Ladin! 2010/1

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Luigi Guglielmi

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I dialetti ladini bellunesi e i limiti della dialettometria - A proposito dell’articolo di Roland Bauer
Ladin! 2010 2

Luigi Guglielmi

dolomites@libero.it

I dialetti ladini bellunesi e i limiti della dialettometria

A proposito dell’articolo di Roland Bauer


1. La classificazione linguistica “qualitativa”. Ricordo di Alberto Zamboni Poche settimane fa ci ha lasciati il linguista Alberto Zamboni. Aveva raccolto il testimone della cattedra di Glottologia di Giovan Battista Pellegrini, all’Università di Padova.

La perdita riempie di nostalgia chi ha frequentato il Dipartimento di linguistica patavino, perché con Zamboni se n’è andato un altro testimone di un modo di fare linguistica assolutamente ancorato ai fatti, libero da condizionamenti o pregiudizi e privo della prospettiva di qualsiasi tornaconto. Pellegrini sempre e con vigore aveva cercato di trasmettere quella “postura retta” a tutti i suoi allievi. L’osservazione, la ricerca, lo studio: null’altro deve portare ai risultati; i fatti linguistici, colti in un’ottica multidisciplinare, devono avere la prima e l’ultima parola; e in mezzo possono stare soltanto considerazioni tecniche ragionevoli e scientificamente fondate, senza spazio per fantasie suggestive e men che meno strizzate d’occhio ad attese populistiche o servigi alla politica. In questo suo modo di procedere, perfino rude, Pellegrini si dimostrava vero montanaro! Zamboni era stato testimone di questo stile nel guardare alla realtà, e aveva ereditato dal maestro la passione per la ricerca sul campo: lo studio dei fatti lessicali e fonetici prima di tutto, la raccolta e l’analisi dei reperti prima delle congetture, e prima che spariscano “i testimoni”, i relitti dei dialetti che cambiano continuamente, ma oggi più veloci che mai.

Con questo metodo Zamboni pubblicò, ancora parecchi anni fa, un importante manuale descrittivo dei dialetti del Veneto. Poche chiacchiere, tantissimi fatti: quel libro, pienamente valido ancor oggi, disegna i confini tra parlata e parlata (per quanto sia difficile farlo, in una situazione di perfetto continuum romanzo), e lo fa mettendo attentamente a confronto le evidenze linguistiche della nostra regione. Occorre notare che allora - era il 1980 - dovevano ancora uscire molti dei vocabolari che oggi descrivono quasi minuziosamente la situazione linguistica dell’alto Veneto: eppure la ricchezza del confronto lessicale, fonetico e morfologico operato da Zamboni è vistosa, in perfetto stile “pellegriniano”. Soprattutto l’attenzione alla diacronia (cioè all’evoluzione dei fatti linguistici nel tempo) ci riporta direttamente al grande linguista di Cencenighe Agordino e al suo insegnamento: è la lettura storica dei fenomeni oggi visibili che consente di tessere una trama credibile di relazioni e parentele. La linguistica storica propone un ritratto “ponderato”, diverso da quello che farebbe una semplice “fotografia istantanea”: perché una descrizione “quantitativa” e limitata solo al presente, per quanto buona e utile, potrebbe risultare superficiale e perfino fuorviante se non affiancata da un’attenta lettura delle dinamiche storiche. È il rischio che si corre, per esempio, quando si analizzano le situazioni linguistiche delle Dolomiti, area di forte - ma al suo interno molto differenziata - conservazione, territorio che, se preso di per se stesso, così com’è oggi, può far pensare ad un mondo a sé stante rispetto alla pianura. Ma l’osservazione acuta, interdisciplinare e “verticale” (in senso storico), attraverso la comparazione “qualitativa” dei fenomeni ne spiega le articolazioni interne e lo rivela pieno di relazioni con le vicine aree ugualmente romanze. Ciò, ovviamente, ponendosi a guardare verso sud, perché a nord il confine è invece netto: c’è il tedesco.

2. Limiti delle classificazioni linguistiche “quantitative”

Tra gli strumenti che oggi consentono una buona “fotografia istantanea” sono sicuramente preziose le indagini dialettometriche realizzare da Roland Bauer, i cui risultati, in relazione alla provincia di Belluno, sono stati presentati dal professore di Salisburgo nel precedente numero di questa rivista. L’approccio è squisitamente “quantitativo”, cioè mira alla classificazione dei dialetti in base alla misurazione della presenza o assenza di una serie di elementi scelti come idonei al confronto. Nell’articolo si leggono riferimenti proprio ad Alberto Zamboni, e ci fa piacere notarlo in occasione della sua scomparsa: per esempio a pagina 10, nota 8, Bauer sottolinea la coincidenza dei risultati della “classificazione tradizionale” (“qualitativa”) operata negli anni Ottanta dal linguista padovano, con quelli della dialettometria ottenuti oggi (il professore austriaco, in quella nota, si riferisce all’appartenenza del dialetto del Primiero al gruppo “veneto nord-orientale” che associa il trevigiano, il feltrino e il bellunese). La dialettometria, peraltro, non è di per sé una metodica nuova, ma affonda le proprie radici nelle tecniche di comparazione linguistica avviate negli anni Settanta (lo stesso Giovan Battista Pellegrini e la sua scuola se ne servirono, per ciò che di buono potevano dare), che peraltro non hanno mai soppiantato i modi tradizionali di analisi e classificazione linguistica proprio a causa dell’intrinseca incapacità di tenere adeguatamente conto dei fatti evolutivi, diacronici, e della natura delle relazioni.

L’articolo di Bauer, intitolato “Profili dialettometrici veneto-bellunesi”, presenta inevitabilmente limiti analoghi. Se n’è subito accorto Toni Sirena, giornalista attento, nella recensione all’austriaco pubblicata sul “Corriere delle Alpi” del 27 dicembre 2009 (p. 27): “il criterio è sincronico e non ha nulla a che fare con “parentele” da albero genealogico”, scrive il giornalista cogliendo nel segno, “la dialettometria ci consegna la fotografia dell’oggi”. Sirena evidenzia un altro limite di questa tecnica: “C’è semmai da ragionare sulla scelta dei parametri da confrontare, poiché resta la comparazione il criterio di fondo”. Per esempio, le parlate ladine ex asburgiche risulteranno assai distanti dai restanti dialetti ladini se considereremo validi ai fini del confronto classificatorio tutti i numerosi elementi lessicali tedeschi che sono penetrati soprattutto in Val Gardena ma anche in Val Badia. Se usiamo per il confronto voci “ladine” come druché (“stampare”), plata (“foglio”), grunt (“terreno”), papier (“carta”), tloset (“gabinetto”), tlomper (“idraulico”), ausené (“governare la casa”) e così via, di evidente derivazione tedesca e diffuse nelle parlate ladine ex asburgiche, è ovvio che la differenza rispetto al resto delle parlate ladine sarà enorme. Ed è facile immaginare la distorsione che ne deriva: la distanza dalle parlate ladine ex asburgiche potrà essere facilmente interpretata come segno di “annacquamento per italianizzazione” di tutte le altre, mentre in realtà l’ “annacquamento per tedeschizzazione” sta facendo analoghi - se non peggiori - “danni” dall’altra parte e contribuisce in maniera sostanziale a creare una frattura forte e una distorsione pesante del ladino autentico e originario. È l’avere come lingua-tetto l’italiano o il tedesco che sta creando la vera, marcata linea di divisione tra le parlate ladine. Un rischio ben noto ai ladini altoatesini, tanto che nelle fasi di redazione di Spell (il ladino unitario artificiale inventato a fini amministrativi nella ladinia ex asburgica) si è sentita l’esigenza di scegliere, nel vaglio delle varianti locali, quelle riconducibili alle vere radici del ladino, ovvero alle basi lessicali romanze, in tanti casi soppiantate dall’elemento tedesco. Mi risulta che per queste ragioni la variante ladina ex asburgica da cui sono state tratte più voci lessicali per la creazione di Spell è il dialetto di Livinallongo, di tipo ladino atesino, meno influenzato dal tedesco perché quel territorio è orientato geograficamente (e amministrativamente) verso Belluno.

Occorre prestare attenzione: spesso le parlate ladine ex asburgiche dell’Alto Adige risultano ben difficili da comprendere per gli italiani non perché sono “più ladine”, bensì “più tedesche”.

3. “Ladino dolomitico”, equivocità di una definizione

I limiti della tecnica adottata da Bauer sono peraltro aggravati dall’affiorare dei ben noti preconcetti sul ladino, ancora diffusi tra i linguisti di scuola austriaca: tant’è che leggendo l’articolo ben presto si intuisce quale sarà la conclusione: “Per quel che riguarda la vicinanza al sistema ladino dolomitico delle parlate prese in esame, i valori di similarità ivi riscontrati non permettono l’inclusione del cadorino o del comelicano nel ladino, bensì la loro classificazione come dialetti peri-ladini fortemente venetizzati (quindi di transizione), la cui vicinanza al ladino diminuisce gradualmente sia in direzione Nord-Sud (valle del Cordevole) sia in direzione Sudovest-Nordest (valle del Piave), mentre aumenta l’elemento veneto” (pagina 18 dell’ultimo “Ladin!”, anno VI, n. 2, dicembre 2009). In altre parole: inutile cercare il ladino tra le Dolomiti bellunesi, ladini sono soltanto i dialetti ex tirolesi. Peraltro la terminologia usata da Bauer, in linea con una radicata tradizione, ha bisogno di una doppia chiosa. Quando Bauer parla di “sistema ladino dolomitico” si riferisce in realtà ai soli dialetti delle valli Badia (Bolzano), Gardena (Bolzano), Fassa (Trento), Cortina d’Ampezzo (Belluno), Livinallongo del Col di Lana (Belluno) e Colle Santa Lucia (Belluno), ovvero all’area ladina che fu compresa dentro i confini del Tirolo fino alla prima guerra mondiale (che lo studioso chiama anche, con maggior precisione, “ladinia brissino-tirolese”). Tale accezione di “ladino dolomitico” appare palesemente (e anche fastidiosamente) equivoca, limitata e imprecisa, visto che le Dolomiti si estendono ben oltre le valli indicate e si collocano per la maggior parte proprio in Cadore, Agordino e Zoldo, dove ugualmente si parla ladino. Non si vede pertanto la ragione per dover continuare a sopportare la definizione “ladino dolomitico” in riferimento al solo ladino ex asburgico (semmai “ladino dolomitico occidentale”), quando essa potrebbe invece indicare, correttamente, tutte le varianti più o meno ladine parlate nell’intera area delle Dolomiti (mi parrebbe un efficace sinonimo della vecchia definizione di “ladino centrale”, posto fra il “ladino occidentale” che tutti ormai chiamano grigionese, e il “ladino orientale” che tutti ormai chiamano friulano).

In secondo luogo, notiamo che con troppa disinvoltura Bauer identifica il “suo” “ladino dolomitico” con il “ladino” tout court, altra scelta poco digeribile, proprio perché i tratti tipici del “ladino” (che per i linguisti è di fatto un “termine di comodo”, come dice l’udinese Giovanni Frau) si ritrovano ben oltre i vecchi confini del Tirolo.

Tale equivocità non giova allo stesso Bauer, nel senso della chiarezza. La frase citata poco sopra: “i valori di similarità ivi riscontrati non permettono l’inclusione del cadorino o del comelicano nel ladino” (a pagina 18; il corsivo è mio), va dunque interpretata nel senso che il cadorino e il comeliano non possono essere inclusi, dal punto di vista linguistico, nel sistema ladino ex asburgico, che ha come tipologia prevalente il ladino atesino fortemente tedeschizzato? Ebbene, ciò è ovvio per tutti, da sempre, semplicemente perché il tipo ladino cadorino (a cui appartiene a pieno titolo l’ampezzano, che è nell’area ladina ex asburgica) è marcatamente diverso dal tipo ladino atesino e non ha mai avuto il tedesco come lingua-tetto: non sorprende che anche la dialettometria riscontri un fatto linguistico ben descritto da oltre un secolo, e usato anche in senso classificatorio. 4. La ladinia ex asburgica non si fonda su fatti linguistici Piuttosto, con questo modo di ragionare Bauer lascia intendere che le parlate “veramente ladine”, ladine “per assunto”, sono quelle ex asburgiche, e il motivo è che possiedono come requisito fondante la vecchia appartenenza all’Austria. Tale criterio è totalmente extralinguistico e si pone in linea con il tentativo - avviato nell’Ottocento in ambienti austriaci - di formare una “coscienza etnica ladina”, fenomeno che interessa davvero poco all’esame scientifico dei fatti linguistici (l’Europa è piena di situazioni di stretta parentela linguistica, nell’ambito delle quali sono state perseguite e create divisioni di natura politico-etnica).

La nota 16 di pagina 15 è scritta da Bauer a rinforzo e illustrazione della sua accezione di “ladino (brissino-tirolese)”: “Il concetto della ladinia brissino-tirolese (che comprende le Valli Badia, Gardena, Fassa, Livinallongo e Ampezzo) si basa su due fattori extralinguistici molto importanti per l’identità dei parlanti, e cioè l’appartenenza plurisecolare alla Contea del Tirolo (Austria asburgica) da un lato e alla diocesi di Sabiona-Bressanone dall’altro (...)”. Dunque - ammette Bauer - il “ladino (brissino-tirolese)”, vale a dire ex asburgico, non è identificabile come tipo a sé stante per ragioni prettamente linguistiche, ma fonda la sua identità su fattori extralinguistici (“si basa”, scrive Bauer).

5. Un problema di metodo: non si mescolano criteri linguistici ed extralinguistici

Questo approccio non può trovarci d’accordo, per squisite ragioni di metodo: un conto è ragionare di linguistica, altro di extralinguistica. Se per ragioni esclusivamente politiche sosteniamo che l’ampezzano (che è un dialetto cadorino) è “ladino autentico” in quanto la sua area geografica appartenne alla ladinia politica brissino-tirolese, e per le stesse ragioni politiche escludiamo il cadorino dalle tipologie prettamente ladine, allora compiamo una operazione totalmente extralinguistica (di valutazione etnico-politica) ed è del tutto scorretto (oltre che inutile) il tentativo di mascherarla con ragionamenti di carattere linguistico. Viceversa, volendo restare sul piano della linguistica (e la dialettometria dovrebbe fondarsi su elementi rigorosamente linguistici, non extralinguistici), dichiarare l’ampezzano come “ladino autentico” - nonostante appartenga alla famiglia del ladino cadorino, diversa da quella del ladino atesino dominante nelle valli della ladinia ex asburgica - implica come conseguenza logica il riconoscimento dei tratti tipici del ladino cadorino come paradigmatici di uno dei tipi di “ladinità”.

In modo analogo, d’altra parte, si potrebbe riflettere sul dialetto di Colle Santa Lucia, tradizionalmente compreso nel “ladino doc” della ladinia ex asburgica, anche se dal punto di vista linguistico (e tralasciamo le sue probabili origini cadorine, testimoniate dalla toponomastica più antica) è assolutamente ladino-veneto, cioè appartenente a quell’area di transizione nella quale i tratti ladini sono sfumati a favore dell’omologazione con l’Agordino centro-meridionale influenzato dalla Valbelluna. Per cui, a rigore, se quello di Colle è “ladino autentico”, dal punto di vista linguistico non c’è dubbio che altrettanto si dovrebbe dire almeno del ladino di Selva di Cadore, Alleghe e San Tomaso Agordino, e non si potrà trascurare che Rocca Pietore ha tratti ladini molto più evidenti di Colle (che a nord del torrente Pettorina sono di tipo ladino atesino). Lo stesso tipo di ragionamento si potrebbe fare per la Val di Fassa, verso sud molto trentinizzata attraverso la Val di Fiemme, eppure considerata “ladina doc” in quanto ex asburgica.

6. Confini politici e confini linguistici

Non si ripete mai abbastanza che non esistono cesure nette tra i dialetti romanzi, cioè discendenti dal latino, e che dalla pianura padana si può arrivare fino in Spagna e Portogallo senza poter mettere un confine netto tra le parlate locali. Questo non significa che non esistono aree di maggiore conservazione, come sono - per ovvi motivi - le vallate alpine. Altre volte l’isolamento politico ed economico, in assenza di barriere fisiche naturali, ha rappresentato un motivo di mancata evoluzione e di differenziazione: è il caso della poverissima pianura friulana, che ha ribaltato le proprie sorti dalla nascita della Regione autonoma ma che prima ha vissuto in una condizione di marginalità e di isolamento tali da favorire marcati fenomeni di conservazione culturale e linguistica. Le carte politiche degli atlanti mostrano i confini tra Stato e Stato, ma nell’Europa romanza tali confini non corrispondono a vere e proprie cesure linguistiche. Tuttavia, il confine politico implica l’adozione di differenti “lingue-tetto”, ed è quindi comprensibile che i dialetti della Francia mediterranea, in origine non distanti dalle parlate dell’Italia nordoccidentale, via via si stiano progressivamente “francesizzando” a causa della loro linguatetto, il francese ufficiale, che finirà per differenziarli sempre di più dalle vicine parlate piemontesi e liguri. Le quali, nel frattempo, si stanno sempre più italianizzando per via dell’influsso della loro lingua-tetto, ovvero l’italiano ufficiale, di base toscana, diffuso dalla scuola, dalla letteratura e dalla tivù.

Dato che il ladino è un sistema di parlate romanze, cioè discendenti dal latino, è dunque ovvio attendersi una situazione di “continuità romanza” mano a mano che risaliamo dalla pianura veneta verso le Alpi e le Dolomiti. Continuità che appare più evidente attraverso i territori delle province di Venezia e di Treviso; che è caratterizzata da alcuni sorprendenti “scalini” mano a mano che si sale prima verso le Prealpi poi nella fascia più meridionale delle Dolomiti; che mostra “scalini” ancora più marcati nella parte settentrionale della provincia di Belluno, ormai troppo lontana dai grossi centri della Bassa che sempre determinano un’influenza culturale e linguistica a partire dai territori a loro più vicini.

Invece, il confine tra parlate romanze (neolatine) e parlate germaniche è ed è sempre stato di per sé netto. È facile segnare la fine del badiotto romanzo verso la Pusteria tedescofona, o del comeliano romanzo contro il Tirolo Orientale e la Carinzia tedescofoni, o del gardenese romanzo (ormai parlato da una minoranza di gardenesi, in un avanzato contesto tedescofono) verso la tedescofona valle dell’Isarco.

Quanto al vecchio confine tra Italia e Impero asburgico, il tedesco lingua-tetto nella “ladinia brissino-tirolese” (ex asburgica) evidentemente non è riuscito a determinare la scomparsa delle parlate romanze locali, né le ha influenzate a tal punto da far nascere un ibrido germanico-romanzo omogeneo, né ha stravolto le loro originarie fisionomie specifiche, né ha rotto i loro legami con le confinanti e imparentate aree romanze d’oltre confine, né ha contribuito a far emergere una parlata ladina di maggior prestigio capace di diventare ladino standard ufficiale. Se una “lingua ladina brissino-tirolese” doveva nascere, potremmo dire che non ha fatto in tempo. Poi, con il (brusco e violento) frazionamento della ladinia ex asburgica in seguito alla Prima Guerra Mondiale, è avvenuto che alcune di quelle parlate ladine (Ampezzo, Livinallongo, Colle e Fassa) sono state orientate e condotte entro un’area amministrativa, linguistica e culturale romanza a loro geneticamente omogenea e avente l’italiano come lingua-tetto, mentre Badia e Gardena, altoatesine, stanno continuando il loro percorso di parlate romanze inserite in un quadro politicoculturale germanico, con il tedesco - di fatto - come lingua-tetto e pertanto con una ben più schietta fisionomia di “minoranza linguistica” (in quanto dialetti neolatini in un contesto linguistico germanico). Di qua la possibilità di veloce italianizzazione, di là la possibilità di veloce tedeschizzazione. Nessuna possibilità di italianizzazione di Badia e Gardena, nessuna possibilità di tedeschizzazione di Ampezzo, Livinallongo-Colle e Fassa, a meno che non cambino i confini della Provincia autonoma di Bolzano. Di nuovo constatiamo che, se si ragiona di ladino in termini linguistici, il vecchio confine politico (extralinguistico) tra Italia e Impero non può essere utilizzato come parametro utile in senso classificatorio.

7. L’ALD: se i numeri nascondono i preconcetti

L’analisi dialettometrica realizzata da Roland Bauer si fonda sui punti di indagine dell’Ald, l’ “Atlante linguistico del ladino dolomitico e dei dialetti limitrofi” diretto da Hans Goebl, anch’egli dell’Università di Salisburgo, con lo stesso Bauer e Edgar Haimerl nella veste di corresponsabili del progetto. Un’opera colossale e molto utile, che però, in relazione all’area che ci interessa, nella numerazione dei punti d’indagine lascia trasparire il solito preconcetto volto a svilire la ladinità dei dialetti bellunesi settentrionali, oscurando (e dunque mistificando) le relazioni presenti, diacroniche e genealogiche. Si tratta di particolari piccoli ma non privi di significato, e tali da urtare, ovviamente, le sensibilità della ladinia non asburgica. I numeri dei punti di indagine non sono stati attribuiti a caso, e in molte situazioni il criterio risulta del tutto condivisibile: per esempio ha senso la consecutività di Larzonei (94), Ornella (95) e Arabba (96), tutti in comune di Livinallongo del Col di Lana, appartenenti allo stesso tipo linguistico ladino atesino. Ed è coerente che tale numerazione prosegua nella confinante Val di Fassa con Alba di Canazei (97), data la vicinanza linguistica oltre che geografica.

Non si spiega con logiche linguistiche, invece, il numero 92 dato al poligono di Cortina: risulta consecutivo al 91 di San Cassiano (Val Badia), che effettivamente confina geograficamente con la conca d’Ampezzo ma dal punto di vista linguistico è molto distante (Cortina ladino cadorino; S. Cassiano ladino atesino). Ci aspetteremmo, per lo meno, che il 93 si riferisse al Cadore, a indicare la vicinanza - sincronica e diacronica - del dialetto d’Ampezzo alle altre parlate del ladino cadorino (in particolare il confinante San Vito di Cadore); invece quel numero viene attribuito a un poligono neppure confinante con Cortina, ovvero Colle Santa Lucia, dove oggi si parla ladino-veneto (e non è del tutto chiarito se in origine la parlata di Colle fosse di tipo ladino cadorino). Lo scopo della manovra un po’ acrobatica è evidente: racchiudere la L adinia ex asburgica che oggi si trova in provincia di Belluno entro una numerazione consecutiva (dal 92 al 96) per evocare un legame forte e una situazione unitaria che invece non è, come mostrano i colori delle stesse carte dialettometriche di Bauer. Ancora una volta una visione extralinguistica condiziona la presentazione di dati che dovrebbero essere prettamente linguistici.

E così, se risulta coerente la progressione nella cadorina Valle del Boite: 134 Cibiana, 135 Vinigo, 136 San Vito, il numero 137 che secondo logica linguistica doveva spettare a Cortina finisce a Selva di Cadore (dove per ragioni di orientamento geografico-culturale il dialetto di origine cadorina ha assunto nel tempo spiccati tratti ladino-veneti), e da lì la sequenza scavalca il territorio di Colle Santa Lucia, che pure è linguisticamente vicinissimo a quello di Selva, per continuare più a ovest, a 138 Rocca Pietore e 139 Laste che invece appartengono al ladino atesino e che sarebbe stato opportuno mantenere numericamente contigui con Livinallongo.

Con queste scelte si è ottenuto di marcare il confine ex asburgico in provincia di Belluno contrapponendo serie numeriche vistosamente lontane, che non riflettono i reali rapporti di relazione linguistica dei dialetti. Un’attenzione che invece è stata riservata con evidenza alle altre zone, ladine e non.

8. Le carte dialettometriche. Una lettura diversa, quasi opposta

Le carte dialettometriche di Bauer - premessi i suesposti limiti “tecnici” della dialettometria - rappresentano comunque uno strumento di verifica davvero interessante, che giunge a supporto dell’approccio qualitativo per lo studio delle relazioni tra i dialetti. La nostra lettura, tuttavia, giunge a conclusioni spesso opposte rispetto a quelle di Bauer, pur utilizzando i suoi strumenti. 8a. La carta 1, con Belluno (punto 148) come centro di osservazione La carta 1 di Bauer ripubblicata in questo numero di “Ladin!” conferma che il dialetto di Belluno, rilevato con il punto di indagine 148, trova la massima somiglianza in Longarone (144) ma è evidente la contiguità (colore rosso) con tutto l’Alpago (San Martino 149, Farra 150), la Val Belluna (Sospirolo 147, Carve di Mel 152), il Feltrino (Feltre 154, Sovramonte 153, Fonzaso 155); un po’ più lontano risulta - e ciò non stupisce - Lamon (156). Nello stesso insieme di poligoni colorati in rosso figura anche Gosaldo (146), unico punto agordino molto simile a Belluno: non è una sorpresa, basti pensare a certi fenomeni “meridionali”, come la conservazione di -r all’infinito verbale, che distinguono Gosaldo da tutte le altre località dell’Alto Bellunese proprio nel senso di una maggiore affinità con le parlate bellunesi più “basse” (sul piano storico, una spiegazione sarà forse da individuare nell’antica importanza della Valle del Mis come asse di collegamento diretto verso sud, decaduta in questa funzione soprattutto dopo l’alluvione del 1966). I punti di indagine colorati in rosso danno un’alta risposta di somiglianza, con circa il 90% di corrispondenza dei fenomeni scelti da Bauer per il confronto dialettale. Lo stesso alto grado di somiglianza si riscontra rispetto a quattro punti del Primiero (106, 107, 108 e 109) ma anche alla pedemontana trevigiana e ai dialetti pordenonesi di confine con il Veneto, anche in questi casi a precisa conferma rispetto a quanto la linguistica qualitativa ha sempre evidenziato (comprese le maggiori affinità con alcuni centri lagunari e con Venezia stessa, rispetto ai dialetti della “Bassa” veneta).

Da Belluno si collocano su un gradino diverso, appena più distante, i dialetti agordini, perché più conservativi: quelli di Falcade (140), Cencenighe (141) e La Valle (145), indicati in arancio, sono comunque i dialetti più simili al tipo bellunese e le ragioni storiche (l’ininterrotta appartenenza politica ed ecclesiastica dell’Agordino a Belluno) lo spiegano bene. Essi rappresentano una situazione più arcaica rispetto alle parlate della Val Belluna (a Falcade sono ancora frequenti le palatalizzazioni di ca- e ga-), tale da consentirci di immaginare, in una visione diacronica, quali dovettero essere le caratteristiche più schiette delle parlate bellunesi meridionali (testimoniate anche dai testi letterari antichi che ci sono giunti), oggi molto annacquate dal contatto con i dialetti veneti centrali; lascia qualche dubbio, peraltro, la posizione di La Valle Agordina (145) che l’analisi dialettometrica dipinge probabilmente in modo troppo simile a Belluno, quando invece numerosi fenomeni di quella parlata risultano fra i più particolari (e di spiccata fisionomia ladina, come sono certi tipi di dittongazione) della vallata del Cordevole, tanto che sono possibili raffronti diretti solo con Livinallongo (ritorna il problema degli elementi che vengono scelti per il confronto dialettometrico). Rispetto ai dialetti veneti centrali - molto omogenei fra loro, molto deteriorati e quasi “piallati” dalle influenze reciproche - e rispetto alle parlate trentine, Belluno marca la stessa distanza quantitativa che registra nel confronto con l’Agordino, tanto che assumono anch’essi - dialetti veneti e dialetti trentini - la colorazione arancio a indicare una corrispondenza di fenomeni valutabile tra il 78% e l’85%. Belluno, insomma, fa da cuscinetto tra il trentino e il veneto centrale da una parte, e le aree dolomitiche ladino-venete e ladine dall’altra.

Più distanti, sempre ponendosi a guardare da Belluno, i poligoni gialli. Il conto grossomodo torna, rispetto ai tradizionali confronti qualitativi, ma non del tutto. Coi di Zoldo (142) e Astragal di Zoldo (143) presentano caratteristiche lessicali e fonetiche capaci di marcare una maggiore lontananza dal capoluogo rispetto alle parlate agordine centromeridionali, anche se - come queste - sono caratterizzate da una ridotta presenza di fenomeni “ladini” tanto da essere tutte comprese nel ladino-veneto. È sempre giallo ma meriterebbe, per così dire, una sfumatura diversa il colore di Selva di Cadore, perché non si lega ai fenomeni peculiari zoldani ma partecipa - in senso più conservativo - dei fenomeni tipici dell’alto Agordino (Alleghe e San Tomaso, se fossero stati rilevati, avrebbero probabilmente dato analogo risultato “giallo” nella misura della distanza dialettale da Belluno).

L’analisi dialettometrica risponde ugualmente “giallo” anche in riferimento alla cadorina Valle del Boite (Vodo-Vinigo 135; San Vito 136), e il risultato un po’ sorprende (qui torna il dubbio sugli elementi linguistici scelti per il confronto) date le spiccate e ben note differenze tra il tipo cadorino e quello bellunese (rilevabili persino nella zona di confine tra Ospitale-Perarolo e Longarone, che l’analisi dialettometrica non indaga), ma anche zoldano; su tutti i fenomeni, prescindendo dai cospicui fatti lessicali, ricordiamo la massiccia (e qualitativamente rilevante) conservazione di -s latina e la frequentissima palatalizzazione di ca- e ga- in Valle del Boite (altro tratto ladino qualitativamente rilevante). L’aver eseguito l’indagine nella conservativa frazione di Pozzale, peraltro, conferisce al poligono di Pieve di Cadore (133) uno spiccato carattere di differenziazione con Belluno che non mostra la reale situazione sincronica dello storico capoluogo cadorino, mentre il meridionale punto Cibiana (134) identifica, com’è noto, una situazione particolarmente conservativa, per la quale la colorazione gialla appare discutibile, come detto per la Valle del Boite; ma il ragionamento vale anche nei confronti di Auronzo (131). Tutta da spiegare, poi, la maggiore vicinanza di Lorenzago di Cadore a Belluno (più di Pieve-Pozzale 133!), secondo quanto risulta al confronto dialettometrico operato da Bauer.

Risultano 9 i poligoni verdi, dove è stata rilevata una somiglianza di fenomeni linguistici, rispetto a Belluno, che varia tra il 61% e il 72%, tutto sommato ancora elevata. È la stessa distanza, per capirci, che dal punto di vista quantitativo si registra tra il dialetto di Belluno e l’italiano standard. Il verde accomuna situazioni diversificate, che però viste da Belluno possono in effetti apparire analogamente distanti. I tratti fonetici del Comelico più lontano (Costalta 129, Casamazzagno 130), oltre al lessico, fanno apparire quella regione più distaccata rispetto agli altri dialetti del Cadore, e lo stesso vale per Cortina, che in effetti rappresenta l’altro estremo cadorino. Può sorprendere la (relativa) vicinanza con Livinallongo (94, 95 e 96), anch’esso verde, che, stando alle mappe di Bauer, dal punto di vista quantitativo condivide con Belluno una discreta somma di tratti, più o meno pari a Rocca Pietore (138), Laste (139) e Colle Santa Lucia (93), nonostante siano tutte zone sostanzialmente riferibili al ceppo del ladino atesino.

Se l’area ladina ex tirolese oggi compresa nella provincia di Belluno risulta “verde” agli orecchi del capoluogo (cioè non troppo lontana, tra il 61% e il 72% di somiglianza), davvero marcato appare lo stacco con le parlate ladine di Badia e Gardena, in Alto Adige, colorate in blu (somiglianza con Belluno tra il 39% e il 50%) senza che vi sia tra Livinallongo (94, 95 e 96) e Colfosco (89), Corvara (90) e San Cassiano (91) alcuna zona di cuscinetto azzurra. La presenza di questo netto confine tra verde e azzurro, che divide in due un’area di identica matrice romanza qual è la ladinia atesina, si spiegherà in parte con la maggiore distanza assunta dall’abito fonetico delle parlate ladine altoatesine (che maschera molto le basi etimologiche spesso identiche al bellunese) ma fa soprattutto i conti con le conseguenze della differente lingua di riferimento di quelle vallate, ossia il tedesco lingua-tetto, a conferma di quanto evidenziato più sopra.

Nella stessa direzione di ragionamento ci porta la colorazione azzurra dell’alta Val di Fassa (Alba di Canazei 97 e Campitello 98), ovviamente molto distante da Belluno (la somiglianza oscilla tra il 50% e il 61%) ma non quanto Gardena e Badia, probabilmente proprio in virtù della differente lingua-tetto (l’italiano, in Val di Fassa). Si noti, in definitiva, che l’area ladina brissino-tirolese vista da Belluno appare tutt’altro che omogenea e parimenti lontana: si evidenzia per massima distanza soltanto la sub-regione del ladino altoatesino, con il tedesco come lingua-tetto. Va anche rilevato che nessun punto azzurro né blu (quelli che marcano la “massima distanza”) emerge nel confronto tra Belluno e le altre parlate della provincia, nemmeno con quelle della ladinia ex tirolese, che dunque non è così lontana come certi luoghi comuni erroneamente tramandano.

8b. La carta 2, con Cencenighe (punto 141) come centro di osservazione

La linguistica quantitativa classifica il dialetto di Cencenighe Agordino come ladinoveneto, cioè di transizione tra il veneto e il ladino. La carta 2 di Bauer lo conferma perfettamente. Qui approfitterò per chiarire che quando si dice ladino-veneto non si fa riferimento, propriamente, a una zona di transizione verso il cadorino o verso i dialetti atesini, ma di fatto verso un terzo tipo di ladino dolomitico che potremmo chiamare ladino bellunese, di cui vediamo traccia, nel senso della maggior conservazione oggi attestata, ad Alleghe, San Tomaso, Colle Santa Lucia, Selva di Cadore e - meno evidente - a La Valle Agordina e in Zoldo. Questo tipo doveva essere riscontrabile in tutto l’Agordino e almeno in Val Belluna, se non più a sud.

La massima vicinanza di Cencenighe (colore rosso) viene registrata proprio rispetto alle altre parlate che la linguistica qualitativa definisce ladino-venete, ossia Falcade (140), Coi di Zoldo (142), Astragal di Zoldo (143), La Valle Agordina (145) e Gosaldo (146). La Val Belluna, l’Alpago, il Feltrino, la Pedemontana veneta e il Primiero sono un po’ più distanti (arancio), ma non tanto quanto il Trentino e il Veneto centrale (gialli), troppo “appiattiti” per risultare vicini a un’area di conservazione com’è - nonostante il progressivo impoverimento linguistico - Cencenighe. Giallo è anche in buona parte il Cadore, ma per tutt’altre ragioni: si evidenzia qui lo stacco abbastanza netto con il tipo ladino del Cadore, di ceppo diverso dall’Agordino (ma Pozzale di Pieve di Cadore 133 e Lorenzago 132, maggiormente venetizzati, finiscono per risultare più simili al dialetto di Cencenighe). Interessante anche il giallo di Laste 139 che in effetti è di altro ceppo: quel ladino atesino che manifesta più marcatamente i suoi tratti nel verde di Livinallongo (94, 95 e 96). Da notare che il dialetto di Colle Santa Lucia (93, arancio) per le ragioni dette sopra non si mostra molto distante da Cencenighe ed è perfettamente paragonabile, per vicinanza, a Selva di Cadore e Rocca Pietore. I tratti peculiari soprattutto fonetici di Badia e Gardena, che Belluno sente troppo ostici e lontani, per Cencenighe sono un po’ più “digeribili”, ma il colore azzurro (anche in alta Val di Fassa) e blu evidenzia tutta la distanza di quelle parlate, appesantita ovviamente dove la lingua tetto è il tedesco. Sta di fatto che anche guardandola da Cencenighe, la ladinia brissino-tirolese o ex asburgica appare tutt’altro che omogenea: Livinallongo e Cortina hanno un considerevole grado di similarità con Cencenighe (verde) e Colle Santa Lucia è addirittura arancio, mentre l’area ladina altoatesina e dell’alta Fassa è al di là di una grossa barriera.

8c. La carta 3, con Pozzale di Pieve di Cadore (punto 133) come centro di osservazione

Vista “dall’alto” del ladino cadorino, la provincia di Belluno appare come un’area tutto sommato abbastanza omogenea e a sé stante rispetto ai territori contigui. Non c’è da stupirsi se la maggiore vicinanza Pozzale la sente con Lorenzago e con il resto del Cadore (rosso), cioè con la regione del ladino cadorino, a cui appartiene. E bisogna sottolineare che a Pozzale siamo pur sempre agli immediati margini del capoluogo (che, ovviamente, patisce molto la venetizzazione), perciò non meraviglia che Cortina (92) - estrema propaggine cadorina a ovest - risulti appena più distante come parlata (colore arancio), così come Costalta (129), ultimo punto cadorino di rilevazione a est. Più difficile spiegare, senza conoscere i parametri usati per il confronto, il giallo di Casamazzagno (130). Abbastanza vicini a Pozzale risultano anche Colle Santa Lucia (93), Rocca Pietore (138) e Laste (139), colorati in giallo.

Anche la carta 3 ci propone la solita divisione interna nella ladinia ex tirolese. Cortina, che parla cadorino, ha ovviamente un profilo di similarità molto vicino a Pozzale (arancio), ma il ladino atesino schietto e conservativo di Livinallongo (94, 95 e 96, colorato in verde) può perfino sorprendere per i suoi valori di similarità ben superiori al 50% (tra il 57% e il 67%). Lo scarto netto, invece, compare rispetto al ladino atesino dell’Alto Adige (azzurro e blu), dunque con la zona che ha il tedesco come lingua-tetto, mentre balza agli occhi che la lontana Val di Fassa, parimenti caratterizzata dal ladino atesino ma con l’italiano come lingua-tetto, risponde a Pozzale di Cadore come Livinallongo, ossia con valori di similarità ben più alti del 50% (verde). Il vero confine, ancora una volta, non appare quello extralinguistico determinato dalla vecchia appartenenza al Tirolo, bensì corrisponde alla linea di demarcazione tra l’italiano e il tedesco come lingua di riferimento.

8d. La carta 4, con Casamazzagno (punto 130) come centro di osservazione

Molto interessanti risultano gli esiti dialettometrici con Casamazzagno (130) come punto di osservazione. In piena analogia con la carta 3 centrata su Pozzale (133), anche il paese cadorino del Comelico, caratterizzato da forti tratti linguistici di conservazione e di evoluzione separata, sente l’intera provincia di Belluno molto vicina (quasi tutta arancio, con valori di similarità tra il 65% e il 70%) ma “abbandona” al giallo la pedemontana trevigiana, che pur essendo molto simile, dal punto di vista linguistico, alla Val Belluna, presenta - com’è ovvio - una maggiore tendenza alla venetizzazione: dalla prospettiva di Costalta questo si vede bene. I dialetti più vicini a Costalta (rossi) sono quelli del Cadore più limitrofo, mentre si distanzia di poco la cadorina Valle del Boite (arancio). Cortina è più lontana (giallo, similarità tra il 59% e il 65%) e viene percepita - ciò risulta singolare e interessante - alla stessa stregua di Livinallongo (94, 95 e 96) e di Rocca Pietore (138) e Laste (139), mentre l’ex asburgico territorio di Colle Santa Lucia (93) risulta linguisticamente più vicino (arancio), a ulteriore riprova della sua forte connotazione ladino-veneta. Per la quarta volta si ripropone la divisione linguistica interna all’area ladina ex asburgica: da Costalta la geograficamente lontana Val di Fassa (97, 98, 99, 100 e 101), di ladino atesino ma con l’italiano come lingua-tetto, risulta linguisticamente ancora prossima (verde, valori di similarità tra il 53% e il 59%), mentre le altoatesine Badia e Gardena, orientate al tedesco, sono colorate di azzurro omogeneo (valori di similarità più bassi, tra il 46% e il 53%).

9. Conclusioni

Le carte dialettometriche di Bauer, pur con i limiti caratteristici dell’approccio quantitativo, testimoniano che non esiste una unità linguistica ladina nell’area brissino-tirolese, ossia ex asburgica. Non solo: i due grandi e più vistosi raggruppamenti interni a quell’area (che ha senso continuare a considerare unita solo in un approccio extralinguistico, ovvero storico-politico) non corrispondono alle due grandi famiglie ladine là rappresentate, ossia il ladino atesino e il ladino cadorino, bensì dividono i territori orientati all’italiano contro quelli dominati dal tedesco.

Ormai dovrebbe considerarsi sfatato - ora anche grazie alle carte di Bauer - il mito di una ladinità “doc” conservativa e omogenea entro i confini dell’ex Tirolo asburgico. Non si può non notare, piuttosto e per l’ennesima volta, che le aree ladine brissino-tirolesi non orientate al tedesco (ovvero Fassa, Livinallongo, Colle Santa Lucia e Cortina d’Ampezzo) sono vistosamente vicine, dal punto di vista linguistico, alle aree contigue, e ripropongono il solito quadro di transizione graduale dei dialetti, ben noto a chi studia le parlate romanze (ovvero: in Val di Fassa verso i dialetti trentini; nelle Dolomiti centrali verso i dialetti bellunesi).

Quanto alla pretesa oggettività assoluta dei rilievi dialettometrici e delle conseguenti deduzioni, ostentata da Bauer in conclusione dell’articolo dell’ultimo “Ladin !” (pp. 18- 19), credo essa meriti di essere sottoposta a verifica magari mettendola a confronto con la nota 22 di p. 16 di quello stesso studio. Il professore, che si sente necessitato a trovare una spiegazione all’imprevista e rilevante somiglianza tra Pozzale e Cortina, vi afferma che “l’alta similarità intralinguistica tra il cadorino (di Pozzale) e l’ampezzano va senz’altro letta come emanazione della storia extralinguistica comune (che durò fino all’inizio del Cinquecento)”. Ciò, francamente, fa sorridere e quasi imbarazza. Ricorderemo al professore che la storia comune tra Pozzale e Cortina, prima del Cinquecento e fin dall’epoca preromana (mille anni prima che fossero abitate stabilmente le valli ladine atesine), è anche e pienamente linguistica! E non sono bastati quattro secoli di appartenenza extralinguistica al Tirolo per cancellare i tratti cadorini della parlata di Ampezzo di Cadore.