranza friulana, germanofona e slovenofona.

Come avviare il processo di educazione bi-plurilingue

Lo scenario che qui prendiamo in considerazione è quello dei bambini che nascono e crescono in un ambiente multilingue o perché nati in famiglie miste in cui la madre e il padre parlano lingue diverse o perché la lingua della casa è diversa da quella dominante e dell’istruzione. Per aiutare l’apprendente a tenere le lingue separate e ad operare quel cambio di lingua (code - switching)che spesso il parlante opera col mutare dell’interlocutore e che si manifesta precocemente nei bambini bilingui , bisognerebbe applicare il cosiddetto principio di Ronjat sia nell’ambiente familiare che a scuola . Ronjat, in un lavoro del 1913, che possiamo considerare come il testo fondativi degli studi sul bilinguismo infantile, suggeriva una regola molto semplice: ai genitori parlanti lingue diverse suggeriva di rivolgersi costantemente al bambino nella propria L1. Il principio una persona - una lingua andrebbe realizzato anche a scuola , non soltanto raccomandando agli insegnanti di usare sempre o il ladino o l’ italiano o il tedesco, ecc. in tutte le attività della scuola, ma invitando anche il personale che ha rapporti con i bambini (i dirigenti, i bidelli, gli autisti dell’ autobus, i visitatori, ecc. )a scegliere la lingua con la quale comunicare con loro in ogni occasione .

L’identificazione di una lingua con una persona infatti sostiene efficacemente il bambino nel tenere le lingue separate, un processo che avviene lentamente ed è connesso con la crescita del livello di competenza in tutte due le lingue. Durante una prima fase si può infatti osservare nei bilingui una tendenza alla produzione di una lingua ibridata con parole o espressioni fortemente ‘contaminate’. Le interferenze che tanto impensieriscono genitori e insegnanti, sono dunque un passaggio naturale e gli errori vengono definiti come errori di sviluppo (developmental errors). Tali errori non andranno stigmatizzati per non frenare il desiderio di comunicare e sostenere quella strategia comunicativa che li induce a rischiare con la lingua (risk - taking strategy) senza il timore di essere sanzionati. L’intervento ‘correttivo’ potrà realizzarsi rimodellando la parola o l’espressione e soprattutto immergendoli in un ambiente comunicativo stimolante e coinvolgente per far fare loro continue esperienze di gioco, di sfide cognitive, di scoperta e di appagamento emotivo ed estetico. Così vivranno la lingua e con la lingua con gioia, con interesse e con profitto.

Una modalità molto fruttuosa ancorché poco praticata nel nostro paese è quella che va sotto il nome di CLIL (Content and Language Integrated Learning) che integra cioè la lingua e il contenuto e che applica correttamente le indicazioni contenute nell’art. 4 della L. 482/99 che prescrivono l’uso della lingua come strumento di insegnamento vale a dire l’uso veicolare delle lingue. Ciò significa che tutti i contenuti disciplinari del curricolo - la storia, la geografia, l’aritmetica, le scienze, l’educazione fisica e ambientale o alimentare, la religione ecc. - possono (anzi debbono) essere insegnati usando le lingue - native, seconde, straniere - presenti nel curricolo. Così la matematica, ad esempio, potrebbe essere insegnata parte in ladino, parte in italiano e parte nella lingua straniera, progettando moduli gradualmente più complessi per adeguarli ai concreti livelli di competenza nelle diverse lingue raggiunti dagli apprendenti.

Questa modalità chiama gli insegnanti a lavorare in squadra (team working) nella fase di progettazione e ad insegnare insieme (team teaching o in compresenza) ogniqualvolta sia possibile. Questa maniera di far scuola, molto innovativa rispetto alla scansione in ore separate di ladino, italiano, di tedesco e di inglese aumenterebbe inoltre il tempo di esposizione alle diverse lingue e permetterebbe di procedere costantemente in maniera contrastiva o comparativa delle lingue e delle culture. Una maniera di procedere che pone le basi per avviare una concreta educazione interculturale.

Conclusioni

Se pensiamo che il pluralismo linguistico e culturale, che è una caratteristica strutturale di pressoché tutte le società umane, debba essere mantenuto e sviluppato e che vada combattuta la tendenza alla semplificazione e all’omologazione per il tramite di un’educazione plurilingue e interculturale, è verso le giovani generazioni che ogni nostro sforzo va indirizzato: di genitori, di intellettuali, di insegnanti, di responsabili istituzionali, di cittadini. Un plurilinguismo non soltanto concepito per fini .pratici, utilitaristici e pragmatici, ma nella prospettiva di permettere a umani sempre più consistenti la possibilità di capire e di usare una pluralità di lingue per il proprio arricchimento culturale e per una crescita intellettuale e sociale. In questa prospettiva, la realtà e la potenzialità presenti in molte famiglie, nei tanti borghi, nei tanti paesi e in tutte le regioni di questa Italia delle Italie10 sono un campo ideale e produttivo per avviare in maniera corretta ed effettiva il processo di educazione in diverse lingue. Ed è questa la prospettiva che pone le lingue meno diffuse oltre le nozioni di tutela, di salvaguardia e di valorizzazione di un patrimonio prezioso, ma le mette al centro di un processo formativo di conoscenze e di competenze che investono tutti i cittadini e soprattutto i cittadini di domani. (…) occorre, ha scritto De Mauro (1987 ), che la politica culturale possa e sappia partire dalle realtà e potenzialità ambientali, sappia far leva sulle concrete, reali, divergenti esigenze vitali esistenti negli individui nel territorio, nelle società regionali e locali, non per irrigidire tali realtà e potenzialità, ma per metterle a contatto e confronto, aprendole dunque alla possibilità di nuove acquisizioni, di più complesse articolazioni. 10 Tullio De Mauro, 1987. L’Italia delle Italie, Roma, Editori Riuniti, pp. 365. 30

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